Ci sono questioni ricorrenti della nostra storia che paradossalmente ci inquietano e annoiano allo stesso tempo. Il riscaldamento globale, la sostenibilità, lo sfruttamento delle risorse e l’inquinamento ambientale, nel loro insieme sembrano argomenti per specialisti, al di fuori della portata dell’uomo comune.
Questi temi sono affrontati sempre più spesso dal punto di vista scientifico e, visto che questo non è il linguaggio comune, risultano per molti noiosi e incomprensibili quando addirittura ci lasciano senza soluzioni con una sensazione di sconforto e sempre più spesso d’impotenza. Non tutti siamo avvezzi al linguaggio scientifico ma forse c’è qualcos’altro che ci allontana da queste emergenze universali.
A parte un certo conformismo ecologico, nella nostra società questi temi sono vissuti raramente in prima persona. Pochi si sentono in colpa di appartenere e di lavorare per un meccanismo economico che produce scarto, inutilità e spreco. Ancora meno suppongo sono quelli che in questi anni di passata abbondanza abbiano moderato i propri consumi semplicemente perché nel mondo ci sono degli equilibri da rispettare. Così siamo portati a incolpare i sistemi (stati, governi, aziende o il genere umano) ma raramente facciamo calare la colpa su noi stessi e sui nostri comportamenti. A tutto ciò si aggiunge un approccio conoscitivo concitato e divorante che realizziamo quotidianamente attraverso i mezzi d’informazione che ovviamente puntano alla sintesi, all’effetto e al risultato immediato. Perché è questo che ci chiede la vita: un report. Pertanto cosa meglio di un numero o di un teorema (purché breve) racchiude meglio questo concetto?
I report e le statistiche in fondo ci sollevano da tante responsabilità quotidiane perché non implicano quasi mai la dimensione filosofico-morale e non danno giudizi sui singoli. Quindi finché tutto ciò resterà nella dimensione scientifica o tecnologica saremo psicologicamente salvi. È grazie al progresso scientifico e tecnologico che possiamo monitorare e misurare i disastri che abbiamo causato ma questa abilità non ci mette nella condizione di confrontarci con la nostra coscienza di singoli esseri umani. La storia dell’uomo ha dimostrato come la conoscenza e il sapere ci rendano maggiormente consapevoli delle nostre azioni, soprattutto se queste vanno d’accordo con l’interesse di chi per affermare il proprio potere diffonde la “propria verità”.
Nella società della “specializzazione del sapere” anche il problema dell’ambiente è ormai una questione per tecnici del settore, come se l’estinzione della specie umana (in realtà raramente si parla in questi termini) fosse trattata alla stregua di un problema patologico. Ciò che sentiamo abitualmente è appunto: salviamo il pianeta, salviamo gli animali e la biodiversità, salviamo gli alberi. Perché tutto deriva dai tristi report della nostra distruzione. Credo che oggi più che mai abbiamo bisogno di conoscere il pianeta, di approfondire il valore irrinunciabile della biodiversità e di comprendere il mondo vegetale, per una sola unica ragione: salvare l’uomo da un’inevitabile estinzione.
Naked Plants è nato da un personale senso di rivolta e di conflitto aperto nei confronti della sensazione di impotenza e sconforto senza speranza. Ho sentito urgente e necessario, come artista, la ricerca di un collegamento diverso con la realtà omologata dei nostri tempi per dare una forma, un nome e un significato alla terra dell’indifferenza e dell’oblio sulla quale crediamo di abitare tutti.
La cultura dello scarto ci fa allontanare irrimediabilmente dal sapere. Il sapere contiene l’esperienza e il tempo. È generato e fa parte dell’evoluzione del mondo. La cultura dello scarto (usa e getta) annulla il significato del tempo e non genera alcuna evoluzione. Abbiamo bisogno di nuovi appassionati esploratori che si addentrino nei territori inesplorati del mondo vegetale che non è un semplice insieme di piante ma un tessuto connettivo su cui ha avuto origine la nostra vita. Il cosmo vegetale è un corpo più grande di cui siamo piccola parte. Finché non saranno superati il pregiudizio e la cecità dell’uomo civilizzato, le piante che nel loro insieme costituiscono la maggior parte del nostro pianeta, saranno semplicemente invisibili e come tali “relativamente utili”. Tuttavia l’ambiente non è una categoria morale di una religione in disuso e nemmeno un senso di colpa che preferiamo scrollarci di dosso.
Le piante sono dai tempi più antichi il simbolo della vita, l’espressione della meditazione e del senso del tempo. In esse è racchiuso il segreto dell’evoluzione di questo pianeta e la nostra vita che condivide con loro il 26% dei geni. L’albero in moltissime culture antiche e in altrettante contemporanee è venerato come fonte di sapere, di conoscenza del bene e del male. Ci sono alberi giganteschi adorati per la loro sacralità. Le foreste hanno ispirato la costruzione dei primi templi. Gli alberi sono stati il nostro primo rifugio e una delle prime conoscenze del tempo lineare. Gli alberi sono la dimora magica di milioni di esseri viventi, dalla loro vita dipende un ciclo universale fittissimo di relazioni biologiche. Le piante hanno infiniti modi di manifestare i colori, l’energia e i profumi attraverso la luce e il rapporto con l’ambiente. Forse è giunto il tempo che uomini nuovi si accorgano di questo valore e facciano di queste relazioni uno dei perni della ragione e della gioia della vita.
Sento di vivere su questa terra in sintonia con ciascuno dei suoi elementi e la rispetto nelle sue radici più incerte e misteriose. Quando ho ripreso queste piante il lavoro più bello è stato il rapporto con loro. La sensazione tattile nel toccare le loro radici, il profumo delle loro foglie che cambia come un segnale nel momento in cui le ho estratte dalla terra, la sorpresa nel vederle sospese per pochi istanti attraversate dalla luce colorata e il piacere di ridonarle vive alla terra. Le piante sanno comunicare in moltissimi modi a noi sconosciuti. In questa ricerca ho cercato di dialogare con loro attraverso esperienze diverse mettendo in relazione questi esseri straordinari con la mia esperienza e con quella di alcune persone incontrate in questo lungo percorso. È stato un viaggio sorprendente che mi ha rivelato conoscenze e sensazioni differenti. Ho compreso un passato personale che pur vissuto da sempre nell’amore per la natura si rivelava cieco ai segnali del mondo e del cosmo. Che importanza può avere l’esistenza se siamo consapevoli soltanto dei suoi piccoli effetti senza sperimentare un tempo e una dimensione diversa da quella della velocità, dello scarto insensato e dell’eccitazione tecnologica?
Se in un mondo globalizzato come il nostro facciamo ancora fatica a comprendere e integrarci con i linguaggi dei nostri simili come potremmo pretendere di capire facilmente quelli di esseri così apparentemente diversi da noi, come quelli delle piante? Confido che l’uomo possa essere ancora una volta geniale fonte creatrice di vita (non solo abile distruttore) piantando un seme che farà nascere un albero.
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Aboca Museum