Dopo le animate dispute tra neutralisti, interventisti, irredentisti, si arrivò a onorare il patto di Londra firmato segretamente il 26 aprile 1915. Secondo il patto, l’Italia doveva entrare in guerra entro un mese e così fece il 24 maggio 1915. Come ben ricorda una delle canzoni più note della Prima guerra mondiale.
Da tempo, già dalle guerre risorgimentali, si sapeva che la differenza tra eserciti la facevano non soltanto le armi, ma anche le razioni militari e l’argomento, in questo maggio così significativo per l’Italia che ospita l’esposizione dedicata a “Nutrire il pianeta”, divenne determinante durante la Prima e la Seconda guerra mondiale, così come già era avvenuto in precedenza. Vediamo, ad esempio, che durante il 1859, nella famosa battaglia di San Martino e Solferino che portò a concludere la Seconda guerra d’Indipendenza con l’ottenimento della libertà dall’occupazione austriaca della Lombardia, a Brescia, che ospitava dapprima le truppe e poi il numero spaventoso di feriti, mancava tutto, dalla paglia per le caserme ai mezzi per portare aiuto al vicino campo di battaglia. Venivano sollecitati con proclami affissi per la città, tutti i brumisti, i noleggiatori e i vetturali di ogni ordine a tenere a disposizione ogni cavallo, legno, vettura e calesse per il trasporto delle truppe, sane e ferite, essendo vietato il trasporto di privati salvo necessità. Gli accordi per i rimborsi andavano presi con la Municipalità.
Intanto, veniva approntata un’asta per l’appalto al miglior offerente per la somministrazione all’Armata franco-piemontese di pane, vino, acquavite, paglia appunto, avena, crusca e legna; gli appalti sarebbero stati validi anche per piccole quantità, sia per la spesa spicciola per la truppa, che per coloro che avevano poco a disposizione e che pure lo vendevano per ricavarci qualcosa e per contribuire alla causa italica. Vista la situazione drammatica e contingente, il Re aveva vietata l’esazione di ogni diritto o tassa; a Brescia il dazio venne sospeso perché i viveri scarseggiavano e in questo modo veniva agevolata la vendita da parte dei contadini appunto anche di poche preziose cose. Gli albergatori, i proprietari di trattorie, osterie e caffetterie, così come i venditori di generi commestibili e i conduttori di qualsiasi esercizio, dovevano accettare le “mutte di Piemonte”, dato che le monete variavano da Stato a Stato in cui era divisa l’Italia, in modo da consentire ai militari l’acquisto di cibo. Se ne avessero trovato. La mutta valeva dodici soldi milanesi o 48 centesimi, con sottomultipli. La congregazione municipale dispose che una libbra di pane costasse diciotto centesimi e una libbra di farina di granoturco dieci centesimi, esortando i venditori al rispetto di pesi e costi.
E nella mescolanza di persone che erano arrivate in città vestendo divise piemontesi e francesi, spiccavano etnie diverse che, davanti alle tende da campo allineate perfettamente, bollivano il caffè nella gamella. Ciarlieri, intenti a lavare la biancheria nei giorni tranquilli prima della battaglia, gli eroi di Palestro e di Magenta commuovevano i più, ma animavano alcuni commercianti senza scrupoli che approfittavano della vasta presenza di soldati per lucrare. Un po’ per soldi e per non pagare le tasse, veniva fornito alla truppa del vino prodotto ad arte. La ricetta era precisa e non mancava di ritocchi che oggi avverrebbero con coloranti artificiali. Al tempo non erano tanto da meno. Si doveva prendere l’acqua di fosso, poi le si versava dentro un po’ di allume e del succo di barbabietola, quindi si correggeva con un po’ di alcol amilico o altro prodotto di distillazione inferiore, quindi si metteva nei fiaschi e si vendeva ai soldati. Era un vinello leggero e beverino che, spesso, causava gravissime infezioni intestinali e portava anche alla morte. Così accadde proprio sui territori di San Martino e Solferino, quando il caldo degli ultimi giorni di giugno e la mancanza di acqua potabile, unito al consumo di questo tipo di bevande, portò alla febbre e anche alla morte. L’allume, del resto, era anche l’unico rimedio per molte malattie, utilizzato in proporzione variabile, così come anche le proporzioni degli ingredienti per preparare il vino a tavolino variavano “in ragione del terreno di produzione o dell’etichetta richiesta”.
