In direzione di casa tua, le nuvole nel cielo celeste hanno l'aspetto di una spina dorsale, di una cicatrice. Quando la meta è visibile, il cammino sembra eterno. Le mie gambe sono tese fino allo spasmo. Il mio fiato come una freccia, e tu sei l'arco. Questa interminabile maratona che continua anche quando sono fermo. Sei la scritta “arrivo” che non si romperà mai sulla mia pancia. Nessun pubblico mi incita, nessuno mi disseta. Solo vado avanti. E dietro di me sparisce il mondo.
Quando tu sei nata io avevo quattordici anni. E in quella data, in quell'orario, io giocavo a calcetto e perdevo. Mentre ti facevano il bagnetto, io facevo la doccia. Tu il tuo primo pianto che ti libera i polmoni. Io il mio millesimo trattenuto nei polmoni. Poi sei cresciuta in fretta, e nel mio ricordo di te che non conoscevo ancora, sei sempre stata così come sei ora, lo stesso taglio di capelli, gli stessi abiti ma più piccoli, le stesse scarpe, ma meno consumate. Sei sempre stata così nel mio ricordo che di te non ho.
Non hai mai parlato. Non hai mai detto una parola. Tua madre ha speso tutto ciò che aveva perché qualcuno la aiutasse, per sentirsi “mamma”, perché solo la tua voce poteva riconoscerle quel ruolo. Così le sembrava, così viveva, scandendoti le sillabe di ciò che lei era: ma mma ma mma ma mma. Un suono muto retrocesso nella tua gola piccola, che è semplicemente silenzio. Non c'era niente ad impedirti di parlare. Solo: non volevi. Ma dal primo istante in cui hai toccato terra, tu ballavi. E ballavi davvero. La danza non è solo movimento. È ascolto. Proiezione. Quella specie di carezza interna che flette il collo e ti socchiude gli occhi, che ti fa gli arti acquatici in un mare inesistente, e ti toglie il peso.
E più crescevi e più imparavi, e più imparavi, più ritornavi primordiale e primitiva, più i tuoi gesti si facevano materia e storia, articolazione del corpo umano tutto, entità, che si spiegava attraverso te. Non uno stile a cui aderire, non una plausibile definizione. Solo possibilità per dire nella tua lingua, nella grammatica del tuo busto e del tuo cuore.
Come un fenomeno naturale, che si manifesta inaspettato. Un temporale, una tromba d'aria, un terremoto. Eri e sei. Camminarti accanto ed incrociare un suono che ti piega in due, fisicamente. Come il calcio di Bruce Lee che stende i ninja, che ti fa sempre molto ridere, spaventare, innamorare. Solo che tu sei un ninja, e la musica è Bruce Lee. In qualsiasi luogo del mondo, tra tutte le musiche che quotidianamente ti invadono, tu rispondi solo ad alcune, e ti muovi, ti liberi, lotti, e non ti interessa vincere mai, perché chi sa di perdere vince sempre.
Così ti ho incontrata, che ballavi nel sottopasso della stazione di fronte a casa mia, che io attraverso sempre per tornare a casa. La musica diffusa di Bach, forse. Non so riconoscerla. Alternavi momenti di grazia estrema a momenti di aggressività e di disperazione, come se ti possedesse qualcosa che ti ama ma che ti offende. Avevi sedici anni. Dei pantaloncini sporchi di verde, quel verde che riconosci perché è quello dei prati. Una maglietta bianca lavata troppe volte, quindi più grigia che bianca, più sottile di quello che dovrebbe. Capelli leggerissimi che non arrivano alle spalle, color nocciola delle matite colorate.
Io pensavo fossi un'artista di strada, che ne so, ti ho messo qualche moneta sullo zainetto appoggiato a terra come una culla vuota. Tu ti sei fermata di botto, che i capelli e la maglietta ci hanno messo un secondo in più a tornare fermi, e mi hai guardato come si guarda un mostro, non tanto nell'aspetto, quanto nelle intenzioni. Hai preso le monete nel pugno, me le hai lanciate contro. Hai preso lo zaino e sei corsa via.
Io non so perché, ma ho iniziato a correrti dietro, a dirti “scusa” e “aspetta” mille volte in ordine sparso. Finché non ti sei fermata al rosso di un semaforo, istantaneamente, come il buffering in un video velocissimo, e ti sei girata a guardarmi con quegli occhi che se dovessi spiegarli userei solo metafore gigantesche che nemmeno conosco. Ti ho detto in apnea camuffando l'affanno: “Scusami... A parte che non c'è comunque niente di male, eh, non è che ti ho sputato addosso. Che esagerazione”.
Tu hai avuto un leggero moto in quell'armonia che è il tuo viso, qualcosa di simile ad un sorriso. Anche gli occhi erano per un istante diversi. Meno opachi. Più grandi. Ti ho fatto la domanda per antonomasia: “Come ti chiami?”. Non hai risposto. Mi hai dato un impercettibile pugnetto sul braccio, in quel punto che non so che nome abbia, dove le vene sono più visibili, e per prendere te come esempio, è quel posto in cui mi sei entrata dentro, non tanto come una droga che entra in circolo nel sangue, ma come una vita che entra in circolo nella mia vita, sconvolgendo tutto. E poi non so cosa è successo, come si sono evolute le cose, fino ad ora. Come ho fatto ad esserci per te senza pesarti, come ho fatto a meritarmi il tempo che mi dedichi.
Come siamo arrivati ad oggi, che sono passati dieci anni, ed io vengo verso casa tua che è grande come il pozzo luce di una casa normale, e più cammino in questo spazio sconfinato che è il tutto, più desidero ardentemente quei pochi metri quadrati in cui ogni movimento è un contatto, dove tu riesci sempre e comunque a trovare il modo di ballare, anche quando sei ferma immobile in un angolo, e ti vibrano voli di note nelle costole, ed io li vedo, ormai li vedo, nitidamente, come uccellini che custodisci e poi liberi, come una micro gabbia in cui il suono viene solo a cibarsi, e poi va via, lasciandoti vuota e usata, ma utile, necessaria, meta sicura, sostentamento reciproco, cura senza pretesa. Senza di te, lo credo fermamente, tutte le note morirebbero di fame.
Foto di Leanne Surfleet
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Colonna sonora