Elena Cattaneo è personaggio di spicco della cultura e della ricerca scientifica internazionali per i suoi studi e le sue scoperte sulle malattie neurologiche ereditarie, in particolare la Corea di Huntington, e sulle cellule staminali. Ha ottenuto, per la sua attività, alti riconoscimenti, come la medaglia d’oro della Presidenza della Repubblica, la nomina a Cavaliere della Repubblica e, nel 2013, la nomina a senatrice a vita. Docente di Applicazioni biotecnologiche in farmacologia e Cellule staminali in biologia e nella medicina rigenerativa presso l’Università degli Studi di Milano e membro della commissione permanente Igiene e sanità del Senato, è ugualmente impegnata in un’opera di divulgazione, con interventi sui mass-media, in particolare a difesa della libertà di ricerca e per una corretta informazione nel campo medico-scientifico. E con tale intento, ci ha rilasciato questa densa e appassionata intervista, che ripercorre la sua formazione e il suo impegno professionale e umano.
Quali sono state le esperienze, gli incontri, le letture che l’hanno spinta alla scelta della sua professione e delle sue ricerche?
Ho cominciato a percepire cosa significasse tutto ciò durante la tesi sperimentale di laurea, svolta in un’industria farmaceutica. Studiavano farmaci calcio-antagonisti e, attraverso gli esperimenti, ho imparato a “vedere” come funzionavano su recettori, a me invisibili, che stanno sulla membrana cellulare. Arrivavo in laboratorio e non vedevo l’ora di vedere il “plot” alla stampante con i numeri dei risultati. La stampante era gigantesca, con grandi rotoli di carta perennemente pronti a rivelare numeri. Il primo sguardo era alla bontà dell’esperimento: ogni campione era analizzato in sestuplicato. Quindi se mi trovavo di fronte a sei numeri simili, uno dopo l’altro, per ogni set di campioni, significava che, almeno tecnicamente, la prova era andata a buon fine. Quei sestuplicati mi davano una gioia immensa. Poi, dopo alcuni anni in Università a Milano, da laureata, ho avuto l’opportunità di lavorare al MIT di Boston. Lì è nato l’amore per le cellule che potevo vedere e seguire al microscopio. Ho iniziato così gli studi sul differenziamento delle cellule staminali neurali. Erano veramente i loro primi anni. Poi è stato impossibile staccarsene anzi, potevano essere utili per comprendere una malattia. Al MIT ho incontrato Nancy Wexler, neuropsicologa fondatrice della Hereditary Disease Foundation, la cui madre era scomparsa a causa dell’Huntington, e con una grande motivazione nella costituzione di una comunità scientifica dedicata all’Huntington. Non dimenticherò mai quell’incontro e la forza con cui spiegò la sua azione per trovare il gene responsabile della malattia che poteva colpire anche lei. Fu allora che scelsi di studiare l’Huntington. Un’altra figura importante, che molti di noi spesso richiamano, è stata Rita Levi Montalcini. Ricordo quando nel 2008, a 99 anni, venne all'Università di Milano a parlare di fronte a 800 studenti. Restò in piedi per un’ora, a raccontare la sua scoperta, senza mai far comparire un’indecisione nel suo parlare. Era magnetica. Per me rimane il simbolo della caparbietà e della determinazione che ogni scienziato deve avere nel procedere verso gli obiettivi e nel sostenere, senza “se” e senza “ma”, ogni opera conoscitiva.
Si è dedicata allo studio delle malattie rare, in particolare la “Corea di Huntington”, a che stadio sono le ricerche relative?
Mi ha sempre impressionato la storia dell’Huntington, una malattia neurologica ereditaria che colpisce una persona su 10 mila e che danneggia progressivamente e inesorabilmente le funzioni motorie e cognitive. Dirigo un laboratorio, alla Statale di Milano, in cui da vent’anni studiamo il gene che, quando muta, causa la malattia. Abbiamo scoperto che il gene ha ben 800 milioni di anni e stiamo cercando di capire perché l’evoluzione l’ha consegnato a noi, visto che può mutare. Un altro obiettivo oggi è riuscire a riprodurre in laboratorio gli stessi neuroni che muoiono in questa malattia. Per queste ricerche è fondamentale studiare anche le cellule staminali embrionali umane, sono le risorse migliori attualmente a nostra disposizione per ottenere i neuroni desiderati. Questi studi ci hanno portato anche ad alcuni contrasti con quella parte di opinione pubblica che opponeva ragioni etiche e morali all'utilizzo di quelle cellule. Abbiamo deciso di andare avanti comunque, anche alla luce dei risultati che via via sono stati ottenuti. Non ritengo etico non perseguire strade che possono aumentare la conoscenza, con l’obiettivo di essere di aiuto a persone che soffrono. Oggi una strategia fondamentale in sperimentazione prevede lo spegnimento del gene malato. Si è scoperto che esistono in natura RNA interferenti, che silenziano cioè specifici geni. Si è quindi prodotto in laboratorio un RNA interferente per il gene Huntington malato. Le prove sugli animali hanno dato esiti rilevanti. In Gran Bretagna, Canada e Germania comincerà quest’anno la prima sperimentazione nell’uomo di questa rivoluzionaria strategia.
