C’è un ponte capace non solo di collegare ma di far dialogare, unire in grande armonia Occidente e Oriente, spiritualità e materia. È il ponte nella costruzione del quale sono impegnati tanti di noi ma anche tanti artisti visivi tra i quali possiamo citare Kimsooja, Shirin Neshat, Wang Qingsong, Takashi Murakami, Imran Qureshi, Francesco Simeti, Alessandro Moreschini, Gonkar Gyatso. Sul lavoro di Gonkar Gyatso mi sono soffermato in diverse occasioni tra le quali un’intervista pubblicata proprio qui sulle pagine del Wall Street International dove ho definito Gyatso, artista inglese-americano nato in Tibet, un “etnografo post-globale” interessato a sviluppare i legami tra l’iconografia tradizionale buddhista e la cultura pop occidentale, tra la tradizione spirituale orientale e la cultura materialistica occidentale, dedicando a entrambe la stessa cura e attenzione.
Torno a parlare di Gonkar Gyatso poiché visitando una sua personale presso la Galleria Mimmo Scognamiglio di Milano ho potuto vedere un nuovo ciclo di opere decisamente diverse da quelle per le quali Gyatso è conosciuto in tutto il mondo, quelle per intenderci con gli adesivi che ricoprono totalmente immagini del Buddha fino quasi a nasconderle. Si tratta di opere “astratte” per definire le quali James Putnam, curatore della mostra, ha utilizzato il termine “trascendentale” alludendo così a qualcosa di mistico, che va “oltre il pensiero” ma che in un qualche modo influisce sulla nostra vita pratica.
Le opere di Gyatso, basate sull’iconometria tibetana dove ogni immagine è un simbolo e ogni particolare ha un suo specifico significato, con tutti i testi ritagliati e gli adesivi colorati provenienti dal nostro immaginario consumistico (Mc Donald’s, Coca-Cola, Louis Vuitton ma anche le icone di Facebook e Twitter... ) attirano immediatamente l’attenzione dell’osservatore che non si sente per niente escluso o disorientato ma anzi conosce già alcuni dei codici con i quali “decodificare” l’opera avendo appunto familiarità con quelle frasi o con i loghi di quei marchi. Il termine “trascendentale” invece ci porta proprio in una direzione opposta richiedendoci un ripasso di alcuni concetti importanti che sembrano lontani dalla nostra vita quotidiana. Si tratta infatti di un termine molto presente in religione e filosofia, utilizzato per la prima volta nella Scolastica e in particolare da Tommaso d’Aquino per indicare concetti come verità o bontà che pur riferendosi concretamente a tutti gli esseri umani, hanno una universalità in quanto possibili grazie alla volontà di un essere perfetto come Dio che li ha resi possibili. Per un altro importante filosofo come Kant sono “trascendentali” quei concetti che pur trascendendo la realtà, cioè stando al di là dell’esperienza, sono indispensabili per conoscere ed ordinare i dati dell’esperienza stessa. Il concetto è poi stato utilizzato da tanti altri pensatori come Fichte, Schelling, Gentile, Husserl a testimonianza della fortuna che quel concetto ha avuto nel dibattito culturale internazionale.
James Putnam usa questo termine in senso generico per indicare il fatto che le nuove opere di Gyatso trascendono, cioè vanno oltre, superano certi limiti. Pur condividendo la scelta del termine fatta da Putnam e il quadro concettuale che ne sta alla base mi piace però sfruttarne la radice “trans” che definisce la capacità di superare le normali divisioni e soprattutto se pensiamo al mondo dell’arte mi fa pensare al movimento della Trans-avanguardia di Achille Bonito Oliva ispirato proprio a questa capacità “trans” cioè di creare collegamenti. Diverse opere appartenenti a questo nuovo corso (pensiamo per esempio a 2.381 Prayers (2015), 3.448 Prayers (2015), 1.362 Prayers (2015) hanno una forma quadrata. Il quadrato è simbolo della terra, dell’universo creato. È una figura anti-dinamica che indica sia lo spazio che la stabilità: per esempio a chi non è capitato di trovarsi in un luogo che non sentiva suo e che non lo faceva sentire “a casa” e provare smarrimento?
Ecco quando parliamo di stabilità in riferimento allo spazio facciamo riferimento a questo tipo di condizione. All’interno del quadrato molto spesso troviamo il cerchio simbolo sia del tempo che dell’eternità, della spiritualità, della crescita interiore. È chiaro quindi che la figura contenente sia il cerchio che il quadrato è una rappresentazione simbolica dell’universo e ne esprime l’equilibrio. In queste nuove opere Gyatso crea una struttura quadrata all’interno della quale inserisce un cerchio che ha la forma di un vero e proprio mandala. Se per Jung il mandala è un cerchio protettivo della personalità più intima che tiene lontane le preoccupazioni provenienti dall’esterno, nel Buddhismo il mandala rappresenta il processo mediante il quale il cosmo si è via via formato a partire dal suo centro. In realtà nella produzione di Gyatso la simbologia del mandala è già stata presente: pensiamo all’opera Shangri-La del 2014 citata nel precedente articolo o alla serie My Identity del 2003 dove l’artista posava nei panni di diversi personaggi tra i quali un monaco buddhista e un soldato cinese impegnati a dipingere diversi soggetti tra i quali c’era proprio un mandala. Si trattava comunque di opere nelle quali prevaleva la figurazione mentre queste opere più recenti sono opere essenzialmente astratte.
E questo è anche un passaggio importante: nella tradizione buddhista di creazione del mandala le immagini fisiche che compongono il mandala servono per costruire il vero mandala che si crea nella nostra mente. È per questo per esempio che al termine del lavoro il mandala viene distrutto a testimonianza della caducità delle cose e della rinascita essendo la forza che distrugge anche la forza che dà la vita. A tale proposito James Putnam precisa: “nonostante la formazione iniziale di Gyatso in questa antica tecnica sia stata contrassegnata da una natura estremamente sacra e religiosa, l’attuale interesse nei mandala è riferito in particolar modo alla forma geometrica ed al colore piuttosto che ad una insita simbologia buddhista. L’iconometria svolge nella pittura tibetana un ruolo di ‘grammatica del disegno' e di scienza delle proporzioni che ha però uno scopo liturgico e un valore che trascende la pura osservanza di un canone estetico. La conoscenza di queste regole permette di costruire mandala che possiedono qualità figurative simili all’arte astratta occidentale”.
Molto particolari l’opera 3.888 Prayers, dove la rappresentazione simbolica dell’universo è resa come da tradizione thangka attraverso l’uso pittorico dei segni grafici dell’alfabeto, e l’opera 1.036 Prayers dove l’elemento che compone il mandala è il fiore di loto che nel Buddhismo è simbolo della capacità di non farsi scoraggiare e sporcare dalla corruzione del mondo, simbolo di purezza quindi ma anche di rigenerazione spirituale, di risurrezione e immortalità, poiché capace di produrre semi anche dopo 400 anni.
Gonkar Gyatso torna quindi ancora a stupirci con opere meno d’impatto rispetto a quelle abituali ma con una carica introspettiva ed emotiva maggiore. Un nuovo corso di ricerca che pur mantenendo tutte le caratteristiche proprie della ricerca di Gyatso acquisisce una dimensione più intima e riflessiva, una universalità che accomuna tutti al di là delle differenze, un invito generalizzato a guardare ciò che più ci accomuna più che ciò che ci differenzia. Una nuova scommessa non solo per Gyatso ma per tutta l’umanità.