Silenzio. La terribilità delle sirene non è il loro canto. Bensì nel loro Silenzio.
Un passo di danza. Un passo di danza ancora. Un salto che è un inciampare. Un incespicare. Solo il fruscio delle vesti.
Ascolta.
Eccole - benvenute - loro a raccontarsi. Incedono celebranti a ri-velarci della loro Sapienza.
Esponiamoci noi, porgendo ora, l’udito, alla voce, all’urlo silente del Sacro Feminino.
Affiorano per mano di pittura, desiderose di restituire al mondo intero- tutto, uno sguardo sconcertantemente opacizzato. Dimentico pensare che ha tradito e violato le leggi sacre della vita.
Le tre figure sono le Moire. Analoghe le Parche e le Norme che sono solo altre nominazioni per un uguale sacro. Presiedono queste, a ogni manifestazione della vita. Ingovernabili anche dagli dei, tessono e recidono il filo. Il filo del respiro. Sciolgono il nodo di ogni appartenere. Inesorabili. Triade preposta a mantenere nella liturgia della ciclicità, l’ordine immutabile della vita quale i nostri sensi di umani-mortali possono percepire.
Rispondono ad Ananke, al principio di necessità: l’unica legge di natura. No, non legge concepita dall’umano. L’umano-fragile dimostra, oltremodo, di cedere la vista, barattandola per balucinanti mascheramenti.
Ma loro comunque esistono. Esistono e Operano. Operano comunque.
Chi vede sa. Sa che è assunto dell’incarnazione del femminile il circolare spiraliforme senso dello svolgersi del Tempo, come del maschile lo è la linearità nelle sue leggi fisse e ragionate senza sgrammaticature.
Conosce la Donna la metafisica della creazione che la rende capace di procreare, curare ma anche, anche di sottrarsi a questa conservazione.
Narrazioni antiche alle sorgenti del mondo, la ritengono depositaria per questo, e per molto altro, di un potere che sa farsi assoluto in materia di vita.
Sussurrano queste figure, che vi è follia che intuisce come le cose devono andare. Follia plausibile di leggere nei codici di verità della vita in divenire, e che questa abilità è del feminino, quando si fa danza concitata di parola e passo del dismaniare.
La follia ubriaca e rinsavita di assoluto , incessantemente conosce quando è il momento della fine.
Come ogni donna non deprivata di sé sa.
La morte propone una propria perfezione. Forse si può dire. Loro, le Moire così oracolano. A ciò ci iniziano.
Non veliamo gli occhi. Non abbassiamoli. Facciamoci vaso-di-visione. Eros e Thanatos si annodano indissolubili in quanto l’amore quando assume in sé la potenza dell’eros, trasforma, perché vivere si dà come costituito, costruito da continue ri-generazioni. Ascoltiamo ancora, perché si possa com-prendere che è la follia erotica il fluido che trasforma onorando e scegliendo, la vita come pratica delle continue ri-voluzioni. A ricalcare il tema intramontabile dell’eterno alternarsi del solve et coagula.
Di loro, Cloto è quella bianca, Lachesi quella rossa e Atropo la nera.
I riferimenti alchemici sono eclatanti in questi cromatismi. Ma invertito è il ritmo delle penultime. La sapienza dell’Opera Regia che immagina nella fase rubedo la sua esaltazione, la sua apoteosi, cede invece il passo alla Nera, alla condizione della nigritudine come implosione. Come sprofondamento abissale.
Atropo taglia il filo con le dita come fossero forbici, ma non sono qui rappresentate come strumento. La diretta figurazione è stata elusa, non per licenza artistica o fantasticheria, sta per significare che è per tocco lieve, della crudele grazia di un solo istante, che il taglio avviene. La sospensione per eterno accade per mano di trascendente amore di sapienza sacra. Amore della vita che è smania d’amore per se stessa. Lei è il tagliare stesso.
Lei è la contemplazione di ogni mistero. Lei è di verità la luce oscura. E’ ogni principio e ogni fine.
Nel grembo di Atropo si avvicenda il nascente. In natura si osserva che ciò che termina il proprio ciclo permette e prevede che se ne instauri uno verginale sul medesimo o differente piano.
Archetipo di generazione perpetua, nel ventre gravido di creazione, la polifonia ordinata degli scacchi di luce e ombra invitano a partecipare del mistero dell’uno che attraverso un gesto, quindi un atto di amore ancora, attende di farsi manifestazione del molteplice. Immanenza di ogni differenza che celebra in ciascun frammento la composizione dell’assoluto che nella mente imaginifica si fa uovo.
Un filo. Il filo le attraversa penetrandone le mani. Loro sono le supreme leggi della vita ma anche sono al servizio delle stesse per cadenzare i processi. Ne stabiliscono i tempi, rispondendo a una intelligenza sottile che appartiene come facoltà al Trascendente o Spirito Eterno.
Il lapis, ovvero il drago rosso sancisce il sacrificio. Precipita per rinnovarsi a sua volta. Erotico concedersi per originare ogni nuovo.
Nel cominciamento del racconto mitico di questo quadro, procede la figura in bianco offrendo una rosa. Vortice di petali che uno a uno, in un silenzio intriso di profumo, imploderà in se stesso nel decadimento delle illusioni.
Le tre Signore del tempo sanno. Partecipano del regno ctonio esibendo la loro voluttuosa coda ofide, ma anche appartengono al regno del celeste come creature volatili, ineffabili.
Tutto è in loro e loro sono nel ritmo del Tutto.
Il mito le individua oracolanti, veggenti, perché profetare è facoltà di chi si fa danza. Di chi può conoscere de-situandosi, vorticando il passo o arrestandosi d’improvviso nell’orlo del silenzio per cogliere nel fondo, le tracce già musicanti dei destini.