Conseguita la laurea mi posi il quesito: E ora? Correva l’anno 1952 ma il paese nel quale ebbi i natali, Galati Mamertino [1], usciva appena da quel “medioevo” della civiltà agricola che nelle regioni italiane era stato superato da mezzo secolo abbondante, spinto fuori dall’avvento e dal consolidamento della civiltà industriale.
Solo da due anni infatti le case del mio "paese in montagna", proliferate attorno all’acrocoro [2] sin dagli ultimi decenni della dominazione degli Emiri Kalbiti di Sicilia [3], erano state allacciate alla rete elettrica; ma, per le conseguenze belliche, era ancora problematico il movimento su ruota. E in quel 1952, inoltre, dal nuovo ordinamento repubblicano non era stato ripristinato neppure l’obbligo, per i neo laureati in Medicina e Chirurgia, di sottoporsi a un “esame di stato” prima di iniziare l’esercizio professionale.
Medico a tutti gli effetti, quindi, dovetti guardarmi intorno: in paese, tremila abitanti, esercitavano già tre medici, tutti avanti negli anni e ciascuno con la propria buona fama. Ultimo di otto laureati nella stessa branca, per me non v’era posto. Già quattro si erano allontanati negli anni né altro destino si profilò pure per me. Avviai subito, malgrado tutto, uno studiolo, ma “affollava” la sala d’aspetto qualche cronico irrecuperabile, scontento della sua irrecuperabilità, psicologicamente addebitata, a suo parere ovviamente, a incapacità del curante: il nuovo non poteva non avere la cura per lui!
Il primo paziente che venne alla mia osservazione fu una anziana signora tormentata dalla psoriasi: una maschera, poveretta. Questa forma morbosa, ancora oggi non avendo una terapia definitiva, deve ricorrere a trattamenti farmacologici topici e fisici [4] che permettono un certo controllo della malattia nelle forme più lievi. In quel caso, ancora lontana la nuova farmacopea, feci tesoro delle nozioni del tempo che indicavano nel coaltar un elemento facilitante. Recuperai, deducendolo da un testo di farmacologia di fine Ottocento, una formula di unguento facilmente spalmabile e, cosa che mi gratificò al primo atto medico, mi guadagnai l’approvazione dell’aiutante del farmacista, che mi disse: Finalmente posso preparare un unguento; ora segnano solo scatolette.
L’esito non l’ho conosciuto poiché dopo qualche mese dovetti montare sul treno alla volta di Firenze per l’inizio del corso allievi ufficiali. Non prima, però, di essere stato chiamato, dal medico condotto di un paese vicino, a sostituirlo per una settimana per suoi motivi di salute, mentre era in corso un’epidemia di rosolia. Egli, da buon padre di famiglia più che da collega, mi volle dare dei consigli che mi furono preziosi; non mi aveva messo però in guardia da certi istinti insoddisfatti delle mogli. Chiamato infatti per un rialzo termico del figlioletto – vi fu un tempo nel quale il “medico di casa” si recava per le visite pure a domicilio – la giovane signora, contenta e rassicurata sulla benignità del morbo, voleva disobbligarsi “in natura” visto che non doveva nulla come onorario, essendo l’intera famiglia assistita dall’ente mutualistico.
Andava per le spicce l’impaziente mammina ma era inverno e nel paese il vestiario era ancora quello "antico"; essendo bardata come necessario nella stagione, gli indumenti, malgrado la sua fretta, esigevano i loro diritti, soprattutto l’intimo che, lungo e stretto al ginocchio e legato alla cintola con cordoncini, pareva ideato per frenare le tentazioni. Quelle more mi consentirono di guadagnare l’uscita. Buffo e teatrale fu il suo commiato sulla porta: Su sapi ma maritu nni mmazza a tutti ddui [5]. Per lei ormai il solo fatto di averlo pensato quel tentativo di tradimento, era stato come compiuto e io ne ero stato co-responsabile.
Da adolescente, avrei compiuto undici anni a dicembre, fui inviato dai genitori presso il Collegio Cristo Re dei pp. Rogazionisti a Messina; l’edificio sorgeva a fianco dell’omonimo Tempio, caratterizzato dal suo campanone ottenuto dalla fusione dei cannoni dei nemici, recuperati sui campi di battaglia della Prima guerra mondiale. Lì un buon prete compaesano ospitava, con il pagamento di una cifra irrisoria, giovani avviati verso il sacerdozio. L’educazione quindi era tutta a tal fine programmata e, solo dopo i sacri riti del mattino, si pensava ad acquisire le conoscenze classiche.