Qual è stata la più grande soddisfazione nell’ambito delle sue ricerche? Cosa si aspetta per il futuro?
Tra le soddisfazioni maggiori ci sono le conferme dei nostri risultati da parte di altri laboratori. Poi, il traguardo più importante è sempre quello di domani. Ora stiamo cercando di capire perché il gene che causa la malattia lo abbiamo in corpo e da dove arriva. Il traguardo di domani ci sta riportando indietro nel tempo di milioni di anni, alla caccia di quel gene antico e della sua strada fino a noi.
Per ricerche così complesse e prolungate sono necessari personale, mezzi e fondi adeguati: le istituzioni sono all’altezza di queste esigenze?
C’è uno scollamento profondo tra la ricerca e la percezione “pubblica e politica” di quanto essa possa contribuire alla conoscenza, alla crescita economica e sociale. La ricerca non è importante solo per i risultati specifici che raggiunge, lo è anche per le metodologie e l’humus che mette in campo e per i suoi valori. Non dimentichiamo che l'Italia è il Paese di Galileo ed è stata a lungo patria della scienza e dell'umanesimo. Ma da tempo abbiamo smarrito questa autorità a causa di scelte fatte da una politica distratta, se non priva di lungimiranza e coraggio nell’immediato. Per molti nostri studenti l'unica via per proseguire e realizzare studi e ricerche rimane quindi l'estero. Ma, ogni volta che uno studente, un ricercatore, un giovane scienziato decide di lasciare il nostro Paese - nella quasi totalità dei casi senza farvi più ritorno e senza neanche volerlo -, è un pezzo di conoscenza, di cultura e di competitività che lasciamo andar via. Regaliamo ad altri paesi gli investimenti che abbiamo fatto. Mi auguro che possa giungere il momento di un’inversione di questa rotta. Serve, però, capire il valore di un investimento e il coraggio per promuovere e supportare, fino in fondo, le idee e chi le ha. Ma anche questi due elementi, pur se necessari, non bastano. Ci vuole maggior considerazione dei fatti e delle persone che su questi fatti impostano la loro vita. Troppo spesso, da noi, vengono considerate alla stessa stregua competenza e ciarlataneria. Troppo spesso, anzi, si incensa il falso miracolo e si fustiga o irride la serietà di chi agisce solo con fatti, a volte difficili da riuscire a dominare. Anche questo è un disincentivo a rimanere. Per questo le istituzioni devono essere potenziate e meglio strutturate.
In particolare, qual è la situazione della ricerca biomedica a Milano?
Milano ha una tradizione di centri medici e di ricerca di eccellenza che, anche in questi anni di difficoltà e scarse risorse, hanno comunque tenuto testa alla competizione internazionale. Ma è paradossale, proprio per quello che le dicevo prima, come queste eccellenze vengano riconosciute più all'estero che in Italia. Risulta quindi evidente come, senza il potenziamento di un sistema di rete di eccellenze che coinvolga tutto il Paese, rischiamo che anche queste vadano perse o regalate a paesi più attenti.
Esiste una rete di coordinamento delle ricerche, a livello nazionale e internazionale?
La rete internazionale è quella che permette di sopravvivere. Questa continua circolazione di informazioni tra i laboratori permette di lavorare insieme e comunicare anche a grandi distanze. Lo scambio di idee, risultati e materiali è di grande aiuto per tutti e garantisce un reciproco controllo, oltre a svolgere una fondamentale funzione di stimolo al lavoro di ricerca.
I malati colpiti da queste malattie rare possono usufruire di un’assistenza mirata e continuativa?
