Guerra e letteratura, un binomio ricco di sorprese, scoperte, rivelazioni, entusiasmi o delusioni. In particolare, la “Grande Guerra”, primo grande evento straordinario che coinvolse tutta l’Europa e la sua cultura, fu elemento deflagrante di esperienze, incontri, riflessioni, che segnarono migliaia di pagine di scrittori di tutte le lingue, lasciandoci una testimonianza, che va al di là della semplice letteratura, attingendo alle più profonde radici dell’esistenza umana. E queste testimonianze sono tanto più utili e ricche di significato in un frangente storico come il nostro, quando la guerra continua ferocemente a imperversare in tutto il globo, anche se nascosta o ammantata di falso umanitarismo.
Scritti come Le guerrier appliqué di Jean Paulhan, o Ognuno di Ernst Wiechert, andrebbero riscoperti e riletti nella loro originalità antropologica e stilistica, ma anche in Italia, il coinvolgimento degli scrittori germinò opere di altissimo livello. Tralasciata la produzione in genere retoricamente propagandistica di D’Annunzio, con le sue parole “vecchie e false” come le definì Renato Serra, basti ricordare, ad esempio, questi versi di Corrado Govoni, che dal suo diafano crepuscolarismo era passato a una violenza espressionistica: “Non è l’amore della famiglia/ della giustizia della civiltà che ci spinge all’eccidio ed al massacro/alla distruzione/ma il nostro oscuro istinto di conquista e di rapina/ e di stupenda ribellione/contro tutte le false leggi della società/stato, religione:/menzogne, menzogne, maschere, maschere… ”.
Espressionismo, ma in una versione di cruda sofferenza in Clemente Rebora: “O ferito laggiù nel valloncello,/Tanto invocasti/Se tre compagni interi/Cadder per te che quasi più non eri,/ Tra melma e sangue/Tronco senza gambe/E il tuo lamento ancora,/Pietà di noi rimasti/A rantolarci e non ha fine l’ora,/Affretta l’agonia,/Tu puoi finire,/E conforto ti sia/Nella demenza che non sa impazzire,/Mentre sosta il momento,/ il sonno sul cervello,/Lasciaci in silenzio-Grazie fratello”.
Ma tanti altri scrittori si confrontarono col tema bellico in raccolte liriche, diari, pamphlet, racconti, romanzi, da Gadda a Malaparte, da Ungaretti ad Alvaro, da Lussu a Stuparich. Se poi vogliamo trovare un testo, che al lirismo unisce una profonda riflessione esistenziale sulla guerra, non possiamo non citare quel capolavoro del cesenate Renato Serra che è Esame di coscienza di un letterato, scritto nel marzo 1915, a pochi mesi dalla scomparsa dell’autore sul fronte del Podgora. “I soldati lo supplicavano di continuo: si abbassi signor tenente! Egli mai non volle. Fu colpito in fronte… ” così riporta la sua scomparsa un altro grande conterraneo e amico, Alfredo Panzini.
Il perché di questo gesto apparentemente autolesionistico è probabilmente legato anche a una dolorosa vicenda sentimentale che aveva segnato la sua esistenza negli ultimi anni e per cui si rimanda a quel bellissimo saggio-narrazione Lettere a Fides-Saetta che ferisce e vola di Renato Turci. Abbiamo parlato di “esistenza” e l’Esame di coscienza è proprio uno dei più profondi e partecipati saggi di esistenzialismo, come filosofia della crisi, con quel vuoto di certezze, quella sensazione di angoscia e di finitudine che doveva poi lievitare dopo la guerra.
In Serra la feroce diatriba tra neutralisti e interventisti rimane innocuamente sullo sfondo, la guerra è la scelta di vita, o, meglio di approccio al destino umano che è la morte. “In me non c’è altro che il vuoto. E in fondo al vuoto, il senso di tensione che viene dai ginocchi irrigiditi e da qualche cosa che s’è fermato nella gola: la stretta delle mandibole, quando la testa si rovescia indietro a lasciar passare quello che cresce lento nel cuore …la mia carne conosce questa stretta improvvisa dell’angoscia, che sorge dal fondo buio… ”. Allora, cos’è la guerra? “La guerra è un fatto, come tanti altri in questo mondo; è enorme, ma è quello solo; accanto agli altri, che sono stati, e che saranno: non vi aggiunge; non vi toglie nulla: Non cambia nulla, assolutamente, nel mondo. Neanche la letteratura…”.
D’altra parte, qualsiasi cambiamento più o meno esteriore determinasse la guerra: “Non c’è bene che paghi la lagrima pianta invano, il lamento del ferito che è rimasto solo, il dolore del tormentato di cui nessuno ha avuto notizia, il sangue e lo strazio umano che non ha servito a niente. Il bene degli altri, di quelli che restano, non compensa il male, abbandonato senza rimedio all’eternità…”. E la prosa serriana nella sua fervida liricità guarda dall’alto l’inanità umana colta nella tragedia del conflitto: “la guerra è passata devastando e sgominando; e milioni di uomini non se ne sono accorti… ma la vita è rimasta, irriducibile nella sua animalità istintiva e primordiale, per cui la vicenda del sole e delle stagioni ha più importanza alla fine che tutte le guerre, rumori fugaci, percosse sorde che si confondono con tutto il resto del travaglio e del dolore fatale nel vivere… ”.
Allora, cosa resta di questa brutale esperienza? “Andare insieme. Uno dopo l’altro per i sentieri fra i monti, che odorano di ginestre e di menta… ” Quello che riscatta la tragedia bellica è la condivisione: “Fratelli? Sì, certo. Non importa se ce n’è dei riluttanti; infidi, tardi, cocciuti, divisi; così devono essere i fratelli in questo mondo che non è perfetto… mi contento di quello che abbiamo di comune, più forte di tutte le divisioni. Mi contento della strada che dovremo fare insieme, e che ci porterà tutti egualmente… ”.
Giuseppe De Robertis, suo grande amico e curatore della sua opera, nell’edizione Treves del 1916, così affettuosamente e profondamente lo ricordò: “Ha dovuto, in ultimo, morire, per rimaner più solo. Non per la patria. Per una scuola di sapiente umanità… di sé ha accettato il meglio, degli altri anche il peggio. Anche la guerra, che non sentiva. Ma s’è caricato lo stesso del suo carico. S’è sentito piccolo davanti a un fatto grande. Un uomo solo davanti a milioni di uomini… ha fatto bene a morire: ad andarsene. Tocca a noi di rimanere; sciagurati; finché ci dà l’animo; a trascinare il nostro carro”.