La costante trasformazione della materia e l'instabilità della realtà. Due assunti in punta di piedi. Qualche anno fa ebbi modi di vedere alla CCC Strozzina Dead sea un video dell'artista israeliana Sigalit Landau. Il corpo dell'artista si trovava inserito in una spirale di angurie, anch'esse immerse nelle acque saline del Mar Morto. A mano a mano che la forma spiroidale si srotolava si percepiva chiaramente come tutto fosse strettamente collegato e mobile. Comprendiamo così che in un fluire costante ci troviamo a relazionarci oltre il concetto di limite e confine. L'artista stessa dichiarò: "Un confine è soprattutto e in primo luogo una parola che può essere utilizzata secondo diverse accezioni, in riferimento alla soglia del dolore, al confine dell’essenza, al limite di un disastro, al discrimine tra sanità e pazzia. (…) In un certo senso, i confini sono la pelle dei luoghi e anche una sorta di scorza per la maggior parte delle idee. I confini sono le nostre definizioni. E sono troppo sottili. Non c’è niente da controllare, perché non vediamo mai l’altro lato del confine correttamente".
Quest'opera ben rimanda all'ultimo lavoro dell'artista Virginia Zanetti, che da sempre lavora sul tema della relazione e dell'alterità. Lo scorso 4 giugno alla Galleria Dino Morra Arte Contemporanea ha preso vita la performance dal titolo Poggiare i piedi dentro l'anima/Studio quarto per l'estasi nel paesaggio a cura di Marianna Agliottone. Studio per l'estasi nel paesaggio è una ricerca che l'artista toscana sta portando avanti dal 2013, per sperimentare la fusione col tutto attraverso l'espansione del sé e la negazione del piccolo io. Si tratta di un ciclo di lavori performativi che interessano sia il paesaggio che il pubblico.
Quella della Zanetti è un'estetica estatica, dell'abbandono, un'estetica dell'origine. Dal greco antico èk-stasis, ovvero "stare fuori di sé", occorre uscire dai propri confini per incontrare l'altro da me. L'artista parte da un assunto buddhista fondamentale, quello dell’“origine dipendente", il quale insegna che tutta la vita è in costante relazione reciproca: Niente esiste isolato e indipendente dalle alte forme di vita. Un termine giapponese, Engi,riconferma questo pensiero, significa letteralmente "apparire in relazione", nessun essere o fenomeno esiste di per sé, ma solo in relazione ad altri esseri o fenomeni: ogni cosa del mondo viene alla luce in risposta a determinate cause e condizioni. Vale la pena citare qui parte di un motto che apre il Manuale di psicodramma - Teatro come terapia di Moreno, e che sottolinea l’importanza dell'incontro con l'altro da noi.
E quando sarai vicino io coglierò i tuo occhi
per metterli al posto dei miei,
e tu coglierai i miei occhi
per metterli al posto dei tuoi,
poi io ti guarderò coi tuoi occhi
e tu mi guarderai coi miei.
Così persino la cosa comune impone il silenzio e
il nostro incontro rimane la meta della libertà:
il luogo indefinito, in un tempo indefinito,
la parola indefinita per l'uomo indefinito.
Lo spazio e il tempo di una performance che porta in sé come seme genetico proprio l'indefinitezza. In Poggiare i piedi dentro l'anima, pensata appositamente per gli spazi dell'ex Lanificio di Porta Capuana a Napoli, ogni singola presenza veniva invitata a sperimentare il contatto globale, uditivo, cinetico, fisico, energetico e percettivo con ciò che le stava intorno. Un'azione dove ci si incontrava/scontrava con la superficie dell'altro, in un ascolto reciproco, abbandonandosi all'ignoto, all'indefinito, all'incerto, poggiando i piedi sulla materia fino a scivolare dentro l'anima. I blocchi di argilla utilizzati saranno i fossili del domani, imprimeranno su di sé per sempre l'essenza dell'assenza, la traccia di una presenza, di un passaggio, tra corpo e corpo, in un dialogo silenzioso sulle origini. Un'archeologia dell'abbandono. Come Nietzsche scriveva in Così parlò Zarathustra: "Ascoltate, fratelli, la voce del corpo. Esso parla del senso della terra".
Espansione e dissoluzione. Attraverso un corpo che si fa transfert l'artista sperimenta sia la dimensione estetica che quella estatica. È questione di entrare fuori, uscire dentro. Una frase ad alto tasso dicotomico che porto con me in occasione di situazioni precarie e totalizzanti. Fragili e incontrollabili. Come scrivevo all'inizio è una questione di soglie. Carlo Sini, filosofo italiano nel 1993 disse: "Nella soglia abbiamo un di qua e un di là; e di là non siamo più gli stessi che eravamo di qua. Anche il più semplice gesto che afferra un oggetto varca una soglia". Nel gesto dell'artista verso il corpo, l'altro, la materia e l'origine, verso il tutto, si celebra la differenza. La differenza dell'ex-sistere, dell'uscire fuori. Si sfiora una vita, come una superficie vetrata, e niente è più come prima, il nostro passaggio porta il segno della differenza.
Occorre inoltre sottolineare che come Merleau-Ponty affermava: "Io non sono di fronte al mio corpo, ma sono nel mio corpo, o meglio, sono il mio corpo". Tutti abbiamo un corpo, ma difficilmente ognuno di noi è consapevole e cosciente di essere corpo. È il corpo che ci apre al mondo in un movimento di esistenza verso l'altro. Seguendo l'esistenzialismo heideggeriano, l'Esserci – Dasein, è chiaro che noi non abbiamo un corpo, ma siamo un corpo, un corpo-Leib, un corpo esistenza. Il soggetto umano in quanto Da-sein è sempre là (Da) nel mondo, dove si determina la situazione, che può essere trascesa attraverso il pro-getto (gettato avanti). L'uomo e-siste, si caratterizza per la possibilità di ex-sistere, cioè "uscire-da", oltrepassare la situazione nella quale è gettato. E ciò che gli consente di trascendere la situazione è la possibilità. Il corpo è anche poter essere, ovvero poter essere "altrimenti" e "altrove" rispetto alla situazione data. L'esserci nel suo essere-nel-mondo impone un altro concetto fondamentale, * la cura*. Nella cura trovano fondamento i sentimenti, la tendenza, l’impulso, il desiderio.
Binswanger studiò il concetto di cura indicando: "Un superamento della singolarità/solitudine del soggetto verso una dimensione duale/relazionale". La cura di sé non è separabile dalla cura degli altri ed è l'elemento che trasforma l'essere-l'uno-accanto-all'altro (nella vicinanza fisica dei corpi) in un essere-assieme nell'incontro, rendendo possibile la relazione tra i soggetti. L'estetica della Zanetti è anche un'estetica della cura e del coito, dove la fusione con l'altro, sia esso elemento umano o di paesaggio, trova nella totalità, una liberazione che mina l'eutanasia culturale che sta dilagando nella cronaca di oggi, nelle scelte politiche alienizzanti. Una politica che sempre di più accoglie le barbarie dell’indifferenza e dell’incuranza.
Poggiare i piedi dentro l'anima non è più utopia, ma possibilità. È ancoraggio e slancio. Una possibilità che l'artista ci dona, per abbandonarci a un ascolto con la totalità. Solo comprendendo, solo tenendo dentro di noi l'altro come origine, urgenza e necessità potremmo scavare in punta di piedi una traccia su questa terra. In perpetua oscillazione, entrando fuori, uscendo dentro.