Ormai in sede tutti gli alunni del primo anno, p. Carmelo Drago, sempre con un sorriso accattivante da orecchio a orecchio, ci sciorinava le norme di buona educazione: lavatevi accuratamente tutte le mattine e asciugatevi bene, specialmente dietro le orecchie (altrimenti vi potete prendere l’eczema: quel termine "eczema" divenne per noi, appena usciti dalla fanciullezza, un moloch); non mettete le dita nel naso; chiedete subito scusa quando avete fatto un dispetto a un compagno; se sentite il terremoto, frequente a Messina, non fatevi prendere dalla paura ma spostatevi verso la parete se vi è una porta o una finestra oppure riparatevi sotto un architrave; confessatevi una volta alla settimana o subito se avete commesso un peccato mortale: e qui la lunga elencazione dei peccati mortali.
Era regola fissa la presenza ogni mattina alla Santa Messa e l’accostamento alla Santa Comunione: dopo qualche mese di collegio i ginocchi avevano già calli alti un centimetro… Nella cappella ogni classe aveva la sua collocazione nei banchi e ciascuno il suo posto. Io ero nella corsia di destra, l’ultimo del secondo banco, prossimo all’altare di S. Giuseppe. Il momento della preghiera del mattino iniziava ritualmente con la “meditazione”: in silenzio, sogni e pensieri si accavallavano. Ricordo: Gesù, fammi diventare alto un metro e settanta, così potrò fare l’aviatore… Ma quello scuotimento che improvvisamente avvertivo non aveva nulla di meditativo: mi resi conto, come tutti i compagni, che quello era uno dei frequenti terremoti dei quali era gratificata Messina; vi fu il panico. Non so cosa fosse scattato in me ma ricordo che salii sul sedile e poi sul piano del banco, da dove passai sul piano dell’altare e mi misi seduto accanto al piedistallo sul quale poggiava la statua di S. Giuseppe: con il santo accanto e la nicchia sopra la testa pensai di essere al sicuro. Dopo alcuni secondi il sisma passò… rimase l’aura irrefrenabile, ma pure un po’ isterica, per lo scampato pericolo, e lo schiamazzo dei compagni per quel nuovo "santo" autoproclamatosi… seduta stante.
Con la mia laurea pensare a fare l’aviatore semplice era fuori luogo, ma quel "sogno meditato" m’era rimasto dentro. Fu così che mi venne in mente di propormi come allievo ufficiale medico dell’aeronautica; dopo meno di un mese mi giunse la cartolina di chiamata per la visita medica a Napoli. La domanda fu respinta per “cardiopatia”: mi incuriosì la diagnosi perché mi sentivo benissimo e correvo come un leprotto. Fu così che virai verso l’Esercito: nuova domanda, altra chiamata ma a Messina. Stranamente la cardiopatia era miracolosamente scomparsa: andai a Firenze, Costa S. Giorgio, ove fui uno dei 400 allievi ufficiali medici e chimici-farmacisti del XII Corso.
Proiettato nella città dell’arte e con una paghetta da soldato, la mia vita imboccò una strada nuova: ero autonomo! Sempre curioso, cominciai a guardare il mondo con un’ottica che concedeva spazio alla fantasia. Soprattutto vedevo con i miei occhi ciò che avevo letto nei libri di testo di "storia dell’arte" del liceo, materia per la quale, nello scrutinio del secondo anno, avevo visto scritto in pagella un bel nove. La libera uscita fu sempre una scoperta ma la prima emozione, appena il clima lo consentì, fu la scalata del campanile di Giotto. Avevo letto la descrizione turistica del monumento e mi aveva incuriosito la differenziazione del ciclo di lavoro tipico della città, non legato a una tradizione gloriosa o alla ricchezza, frutto della terra, bensì alla laboriosità degli abitanti impegnati in attività imprenditoriali cittadine. Tale filosofia urbana fu scandita dagli artisti nella sequela delle formelle del basamento, sette romboidali e sette esagonali. La formella della Medicina è ancora oggi nel lato sud verso piazza della Signoria, la terza delle formelle esagonali. In essa Nino Pisano rappresentò
un medico in cattedra che esamina con solennità un vaso di urina, che i pazienti gli consegnano in tipici contenitori. La grandezza del lavoro dipende dallo scopo, non dalla materia trattata. Il medico non si occupa di stelle ma di uomini malati, eppure il suo lavoro ha la stessa, identica dignità dell’astronomo [6].