Altra nota dolente. A me pare che l’assistenza sia frammentaria, minimale e diversa da regione a regione. L’unica grande risorsa a cui affidarsi è rappresentata dall’associazionismo. Si tratta di malati e dei loro familiari che si ritrovano per aiutare altri malati e i loro familiari. Mi colpisce e mi commuove sempre osservare come proprio queste persone si facciano forza a vicenda, anche per promuovere azioni di sensibilizzazione o semplicemente di mutuo soccorso. Ma un Paese avanzato deve anche pensare a strategie di assistenza sociale e di presa in carico delle necessità quotidiane del malato. È ingiusto che tutti gli oneri siano a carico dell'associazionismo e delle singole famiglie. La malattia tra l’altro non guarda in faccia nessuno. Strutturare un Paese che si renda conto di questo e agisca di conseguenza, significa anche fare un favore a noi stessi oltre che a chi, adesso, è in difficoltà.
Come ha vissuto la sua nomina a senatrice?
Come ho già avuto occasione di dire, con immensa sorpresa per la scelta del mio nome. Allo scombussolamento è subito seguita, però, un’infinita gratitudine soprattutto perché quella nomina accendeva un faro sul lavoro silenzioso dei tanti laboratori del nostro Paese. Laboratori che operano nonostante la scarsità di risorse, nell’interesse di tutti. La mia presenza fra i banchi del Senato credo abbia proprio questo significato: essere un’interprete della scienza a disposizione della politica e, perché no, anche un presidio della scienza, totalmente slegato dai posizionamenti politici, la cui autonomia le consente di affermare i suoi dati conoscitivi anche quando in contrasto con altri interessi.
A lei che è stata nominata “per merito”, e che non aveva un’esperienza politica specifica, che impressione ha fatto l’ambiente e l’attività di Palazzo Madama?
La prima impressione è di avere tanto da capire e imparare, a partire dai meccanismi che regolano il funzionamento stesso del Parlamento, le modalità degli interventi o il ritmo dell’Aula, che non è sempre prevedibile. Tra molti colleghi senatori ho anche riscontrato curiosità verso gli argomenti di cui mi sono fatta fino ad oggi portavoce, dal caso Stamina alla sperimentazione animale, fino agli Ogm. Con la collaborazione di un gran numero di appartenenti alla vastissima comunità scientifica - che fortunatamente in Italia c’è ed è preparata e competente - mi capita spesso di preparare schede esplicative o inviare articoli su temi scientifici, per far fronte ai dubbi emersi durante i lavori parlamentari; oppure semplicemente di rispondere a espliciti quesiti che mi vengono posti da singoli senatori di tutti gli schieramenti; oppure, ancora, proporre l’attenzione sulle problematiche della ricerca. Ci sono state anche, inevitabilmente, posizioni molto contrarie a quelle che ho proposto. Alcune interessanti, altre – devo dire sinceramente - piuttosto evidentemente ideologiche, fondate su pretesti o basate su bias e incompetenze varie. Lo sforzo, senza paure, credo invece debba essere sempre quello di raccogliere e raccontare i fatti che la scienza ci consegna ogni giorno, al meglio delle nostre capacità di indagine, anche se a una prima analisi scomodi. Ho imparato che questo “paga” sempre. Mi piacerebbe che questi fatti potessero essere percepiti come degli alleati nelle decisioni politiche e non come fastidi da “aggirare” o negare pretestuosamente.
Nell’ambito della sua attività di senatrice è riuscita a sensibilizzare i politici sull’importanza della ricerca?
Sono molti i temi che nel nostro Paese richiederebbero ben altra sensibilizzazione. Io ci provo e non mollo. Un esempio è questo: in seguito a un ordine del giorno che ho presentato, legato alla discussione della Legge europea 2014, negli ultimi mesi si è riaperto in Aula e nelle Commissioni il dibattito legato alla possibilità di far ripartire le ricerche pubbliche italiane sulle biotecnologie agrarie e sugli organismi geneticamente modificati. I laboratori di tutta Italia possono vantare ricerche all'avanguardia, in grado di far compiere al Paese enormi passi avanti sul fronte dell'innovazione in agricoltura, ma che il pregiudizio e la cecità delle istituzioni, da più di un decennio, hanno deciso di lasciare chiuse nei cassetti. Ho voluto con forza che questo argomento tornasse di attualità perché negare la libertà di ricerca, tra l'altro sancita dalla Costituzione, è un errore di cui ci pentiremo ed è anche una scelta improduttiva, che va contro gli interessi del Paese. Mi sono quindi messa a studiare i fatti, i dati, ho verificato con più colleghi le fonti e i risultati e ho cominciato a capire che stavamo e stiamo commettendo errori enormi. Sto continuando ad aggiungere informazioni. È un argomento complesso. Ma non trovo intelligente e utile al Paese impedire ai colleghi la ricerca su piante ingegnerizzate in campo aperto. Stiamo perdendo molte nostre piante tipiche per questi errori. E, nel frattempo, lasciamo campo libero alle multinazionali sementiere. Non che, da un punto di vista puramente razionale, il fatto che siano “multinazionali” mi turbi particolarmente, piuttosto trovo stupido vituperare con la bava alla bocca, per poi affidarvisi comunque in quanto, in Italia, di imprese sementiere non ne abbiamo più. Sono state lasciate morire, nell’indifferenza totale, nel più assoluto silenzio ignorante e non lungimirante. Le multinazionali hanno fatto e continuano a fare ricerca per i loro scopi. Le nostre istituzioni, nel frattempo, la impediscono con motivazioni ideologiche, spesso di breve respiro elettoralistico. Su questa battaglia c’è comunque riconoscimento e sostegno di rappresentanti di schieramenti parlamentari opposti. E sto costatando che, forse, qualcosa si muove. Questo a dimostrazione che la ricerca è un argomento di interesse generale che, se non è, come non deve essere, rinchiuso sotto una bandiera politica, può unire e dare opportunità nuove a tutti noi.