Leggiamo una valida circolare dell’8 agosto del 1859, diramata dall’Amministrazione degli ospedali militari della città di Brescia, che suddivideva vari tipi di dieta in base al ricoverato. I convalescenti avevano diritto a 22 once di pane, distribuite in due pasti; a due bicchieri di brodo grasso, sia a pranzo che a cena; a un bicchiere e mezzo di vino a pasto. A pranzo ricevevano cinque once di carne e alla sera ne ricevevano cinque once e mezza (circa un etto e mezzo), accompagnata da nove once di legumi tipo fagiolini verdi solo a cena. Chi doveva sottostare a un regime alimentare di dieta III, cioè con mezza porzione di pane, ne riceveva soltanto otto once (mattina e sera), con quattro bicchieri di brodo grasso in due pasti, un bicchiere o anche mezzo di vino a pasto, due once di carne mattina e sera e i legumi sia a pranzo che a cena, per un totale di nove once al giorno (circa due etti e mezzo).
Gli ammalati avevano una dieta più povera di pane (otto once al giorno), con più brodo (sei bicchieri al giorno), uno o due bicchieri di vino al giorno e nove once distribuite in due pasti di legumi. Infine, la dieta I era riservata agli “Ammalati alla zuppa di pane” che mangiavano soltanto, date le loro condizioni fisiche, un bicchiere di minestra grassa o magra sia mattina che sera, uno o due bicchieri di vino, due uova al latte al giorno oppure due once di frutta cotta, soprattutto mele, a pranzo e cena. Agli ammalati che dovevano accontentarsi della dieta di pane era riservato soltanto un bicchiere di brodo grasso o magro. Interessante notare che “Pei Signori Ufficiali si aggiungerà alla tabella sopraindicata ed a norma delle prescrizioni del Medico curante: carne arrosto o pollame, un cibo particolare e un giardinetto. La porzione di vino pei convalescenti sarà di tre bicchieri mattina e sera, e di due bicchieri per gli altri”. Il grado faceva la differenza anche a parità di malattia!
Andava certo meglio comunque rispetto al rancio preunitario dell’esercito sardo che aveva alla base una robusta razione di pane, cui si aggiungeva un monotono susseguirsi di brodi di verdura e carni lessate, in cui si cuoceva cavolo, riso, pastine e legumi, con integrazioni di conforto come gli alcolici, in occasioni speciali, e il vino. Il resto del vino i soldati se lo andavano a bere nelle osterie. La carne da brodo lessata proveniva dalle vaccine più vecchie ed era naturalmente indigeribile. Al tempo gli animali da fattoria erano allevati principalmente per il lavoro, poi per il latte e la riproduzione. Ne consegue che solo in "avanzatissima" età venivano abbattuti o cadevano da soli. La quantità giornaliera di carne, alta anche secondo gli standard odierni, non deve quindi trarre in inganno. Si trattava in genere di tagli di scarsa qualità e valore nutritivo, ovvero frattaglia. Nel Nord solo il maiale faceva eccezione nella cucina popolare, poiché nei mesi invernali le parti meno nobili e grasse della bestia costituivano l’integrazione alimentare più importante. Col grasso, lardo, strutto poi si cucinava tutto l’anno. Essendo la carne di maiale un alimento deperibile, anche se insaccato, difficilmente trovava posto nell'alimentazione militare nella versione arrosti-braciole che conosciamo oggi. Quando ciò avveniva (insaccata) faceva dire gli alpini “a’n dan i salamin, ch’a’n fan stè mal”, cioè “ci danno i salamini che ci fanno stare male”.