Mi rimase impressa la scoperta perché in realtà nella medicina antica, ma pure ai giorni nostri, questo semplice esame ha un valore di primo allarme: l’immagine riprodotta su quella piastrella la posi nella copertina di una mia monografia.
La città, per antonomasia ricca di arte, pullulava pure di belle fanciulle; smaliziate però, sapevano che quei giovani militari con il filino d’oro al colletto erano girovaghi e la loro permanenza fiorentina non andava oltre i quattro mesi: anche se gli sguardi si incrociavano, le loro pupille non ne venivano penetrate. Quindi da ammirare rimasero i monumenti, tanti, e svago fu soprattutto la visita al giardino di Boboli; non c’era davvero da annoiarsi perché, alla fine, i quattro mesi non furono sufficienti a comprenderne sino in fondo il fascino: le prospettive di viali, di fontane; i piazzali, le grotte, l’anfiteatro e le vedute della città furono sufficienti a riempire le libere uscite di quei centoventi giorni. E che dire dello spettacolo della città, dall’alto, da piazzale Michelangelo?
A Firenze, per il mio precedente modo di vivere, cambiò tutto; fu un mondo nuovo, un’etica diversa. Da studente continuarono le mie abitudini di paese. Da giovane militare vissi sotto l’occhio vigile degli ufficiali: la pulizia innanzi tutto. La divisa, inappuntabile: Sei un allievo ufficiale dell’Esercito italiano; la gente ti guarda! Le scarpe … Vergogna, torna in camerata, lùcidale bene per domani sera! E poi si andava in sala da pranzo; tavoli per sei, biancheria candida, cucchiaio, forchetta, coltello. Certa frutta da mangiare con forchetta e coltello: se matura niente male, invece spesso si presentava il dramma delle mele, di frequente non mature e dure da infilzare… Dopo aver visto il volo per la tangente del frutto proibito di un vicino di tavola, evitai di affrontare il rischio: la mela, prima, l’avevo sempre consumata alla maniera di una certa pubblicità odontoiatrica. Però che visione quella di Firenze da Costa S. Giorgio! E poi le istruzioni militari a piazzale Michelangelo con le sue vie d’accesso tra giardini e arredi urbani fascinosi, sino ai lampioni aggettanti su bracci a volute: mi rimasero nella memoria poiché mi ricordavano quelli del paese nativo, solo diversi perché in questi veniva collocato, ancora fino agli anni Cinquanta dello scorso secolo, il lume a petrolio dall’addetto comunale, scala in spalla.
Ancora a Firenze, per il periodo pasquale agli allievi fu concessa una licenza di tre giorni. Tornare in Sicilia per così breve tempo non era pensabile: mi recai nell’Urbe ove mio fratello frequentava un corso di specializzazione. Non penso sia possibile non credere al destino: sceso dal treno e messo piede nel piazzale della stazione Termini, ancora una volta la mia strada ebbe una conversione a U. E che conversione! Mi avviavo verso una pensioncina che mi era stata indicata per quei tre giorni, quando mi trovai faccia a faccia con il presidente diocesano dell’Azione cattolica del vescovado di Patti – in provincia di Messina - con il quale avevo avuto frequentazione nel paese nativo. Così, dopo i convenevoli di rito, venne l’invito a cena per la serata: era il sabato precedente la Pasqua. Vissi quella cena come chi, a occhi chiusi, si inebria nell’ascolto della Primavera di Vivaldi: l’immagine di quella donna meravigliosa che a tavola mi era di fronte penetrò le mie pupille e non ne uscì più mai [8]: incontrai mia moglie.
E arrivò il mese di giugno di quel 1953 con un caldo da solleone e a noi, allievi ufficiali ormai prossimi al grado di sottotenente, fu riservata l’ultima fatica, la parata del 2 Giugno, ancora con la divisa invernale: due colleghi al pronto soccorso per colpo di calore. Poi finalmente di nuovo… "casa", in attesa della comunicazione ufficiale del grado e della destinazione per l’anno di servizio al Corpo. La destinazione al Corpo, pervenutami insieme con la nomina a sottotenente medico di complemento, fu un trauma: avevo chiesto, al termine del corso, l’assegnazione alla sede di Roma essendo, fra i medici, nei primi dieci della graduatoria per quel Comiliter. Mi spettava di diritto l’assegnazione all’ospedale militare del Celio: mi ritrovai invece inviato, sì, al Comiliter di Roma ma al CAR di Chieti scalo. Mi fu chiaro che ero stato trattato da… figlio di contadino: non ebbi il santo in paradiso.
