Livia s’allontana dalla stazione a passo di tartaruga. Cammina curva sotto il peso di un grosso zaino e di una borsa a tracolla mezza sbrindellata, trascina un trolley sul quale tiene in bilico un borsone, nell’altra mano porta la custodia che protegge il suo violino. È imprigionata sotto la spinta gravitazionale dei bagagli. Un ragazzo radioso passa correndo molto veloce accanto a lei, va nella sua stessa direzione e indossa delle cuffie. Sembra libero e il sole l’illumina, non lo schiaccia sull’asfalto. Gli cade un taccuino da una tasca troppo piccola. Livia lo raccoglie e gli urla: «Hey! Ti è caduto questo!», il ragazzo non sente. Forse la musica nelle cuffie è troppo alta? Livia tenta di rincorrerlo, ma avete mai visto una tartaruga correre? Non è che non ci provino, solo che sono lentissime. Dunque Livia, di fronte all’impossibilità dell’impresa, si ferma quasi subito e ficca il taccuino in una tasca della borsa.
Quella sera Livia dorme in un ostello. È già sotto le coperte quando le viene voglia di allungare un piede sulla strada di qualcun’altro, di dare un’occhiata a un’altra vita… apre il taccuino. Legge:
Se pensassi di poter andare via
per venire da te,
diecimila miglia sarebbero un miglio.
Ma stiamo nella stessa città
e non oso vederti,
e un miglio è più lungo di un milione di miglia.
Livia s’è ripetuta spesso le parole andare via e miglia, un milione di miglia... S’addormenta con la dolcezza di chi ha scorto qualcosa di sé in un insieme estraneo di parole. La sera dopo Livia, caricatasi nuovamente di bagagli, torna verso la stazione per riprendere il suo viaggio. Ed ecco che riappare il ragazzo con le cuffie! Ora corre nella direzione opposta alla sua. Si guardano negli occhi. Quando lui la sorpassa Livia si gira, lascia il trolley, urla: «Aspetta!» e inizia a correre.
Livia si lanciò all’inseguimento di un brivido. Abbandonandosi nelle braccia della libertà gettò tutti i suoi averi, nella speranza di afferrare un mistero lasciò indietro persino ciò che aveva di più caro. Di nuovo libera come quando era partita per il suo peregrinare, Livia correva senza passato. Scappava e inseguiva.
Il ragazzo non si ferma, gli cade una cuffietta ma la rimette subito, accelera. Anche Livia, lasciando cadere uno a uno tutti i bagagli, accelera. Inspiegabilmente abbandona persino il suo violino, per ultimo, poggiandolo a terra più piano. Quando sono ormai lontani dalle borse lui rallenta e lei lo raggiunge. Gli restituisce il taccuino. Lui la ringrazia con un sorriso mezzo timido. Livia aggrotta le sopracciglia: «Ho lasciato per strada il mio violino… Ho lasciato tutto». Lui si affretta a consolarla: «Ti aiuto io a recuperare i bagagli, andiamo». I due tornano indietro per recuperare le cose di Livia, ma sono tutte sparite. Livia sente lo stomaco contorcersi su sé stesso, il cervello farsi confuso, l’adrenalina pompare nel suo corpo assieme al vuoto: non possiede più nulla. «Mi spiace che tu abbia perso tutto, è solo colpa mia», afferma il ragazzo, «quindi puoi stare da me, cioè, è strano lo so, tu non mi conosci… ma è mio dovere aiutarti». Livia lo segue senza meta.
Giunti a casa, il ragazzo esorta Livia a rilassarsi con un bel bagno. Lei non riesce a calmarsi e gioca con la schiuma schizzando da ogni parte. Quando esce dalla vasca: sorpresa! Trova in tavola il suo piatto preferito: pasta al forno. L’ha cucinata proprio lui, ed è buonissima. Tra tutto quello che poteva scegliere proprio il piatto preferito di Livia! La ragazza si getta sul cibo con una strana euforia. Quella notte i giovani, sdraiati in due letti uno accanto all’altro, parlano a lungo. Quando si danno la buona notte il ragazzo sembra addormentarsi in un battibaleno, mentre Livia, che non riesce a prender sonno, lo fissa per quelle che sembrano ore, nella notte, con gli occhi accesi come lucciole.
Passano i giorni. Il ragazzo è molto gentile, fa avere a Livia tutto ciò di cui ha bisogno e anche di più. Le porta la colazione a letto, le regala libri da leggere, film da guardare insieme. Ma Livia sente la noia calare sui suoi giorni, ogni giorno di più. Gira in quel luogo che non è suo, che non diventerà mai suo. Non ha voglia di fare nulla e allo stesso tempo vorrebbe fare qualcosa, qualsiasi cosa. Nota che in casa c’è una porta sempre chiusa a chiave. Non riesce a dormire. Fissa il vuoto. Muove le dita fingendo di suonare.
Una notte, mentre il ragazzo dorme, Livia perde la pazienza. Apre un cassetto, poi un altro… ci prende gusto, si eccita, finisce per frugare in ogni cassetto, in ogni armadio, in ogni scatola alla ricerca del mistero. Ma non trova nulla di strano, nulla che possa svelare l’anima del padrone di casa. Finché non vede la giacca del ragazzo, finché non si avventa sulle sue tasche: sente sui polpastrelli qualcosa di metallico, esulta in silenzio. Scivola sulle pantofole fino all’unica stanza dove le era stato silenziosamente negato l’accesso, «forse qui dimora il suo cuore», pensa. Infila la chiave nella serratura, gira: funziona. Ombre familiari si stagliano nel buio della camera. Livia con ossequioso timore avanza nel nero. I raggi di luna sono stati banditi: niente finestre. Nonostante questo Livia non osa accendere la luce. S’aggira tra le sagome come un fantasma attorno agli oggetti che erano suoi in un’altra vita. Tocca i suoi bagagli, uno a uno, col fiato sospeso, come fossero cadaveri, finché non trova la custodia del violino. Allora la prende ed esce dalla stanza a piedi nudi, senza far rumore. Sulla soglia di casa s’infila le sue vecchie scarpe. La chiave del portone è come sempre sul mobile accanto all’uscio: Livia lo apre, lentamente, scatto dopo scatto. Quando finalmente i giri di chiave finiscono, Livia spinge il portone e si lancia fuori disperata, corre.
Il ragazzo apre gli occhi, s’alza ed entra nella stanza segreta lasciata aperta da Livia. Si avvicina a un vecchio armadio e spalanca le ante: è pieno di strani oggetti. Il suo sguardo si sofferma per un attimo su una sorta di bambolina wodoo, poi si sposta sul violino di Livia: con delicatezza lo prende tra le mani. Si precipita fuori casa, con lo sguardo di un folle corre nella stessa direzione presa da Livia.
Quando Livia arriva nella piccola stazione il sole sta sorgendo. Con ansia aspetta il primo treno del mattino, la direzione non ha importanza. La campanella suona: sta per arrivare. Livia scalpita, si morde il labbro inferiore e stringe la custodia del violino fino a sbiancarsi le nocche. Dopo quelli che sembrano anni il treno si ferma e Livia si precipita a bordo. Dal finestrino scorge il ragazzo: si guarda attorno e nella mano sinistra tiene il suo violino. Il cuore di Livia perde un battito, stringe la custodia percependone la leggerezza per la prima volta. Il treno parte e Livia è piena di libertà.