Qual è stata la sua più grande soddisfazione come senatrice?
Di sicuro l'aver contribuito a portare sotto gli occhi di tutti la verità sul cosiddetto metodo Stamina. E di questo ringrazio l’intera Commissione Igiene e Sanità del Senato e, ancora prima, alcuni colleghi scienziati con i quali, dagli inizi del 2013, insieme al Generale dei NAS Cosimo Piccinno, purtroppo scomparso, e all’AIFA avevamo cominciato a capire l’enormità del disastro e a studiare e analizzare ogni aspetto per fornire documenti e prove, per quelle che erano le nostre competenze. L’indagine conoscitiva del Senato ha poi affrontato ogni aspetto politico, giuridico, mediatico della faccenda e messo ordine negli eventi. Si è conclusa con una relazione che contiene dieci proposte pensate per far sì che mai più in futuro una “brodaglia” possa entrare nei nostri ospedali. O che si possa speculare impunemente sulle speranze di chi, ogni giorno, convive con la malattia e i disagi che essa comporta.
Da ricercatrice e da senatrice, ha un sogno nel cassetto?
Tanti. Ma, guardi, in laboratorio i sogni sono solo l’inizio di un percorso che si costruisce con lacrime e fatica, senza mai cedere di fronte ai fallimenti delle idee o alle domande che bruciano, per la voglia di trovare una risposta. Ogni passo è una conquista e ogni conquista avvicina alla speranza di poter aiutare persone. In Senato, il sogno è che la scienza in Italia riesca ad affermare, senza se e senza ma, il suo ruolo, la sua capacità di indagine e la sua autorevolezza. Anche nelle istituzioni. Da qui l’idea del Senato delle Competenze, che possa includere competenze più avanzate nell’ambito dell’innovazione. Se prendiamo come esempio il caso Stamina il riconoscimento collettivo, politico, giuridico e sociale, della scienza quale garanzia di fatti accertati e verificati, invece, è venuto meno. E questo ha prodotto tutte le storture che abbiamo visto e subìto. Tuttavia, se da un lato rimprovero ad alcuni colleghi senatori il voler restare ciechi di fronte alle prove dei fatti, per idee preconcette che non hanno riscontro nella realtà, dall'altro rimprovero qualcosa anche alla comunità scientifica: scegliere troppo spesso di restare in disparte o silente. La scienza, per essere davvero di tutti, deve parlare alla società, avvicinarsi ai cittadini, raccontarsi. Bisogna metterci la faccia, senza timori. Portare le conoscenze scientifiche fuori dai laboratori e fare capire che sono un patrimonio a disposizione della politica e della società è il primo passo fondamentale da compiere. A disposizione vuol dire anche ribellarsi quando le evidenze vengono ignorate, manipolate, tirate per la giacchetta. Da chicchessia. Il cittadino comune, ma anche il politico, non sempre ha le competenze per accorgersi di questo. Sta agli scienziati farsi sentire, forte e chiaro, anche quando sono gli “amici” che fanno i furbi. E poi vorrei veder rinascere la ricerca in Italia. Sogno un Paese che, con coraggio e convinzione, torni a capire, credere e investire davvero in questo ambito. Un Paese che dia fiducia ai nostri giovani e abbia l’intelligenza razionale di trattenerli per dar loro la possibilità di contribuire al suo progresso.