Non ne feci un dramma e seguii il mio destino. CAR voleva dire Centro Addestramento Reclute: così in settembre giunsero da tutt’Italia un mare di giovani leve. Fu esperienza incancellabile: ogni visita medica era una scoperta. Ricordo soprattutto la scena di disperazione di una recluta proveniente dalla Sardegna, per la quale avevo riconosciuto l’assoluta invalidità al servizio militare: Così sono rovinato, non posso tornare al mio paese… Se non sono buono per il re non sono buono neppure per la regina… E che ormai la nazione fosse una repubblica non riuscì a consolarlo. Per me, fortuna o santa giustizia, al CAR di Chieti accadde qualcosa davvero insperata; con la posta del mattino, al mio indirizzo con nome e cognome, fu recapitata una lettera che iniziava con un “Egr. Collega” e un mittente: XX YY, Tenente Generale Medico dell’Aeronautica: mi scriveva che suo nipote, nome e cognome, sarebbe passato per visita ambulatoriale da me il giorno successivo (ero l’unico medico di servizio: il capitano medico non amava quel tipo di lavoro) e che gli avrei fatto cosa gradita se avessi trovato il modo di non fargli perdere l’anno di studio.
Compresi che la mano della giustizia divina si stava interessando al mio caso: mi premurai a trovare alla giovane recluta un’ernia inguinale; imprecai platealmente che mi si inviavano per il servizio militare pure gli invalidi; lo portai con l’ambulanza all’Ospedale di Chieti; al collega di turno, giovane quanto me, esposi "a modo mio" il caso medico. In tutta sincerità il collega non percepiva la sacca erniaria. Io imposi alla recluta di fare tanti colpi di tosse. “Ma è eclatante; questo fra pochi giorni avrà uno scroto grosso così”. Il collega non fece resistenza, redasse il certificato di “ernia inguinale dx”. La stessa sera la recluta tornò in famiglia. Ovviamente l’XX YY non poteva non inviare un’altra missiva, questa volta di ringraziamento; infatti la inviò: “Se ti occorre qualcosa fatti sentire”. Mi feci sentire: “Ero fra i primi dieci in graduatoria; mi spettava Roma; sono a Chieti scalo”. Il I novembre 1953 entrai in una caserma romana sulla via Tiburtina, ufficialmente assegnato al IX Battaglione Bersaglieri, ove invece era, a regime, solo il I: lì completai il servizio e fui posto in congedo. Chiesi perdono al Cristo in croce per quel mio falso sfrontato ma, alla “don Camillo”, Egli mi rispose: Eh, figliolo, capisco… ma pure loro l’avevano fatta sporca. Così misi piede a Roma.
L’Urbe fu un’altra cosa; intanto mi avvicinò alla mia ragazza con la quale l’epistolario aveva ingigantito e consolidato il primo sentimento di simpatia, ma soprattutto mi consentì pure un avviamento libero professionale accanto a un suo fratello che, negli anni, sarebbe divenuto un luminare della scienza medica [9]. Del periodo romano mi piace ricordare qualche episodio, non davvero per vanità bensì quale testimonianza di un’epoca. Vi fu, nella vita professionale, un momento cruciale nel quale un tal ministro della sanità fece approvare dalle camere una legge che sanciva che il medico doveva svolgere funzioni esclusive e non cumulative: si poteva essere solo libero professionista, medico generico (poi detto "di base"), specialista ambulatoriale, ospedaliero o universitario-ricercatore [10]. Così impastoiato, optai per la specialistica ambulatoriale; in tale veste frequentai tanti ambulatori, prima gestiti dalle varie "casse-malattia" ancora esistenti e poi dal Servizio sanitario nazionale.
Migrai così in un mondo diverso, lasciando quindi, dopo oltre un ventennio, la medicina generica. Questa, a sera, a conclusione della maratona delle visite domiciliari, mi aveva consentito di tornare a casa, a seconda delle stagioni, con la macchina piena di cassette di frutta, uova, verdure di ogni genere, carciofi (ahi, quanti), tocchi di carne di maiale o insaccati (a dicembre, quando si sacrificava la bestia, ormai ingrassata, al dio inverno), polli (un anno nel corso di un temporale, per Natale, mi vuotarono il pollaio che ornava il giardino, portandosi via pure un fagiano), e fiaschi di vino: spesso i fiaschi, mal tappati, si versavano in macchina; questa perennemente profumò… di aceto.
