Che bel libro Ascolto il tuo cuore, città di Alberto Savinio! Una lettura strepitosa in una bellissima edizione Adelphi del 1984. Mi piacque a suo tempo tanto da parlarne con entusiasmo agli amici, consigliandolo con convinzione, al punto di fare, in un empito d’irresponsabile proselitismo, la sciocchezza di prestarlo e, così, come accade spesso ai libri prestati, di perderlo. Impossibile recuperare il reo della mancata restituzione. Mi sono deciso, alla fine, a ricomprarlo. Non è stato facile trovarlo, ma ce l'ho fatta.
L'edizione Adelphi propone un elegante librone di quasi quattrocento pagine e ha in copertina un dipinto dello stesso Savinio, intitolato Sodoma: una di quelle opere trasgressive dell'artista italo-greco dove le sue creature, un po' mostri mitologici, un po’ chimere zoomorfe e antropomorfe, un po' costruzioni impossibili, un po' giocattoli, stregano e fanno sognare lo spettatore. Ascolto il tuo cuore, città è una lunga e piacevole conversazione col lettore, a tratti quasi confidenziale, che si diluisce in una fluviale e coinvolgente prosa, sostenuta da un vigile senso dell'ironia, della quale lui stesso diede una brillante definizione: “maniera sottile di insinuarsi nel segreto delle cose”.
Peccato che Savinio, scrittore, pittore e musicista, fratello di Giorgio De Chirico, sia stato un po’ dimenticato dagli italiani, che gli preferiscono autori meno leggeri e un po’ musoni. Per fortuna Adelphi e Sellerio l'hanno coraggiosamente ripreso, rinnovando anche famosi successi editoriali di Mondadori e di Bompiani. È il 1944 e il cuore che Savinio ascolta è innanzitutto quello di Milano, lungo le cui strade, tra palazzi monumentali, storici negozi, musei e gallerie lo scrittore passeggia proponendoci le sue piacevolissime divagazioni. Ma siccome si tratta di un intrattenimento piacevolissimo senza regole e pieno di digressioni, s’inseriscono nella conversazione col lettore altri cuori e altre città. E Savinio ci insegna a riconoscerle totale, dall'odore anche nel buio più totale.
L'odore, scrive col suo consueto piglio trasgressivo e irriverente, è quella parte di un rapporto tra l'uomo e la donna e tra l'uomo e la città, che suggella l'amore; quando della propria città e della propria donna si è accettato l'odore, che non deve necessariamente essere gradevolissimo, quello è il segnale del legame incrollabile. Ama respirare “a pieni polmoni”, ad esempio, l'odore della sua Milano che è quello del “legno bruciato esalato dai camini e custodito nella nebbia”. Ma ci sono, nel libro, segnali olfattivi di altre città. “Venezia – scrive - questa stasera si nasconde, ma io la riconosco dall'odore”. E ancora: “Ferrara è sorella in odore a Monaco di Bavera. Entrambe sanno di ceppo bruciato”.
Dopo aver letto questo libro si è portati a identificare il ricordo delle città che hai conosciuto e vissuto, o solo visitato, con il loro odore. Quando tornavamo a Napoli dopo una breve vacanza dalla nonna materna a Pescara, i ricordi che ci riportavamo erano soprattutto due: la vista a perdita d'occhio del lungomare e il profumo degli aghi dei pini. Di Molfetta, città dei nonni paterni, dove spesso ci trovavamo per la festa settembrina della Madonna dei Martiri, è rimasto nel naso lo straordinario odore del legno bagnato dei pescherecci che rientravano al tramonto. E della passeggiata dopocena resta il ricordo incancellabile del lezzo greve del sigaro toscano fumato da attempati signori seduti a schiera su sedie di paglia davanti alle soglie dei numerosi circoli sulla strada del molo.
Napoli, anni Cinquanta. Si usava ancora portare i bambini che avevano una tosse ostinata a passeggiare sul mare. Ci fui portato anch’io, pantaloncini corti e cappellino bianco, in un pomeriggio di aprile a passeggiare sulla scogliera di Mergellina, mano nella mano con mia madre. I raggi del sole tenui a quell'ora, la suggestione, ma soprattutto l’aria e l’odore del mare mi tolsero la tosse. E, sempre bambini, ai tempi delle elementari, uscendo da scuola, sentivamo nel cortile il profumo inebriante degli alberi di eucalipto e ne inalavamo nelle strette strade del nostro altri: a turno stagionale, quello delle caldarroste, o delle pannocchie arrostite. Storie di odori d’altri tempi! Perché oggi tutte le città hanno rinunciato a un loro particolare odore, sopraffatte da una dilagante puzza, che riesce a vincere perfino quella dello scappamento delle automobili: quella della frittura. Ovunque, da nord a sud, a dispetto del secessionismo leghista e delle sperequazioni economiche, linguistiche ed etniche, domina il vero collante dell'Europa Unita. La patatina fritta.
A ogni angolo di ogni città, “da Trieste in giù”, come cantava una volta Raffaella Carrà, sta in agguato il friggitore di patate, il cui olio bolle ventiquattro ore su ventiquattro, per elargire capienti coppe cartacee di fragranti delizie e un effluvio permanente che s’impone su tutti gli altri, buoni o cattivi che siano. Se non sono le patatine fritte, o i fish and chips, variazione di origine inglese del fritto misto da passeggio, sono gli hot dog o i popcorn che sopraffanno e cancellano gli odori del mare, degli aghi dei pini, dei comignoli, dei lungofiumi. È inutile spendere soldi per i più costosi tipi di deodoranti che, come ci insegnano le pubblicità, si specializzano nelle nostre diverse parti del corpo, dalle ascelle ai piedi, con tutte le più penetranti e non irritanti fragranze, garantendo, ovunque sia spruzzato, permanenza H24. Dopo un'uscita serale, torneremo a casa tutti resi uguali e simili, accomunati dalla puzza di frittura, che ti si attacca addosso e si conficca nel naso, qualunque sia il colore della nostra pelle, la lingua che parliamo, il metabolismo che ci caratterizza, la città in cui viviamo o che visitiamo. È l’odore patatina fritta che ha abbattuto le frontiere, forse più d’internet.
Chissà come avrebbe reagito Alberto Savinio di fronte a tale omologazione globalizzata dell’olfatto.