Le condizioni di casermaggio in cui preparare il cibo e dormire erano delle più disastrose. Venivano requisiti come alloggi vecchi monasteri già utilizzati durante il periodo napoleonico e si cucinava per compagnia o per camerata. Non esisteva un servizio centralizzato di cucina. Era normale che in ogni branda dormissero due e talvolta anche tre soldati. Soltanto nel 1836 saranno distribuite le brandine singole e l'assapane (il pane era distribuito ogni due giorni, ma era molto più fresco e buono di quello d'oggi). Nel 1828 era apparsa l'antenata della gavetta che sarebbe comparsa, nella versione più nota, soltanto nel 1872. Nel 1851 ogni soldato cominciava ad avere la sua borraccia di legno per l'acqua o il vino e la razione giornaliera divenne costituita dai seguenti prodotti in grammi: carne di bue, riso o pasta, lardo e vino fino a 360 decilitri. Poi c'era il menù di marcia che prevedeva solo 245 grammi di carne e 184 grammi di pane da zuppa. Il pane, detto anche da munizione, si divideva in pane da zuppa, ma anche pane per caffelatte se doveva arrivare a quella quantità giornaliera.
In occasione di marce o campagne militari, la razione giornaliera aumentava con carne di tipo essiccata o di maiale, formaggio, caffè e zucchero per la colazione. Il pane, prima del riordino del 1875, era preparato da civili, in seguito distribuito da panifici militari. Con l'unificazione dell’Italia anche i menù cambiano leggermente. L'integrazione di popolazioni diverse, la maggior possibilità di scambi alimentari cui si aggiungeva lo spostamento di giovani del Sud per il servizio militare al Nord, imposero una modifica delle preparazioni alimentari. Più pasta certamente e, dopo alcuni anni (la ferma ne durava almeno tre), si vedeva anche un certo irrobustimento nei giovani, perfino un aumento in altezza. La razione giornaliera in grammi ora si compone di: 560 grammi di pane, 200 di carne di bue, 150 o 300 di riso o pasta, 20 di lardo, 250 di maiale, 20 di zucchero, 300 decilitri di vino, 15 di caffè. Pane (o galletta secca in sostituzione), pasta e riso 150 grammi nei giorni di grasso e 300 in quelli di magro, zucchero 20 grammi, ma per non più di 200 volte l'anno, e altri generi, come legumi, ortaggi, formaggio, spezie, erano a disposizione del comandante per zona e periodo climatico, purché non superassero la spesa di cinque centesimi al giorno.
Cominciano a fare la loro comparsa a fine secolo cibi conservati in scatola (non molto apprezzati), brodo concentrato, rum, grappa. Il cibo veniva prelevato dalla cucina con la "barella" e consumato nelle camerate o sotto i portici, seduti su una panca o sugli scalini della camerata. Ben diverso il discorso, invece, quando si era fuori, alle manovre. Se poi si trattava di una campagna militare, il mangiare avrebbe dovuto avere una maggiore importanza, ma tutto funzionava se e quando c'era il tempo per cucinare e se arrivava il carro della sussistenza.
In occasione della Guerra di Crimea, ad esempio, per la cottura del rancio si optò per fornelletti, generalmente di mattoni, o pietre una sopra l'altra. Con quel sistema, per far arrivare l’acqua ad ebollizione erano necessari 10 minuti e altri tre quarti d’ora servivano per la cottura del riso, oppure dei legumi, un po’ meno per la pasta. Le calorie sviluppate nei piccoli dispersivi focolai non erano molte, quindi la cottura risultava pessima. Per la distribuzione del rancio a un’intera compagnia ci volevano, poi, altri venti minuti e in totale, tra cottura, distribuzione e consumo, si impiegava un’ora e mezza, in fondo un tempo anche abbastanza accettabile per le condizioni di guerra. Se per il pasto era prevista anche la carne, l’intera operazione richiedeva oltre due ore. Per fortuna le guerre ottocentesche duravano pochi mesi. Garibaldi stesso in Aspromonte dichiarò di essersi trovato in difficoltà perché senza viveri se non quelli contenuti nei tascapane. Per quel motivo dovette fare spesso incetta nei pollai con un naturale risentimento dei contadini che, invece di liberatore, iniziavano a dipingerlo proprio come rubagalline.