Chiusa questa parentesi, iniziò la peregrinazione negli ambulatori di ginecologia della Capitale. Fui assegnato:
A quello della Banca d’Italia [11], al Tuscolano, ove avveniva il miracolo della trasformazione di grandi rotoloni di carta pregiata – ma pur sempre carta - in pesante "debito pubblico" della Nazione. Ma se uno di quei fogli, stampati a moneta, restava inceppato in qualche rotativa erano guai: tutte le uscite automaticamente si bloccavano e sino al momento del ritrovamento del frustolo scomposto non si usciva, fosse cascato il mondo… erano da vedere i finanzieri in divisa, armi in pugno.
A quello del Ministero del Lavoro, in via Flavia: che esperienza quella ragazza diciottenne per la quale il padre, dirigente, fissava la visita e lei si presentava, piangeva, si rialzava e andava via e ciò per quattro volte; finalmente l’adolescente - erano i terribili anni Ottanta: grazie alla meravigliosa Sandra, l’infermiera di sala che riuscì a farle comprendere che di me si poteva fidare - si liberò dell’angoscia: Sono innamorata di un mio coetaneo, ma temo che se gli confesserò che sono vergine, mi lascerà!
A quello di Ostia lido, ove entrai in contatto con il mondo del trasporto aereo: lì si chiuse il cerchio della mia esperienza sull’evoluzione del "costume" nel tempo. Negli anni Sessanta, all’inizio della professione ginecologica, dopo l’anamnesi, dicevo: Signora, si spogli. Lei iniziava il rito e alzava di poco la lunga gonna sino a mostrare appena la caviglia: Basta, dottore? Ovviamente non bastava. Negli anni Ottanta, vennero le hostess del vicino aeroporto; dopo l’anamnesi dicevo come sopra: Signora, si spogli; ne seguiva uno zip lungo quanto la tuta e la venere… sfolgorava intera nella sua perfetta anatomia.
Al Ministero dell’Industria e Commercio, vi rimasi solo due mesi, stanco di andare a ritirare l’auto, rimossa, all’autoparcheggio di Villa Borghese; ma molto gradita e culturalmente intensa fu invece la lunga permanenza presso l’Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato. Qui trovai un ambiente dì élite, soprattutto nella Dirigenza e nel Centro filatelico [12]: quest’ultimo fu, nel tempo, una fucina di talenti [13]. Ebbi contatti diretti e illuminanti con Eros Donnini [14], Alceo Quieti 15], Francesco Borelli, Tullio Mele, Emidio Vangelli, Alberto e Rita Morena.
Però mai mi sarei aspettato – e credo che sia stata l’ultima scintilla di un galateo purtroppo perduto per sempre – quanto mi capitò presso l’ambulatorio dell’Ufficio del Registro, in via Boezio. Ero appena giunto nel nuovo posto di lavoro; l’infermiera mi pregò di ritardare di qualche minuto l’inizio delle visite poiché era previsto il saluto del dirigente generale prof. Rumboldt al nuovo medico. Egli venne insieme con i direttori dei vari reparti dell’ufficio, me li presentò singolarmente, si complimentò per essere stato scelto per il delicato incarico che avrebbe consentito un miglior funzionamento del servizio: la mia presenza avrebbe evitato le lunghe assenze delle tante donne impiegate in quel complesso Istituto. Visitò i locali e concluse la visita con un brindisi, condiviso con i pazienti in sala d’attesa; mi salutò con una frase che mi sconvolse: E da oggi, dottore, lei è sotto il nostro grande ombrello. Mi permisi di dire che non lo avevo chiesto, ma mi rispose: Gliel’offriamo noi su un piatto d’argento.
Mi ripromisi di non dover mai abusare dell’offerta ma dovetti ricredermi a distanza di pochi mesi. A dicembre era accaduto un pasticcio nazionale creato dalla burocrazia contabile per la solita costumanza di "non fare sapere alla destra quel che faceva la sinistra": l’intera classe medica ambulatoriale si trovò in difficoltà con il fisco per un contributo pertinente a dicembre ma contabilizzato nel gennaio successivo. Si presentò - a livello nazionale - il dilemma fiscale se la cifra retribuita a gennaio dovesse far parte della denunzia dei redditi dell’anno appena scaduto o del successivo: le interpretazioni ovviamente furono contrastanti nei singoli uffici con conseguente confusione decisionale su multe e interessi di mora. Essendo io vicino alla dirigenza SUMAI [16] del tempo, fui incaricato di esporre il quesito al prof. Rumboldt che, con la saggezza dei maestri di un tempo, diede subito l’interpretazione favorevole ai medici.
