Alcuni passanti brandiscono l’ombrello come fosse una baionetta. Bisogna guardarsene per non essere infilzati in un giorno di pioggia. Eravamo più o meno abituati a schivare i colpi, ma di recente è comparsa una nuova insidia urbana dalla quale difendersi, soprattutto nelle città turistiche: l’asta in cima alla quale si piazza il telefonino per scattare il selfie, la foto di se stessi che solo in minima parte è parente dell’ormai preistorico autoscatto. L’autoscatto, tranne quando sperimentato da artisti sommi, aveva quel non so che di fanciullesco e un po’ patetico nello studiare la posa e fare la corsetta dopo aver premuto il “grilletto”, con il rischio di entrare nell’inquadratura solo con uno zigomo o di assumere un’aria ebete. Era episodico, per immortalare grandi occasioni. Il selfie è quotidiano, quasi orario: lo si “posta”su Facebook e similari affinché gli altri possano commentare: bellissimo, con decine di punti esclamativi, anche quando il soggetto è uno scorfano spaventoso. Fissazione per l’immagine? Trionfo della superficialità totale?
Non secondo Rosellina Garbo, ballerina classica e contemporanea e fotografa di scena del Teatro Massimo, in questo ordine, ma solo dal punto di vista cronologico perché fotografava ballando e, da quando si è ritirata, non ha mai smesso di danzare nella sua interiorità. “Il selfie apparentemente è una banalità - riflette, in una giornata palermitana molto azzurra e ventosa -. In realtà ti guardi nel contesto che vedi, vuoi appropriarti della tua immagine dentro le cose che ti piacciono. E’ un’affermazione di te in una società nella quale non sei. Questo tempo non dà la parte che ognuno reclama, la società non è di merito, ci fa essere sospesi in quello che l’altro non ti dà. Tutto, social inclusi, è il mondo delle non relazioni. Il selfie mi dà testimonianza di quello che ho vissuto. E se fai un selfie e sei felice? Se la tua autostima cresce? Che cosa può esserci di più forte della consapevolezza che non c’è scarto fra quello che senti dentro e la tua immagine? E’ più potente che essere fotografati”.
Rosellina spiega che una ballerina è sempre in un selfie: “Nella danza formuli un giudizio severo su te stessa attraverso lo specchio. Devi imparare ad accettare quell’altra che guardi e che sei costretta a guardare. Tu che guardi sei l’anima e provi una frattura fra te e quel che vedi. Devi imparare a guardarti e accettarti nella forma del tuo corpo”.
Rosellina è stata costretta a smettere di danzare nel 2006, dopo una serie interminabile di infortuni. L’ultima volta che ha ballato si è cimentata in una danza aerea a trentacinque metri di altezza a Taormina, durante il Taormina Film Festival. C’erano un sacco di celebrità ad ammirarla fra le quali un rapito Joseph Fiennes, ancora con l’aureola del successo di Shakespeare in love: “Non avevo mai ballato in aria, l’ho fatto per incoscienza ed è come se avessi completato il senso della potenza di sentirmi piena della fisicità. Quella notte, alzata in volo dal mare, attaccata a una mongolfiera a forma di luna, sola nel buio, in una dimensione inimmaginabile, senza più sentire la musica, assente dalla coreografia, mi concessi alla follia e alla forza. So che non potrò mai più vivere questo”. Tornata a terra, in un altro mondo, sentì Joseph Fiennes dire “Where is the moon? (Dov’è la luna? n.d.r.)”, negli occhi dell’attore inglese c’era l’emozione, lo sgomento.
Lasciando il ballo e anche l’insegnamento del ballo, Rosellina aveva perso la sua identità di ballerina, quindi l’identità: “Esistevo in un’immagine, se tagli questo non rimane nulla. Da un secondo all’altro non ero più nessuno. Per inciso: la danza era arrivata con grande difficoltà nella mia vita. La mia è una famiglia di medici, ingegneri. L’idea del protagonismo per mio padre era inaccettabile. La prima volta che ho sperimentato la danza è stato a Cefalù, il luogo delle mie radici, bambina passavo ore di abbandono in mare, senza peso, dove il movimento era quello che volevo proprio perché l’acqua ti costringe a uno sforzo incredibile”.
E’ stata la fotografia che le ha restituito l’identità: “Tutto quello che mi sta dentro ha costruito quello che sono quando fotografo e fotografandoti cercherò sempre quello che tu sei dentro in relazione con me. Fotografare è un modo forte di essere me stessa: adesso, se mi guardo dietro, penso che senza la fotografia mi sarei persa la parte più importante di me. La macchina fotografica mi permette di vivere il mio autismo. Io sono protetta, come le luci mi proteggevano quando ballavo sul palcoscenico. E mi sento legittimata ad essere invasiva”.
La Garbo, e non parliamo di Greta, ha le ciglia lunghissime, uno sguardo che s’impone per il dolore che porta e la gioia che porge, un sorriso abbagliante. L’insieme è di un’intensità rara che richiede attenzione. Le sue parole sono precise e puntano all’essenza delle cose: “Nella danza sfidi le leggi della gravità, scardini tutto, ruoti il femore e sulla punta di un piede hai una base di appoggio di quattro centimetri e su quei quattro centimetri hai bisogno dell’energia che non può finire e dell’equilibrio. Anche la macchina fotografica apre mondi di equilibrio. In teatro fotografare crea gelosie, ma appena senti la tensione, sposti l’obiettivo su quelli che si sentono trascurati e subito tutto viene governato dall’armonia. Fotografare la scena è un privilegio enorme. Hai sempre a che fare con persone che devono attraversare in modo estremo la vita. Tu sei a contatto con gli attori, i cantanti, i ballerini che regalano la loro anima ai personaggi e viaggiano in tre ore nella vita intera. Quando fotografo non dico: ora faccio questo o quello. Entro in trance e non me ne rendo conto. Mi sento una rabdomante. Se Giulietta muore, io sono testimone di questa morte”.
Fra gli incontri indimenticabili quello con Solène Fiumani, danzatrice e assistente di Matt Mattox. Energia interiore pura. A cinquant’anni, sdraiata per terra, apparteneva alla terra ed è schizzata come una scheggia a quaranta centimetri da terra. Quello con i bambini socialmente a rischio nelle scuole di frontiera, insegnante in un progetto per ridurre l’abbandono scolastico. “Il primo giorno sono entrata in classe e mi volevano dimostrare che non c’ero. Pensai: o muoio, o me ne vado, o mi fanno secca loro. L’unica arma potente che avevo era la loro stessa immagine. Li ho filmati: dimostravo subito quello che erano”. Non si devono essere piaciuti se, dopo essersi visti, hanno cominciato a dialogare con Rosellina, la Garbo.