Che tempi bui. Una considerazione che non serve solo per commentare recessione, spread, e borse (sia quelle dei valori che quelle personali), ma anche per riflettere sulla grazia con cui ultimamente si stacca la corrente a due giganti del rock che stanno suonando insieme. Facendo buio, appunto. Immagino la faccia di quello che ha tirato giù l’interruttore generale a Hyde Park, spengendo l’impianto mentre Bruce Springsteen coronava il sogno della sua vita duettando con Paul McCartney. Suppongo che, guardando negli occhi di quell’essere, o di chi ha deciso, si possa sperimentare l’horror vacui, fronteggiando il Nulla. Va bene, il Boss è un ritardatario cronico, ormai probabilmente per lui sforare la durata dei live è una specie di vezzo, un marchio di fabbrica da esibire come trofeo. Ma, dico, cacciarlo dal palco è un po’ come fare a pezzi un Picasso perché nessuno aveva dato a quel buffo spagnolo il permesso di usare quella preziosa tela. Essere dalla parte della ragione a volte non ti salva da una figuraccia destinata a restare a imperitura memoria dell’idiozia umana.
La storia, per chi non l’avesse sentita o letta finora, merita un riassunto: nel principale parco del centro londinese, qualche giorno prima che la follia olimpica si impadronisse della capitale d’Europa, Bruce Springsteen stava tenendo un concerto. Le regole per l’orario da quelle parti sono ferree: l’unità di misura con cui si valutano gli appartamenti lì intorno è la decina di milione di sterline, declinata in multipli a seconda delle metrature, e pare che questi bilionari amino coricarsi prima della mezzanotte, fregandosene se a suonare è un busker ubriaco o il più grande rock-performer del mondo. Insomma, Springsteen come al solito ha dimenticato l’orologio e ha chiamato sul palco Sir Macca, superando il limite di ben venticinque minuti, che al cambio in moneta italiana equivalgono a sei ore. A quel punto gli organizzatori del concerto, per non perdere per sempre l’autorizzazione ad allestire concerti su quel prato esclusivo, hanno premuto su “off”, pietrificando gli spettatori e facendo imbestialire la band, soprattutto un Little Steven scatenato sui social media.
Niente di nuovo, per carità: le rockstar come da copione non hanno rispetto per l'autorità costituita e quest’ultima (curiosamente incarnata da un organizzatore) non ha riguardo per loro. Certo, di questi tempi tutto si ridimensiona, si provincializza: i rocker non mostrano i genitali, ma semmai fanno un pochino tardi, l’autorità da parte sua non li arresta, ma stacca la corrente. E la vendetta corre su Twitter. E’ un conflitto sociale degli anni Duemila, a scartamento ridotto, oltretutto con tanto di corto circuito generazionale, perché è chi ha staccato l’elettricità è certamente più giovane dei ragazzotti che stavano suonando (centotrentatré anni in due).
Personalmente, restando in tema di concerti, che rappresentano – insieme alle ferie – la benedizione dell’estate, sono reduce da una trionfale due giorni al “Ferrara sotto le stelle”, dove ho ascoltato con enorme godimento prima Bon Iver e poi Soap&Skin, e mi preparo ad attendere per fine agosto il mio amatissimo Serravalle Jazz, dal 26 al 28 nel borgo incantevole che sta a un paio curve di distanza da casa mia. Sono sicuro che lì nessuno spengerà la luce, perché c’è una sufficiente dose di italica elasticità, e al limite anche di toscana capacità di sfanculare i residenti lamentosi, che impedisce di anteporre le rigide tabelle orarie all’arte. Specie se si tratta di venticinque miseri minuti. Non sarei tanto sicuro sulle sei ore, in effetti.