Per molto tempo la permanenza in quell’ambulatorio fu un idillio fino a quando, alla metà circa degli anni Ottanta, giunse il momento convulso della riforma sanitaria: si tentava l’ennesima "riforma della riforma". Accadde infatti che, mentre Bettino Craxi si accingeva a formare il suo secondo governo, nel 1986 tornò in campo alla grande Carlo Donat-Cattin [17], subito chiamato a ricoprire il ruolo di Ministro della Sanità. Egli, riprendendo un suo precedente programma, pose mano alla "sforbiciata" degli ambulatori aziendali e ministeriali, nel tentativo di ridurre il bilancio delle spese della sanità sempre lievitanti, fonte inesauribile di sprechi e corruzione. Un giorno quindi mi pervenne una lettera di trasferimento dall’Ufficio del Registro ad altra sede. Mi accingevo a riorganizzare la mia settimana, quando per telegramma, fui reintegrato nell’ambulatorio di via Boezio: mi fu riferito che il prof. Rumboldt aveva chiamato il nuovo ministro per dirgli che non gradiva quel trasferimento… non concordato.
Potenza della burocrazia!
Note:
[1] Salvatore G. Vicario, Un paese in montagna, Roma 1973
[2] L’acrocoro, oggi detto del Castello, salendo dal mare lungo il letto del fiume Fitàlia, si erge superbo sull’intera vallata
[3] Michele Amari, Biblioteca arabo-sicula, vol. II, ed anast. Dafni 1982, p. 726
[4] Fototerapia, pomate emollienti, creme a base di corticosteroidi, acido salicilico, derivati della vitamina A o gli analoghi della vitamina D…
[5] Se lo sapesse mio marito, ci ammazzerebbe entrambi
[6] Bella descrizione da una “guida turistica”
[7] Vicario et al., La preparazione globale al parto, Roma 1993
[8] Id., Ciarle di un vecchio medico curioso, Editrice Agemina, Firenze 2013, p. 47 sgg.
[9] Id., Aldo De Maria Marthiano, in Dizionario Biografico degli italiani, Ist. dell’Enc. Treccani, ad vocem; Id. , Quaderno Mamertino 2009, S. Agata Militello 2009, pp. 69-71; Id., Ciarle di un …, cit., pp. 47-52
[10] Id., “La riforma sanitaria”, in Ciarle di un …, cit., pp. 251-270
[11] Mi piace qui ricordare uno dei più grandi maestri della carta-moneta che hanno onorato l’Italia: Trento Cionini. Cfr. Vicario, Ricordo di Trento Cionini, Annali dell’Associazione Nomentana di Storia e Archeologia onlus, 2007, p. 245); http://wsimag.com/it/arte/12275-trento-cionini
[12] Vicario, Numismatica, filatelia, carte valori, Annali 2007, cit., p.232. Il francobollo, i valori bollati, la moneta e la carta moneta non erano stati mai visti, a torto e per lunghi secoli, come opere d’arte: solo con un saggio edito nella Storia dell’arte italiana la nobilissima arte della grafica è stata collocata nella sua giusta posizione, ricca di significato e portatrice di messaggi altrimenti non esprimibili. Infatti, scriveva Zeri, “il tipo della stampa, i caratteri delle scritte e delle cifre, l’immagine con cui l’autorità emittente si dichiara, sono tutti dati da cui il bollo postale deriva una precisa posizione storica, ben più complessa di quel che sia implicito nel suo semplice atto di nascita”.
[13] Federico Zeri, I francobolli italiani: Grafica e ideologia dalle origini al 1948, “Storia dell’arte italiana”, IX, Torino 1980, pp. 289-319; Anna Da Sacco, Il francobollo tra arte e comunicazione nella Repubblica italiana, Annali 2007. cit., pp. 233-245
[14] www.associazionenomentana.com, "soci onorari", ad vocem; Anna Da Sacco, Un principe del bulino, Annali 2007, cit., p. 239
[15] Vicario, Alceo Quieti, incisore, Annali 2007, cit., pp. 248-49
[16] Sindacato Unico Medicina Ambulatoriale Italiana
[17] Nel 1980, dopo lo scandalo suscitato dall'adesione del figlio Marco all'organizzazione terroristica di estrema sinistra Prima Linea, si era dimesso da ogni incarico e aveva lasciato temporaneamente la politica.