Nell’ambito militare, si iniziò a sperimentare anche forni mobili per la cottura del pane, utilizzati in diversi modelli fino alla Seconda guerra mondiale; questi seguivano le truppe in prima linea assicurando una continuità nel vitto. Nel 1870 venne adottata una nuova razione per ritornare, poi, nel 1890 alla soluzione precedente con integrazioni per le truppe di montagna, gli Alpini, da poco costituite. Le compagnie cominciavano a dotarsi di mezzi di cottura e di trasporto più idonei per la conservazione del cibo da usare negli acquartieramenti anche di tipo civile, non ufficiale. Continuava a esistere la figura del cantiniere (civile) e della vivandiera, gestori dello spaccio e della mensa ufficiali. Nel 1920 saranno sostituiti dagli spacci cooperativi gestiti direttamente dai reparti.
Con lo scoppio delle guerre coloniali diventò di notevole importanza l'invio via mare di derrate, anche deperibili, divenuta possibile con le navi frigorifero. In quei territori non si era sicuri di trovare quanto serviva e della qualità necessaria. La povertà dei popoli e le diverse abitudini alimentari, ne facevano in ogni caso un fornitore non continuativo. Quello che nella guerra coloniale era il problema del caldo e delle distanze, diventerà con la Prima guerra mondiale anche un problema di freddo e di qualità del cibo. Per l'arco di tempo in cui si è svolta e per la quantità d'uomini coinvolti, la Prima guerra mondiale metterà a dura prova la logistica dei reparti. Il Carso, come le Alpi non sono luoghi ideali per far arrivare in prima linea il vitto o le materie prime per confezionarlo. Il dispendio di calorie di un militare in azione sono altissime e capire come rifornirlo fu uno dei grandi problemi nelle maggiori battaglie. Gli uomini partivano spesso, dopo un pasto abbondante, dal campo base, portandosi dietro tutto quello che riuscivano a far stare nel tascapane, e una borraccia d'acqua. Salendo in quota nei periodi estivi quello che veniva a mancare per primo era proprio l'acqua. Il Carso di per sé è conosciuto come il regno delle acque sotterranee, ma le sorgenti sono a valle, quindi era difficile trovare acqua potabile disponibile. In trincea il pacco spedito da casa col poco risparmiato dai familiari risollevava il morale solo per poco tempo, data la fame imperante.
Dal gennaio 1917 a fine guerra, venne aumentata la razione giornaliera delle truppe, che venne portata gradualmente a 3.500 calorie, rispetto alle 3.000 precedenti, comprensive di 750 grammi di pane e 250 grammi di carne (cominciavano ad arrivare aiuti dagli americani, ma non gratis), cui si aggiunge un quarto di vino, caffè, zucchero, riso o pasta e generi di conforto come sardine, marmellata, cioccolato, cordiale e polizza di assicurazione gratuita contro gli infortuni di guerra! I soldati italiani entrarono in guerra equipaggiati con la gavetta mod. 1872 modificata 82 e ridotta (in dimensioni) nel 1896.
Il rancio era trasportato dalle retrovie mediante le casse di cottura, che contenevano le marmitte coibentate con 25-30 razioni ognuna, trasportate a dorso di mulo fino alle linee. Erano in grado di mantenere la temperatura interna di 60° C per oltre 24 ore, per cui la cottura avveniva in gran parte durante il trasporto. Il rancio della Prima guerra mondiale era il risultato del cambiamento già operato con la guerra di Libia, quando dalle 2.850 calorie si passò a 4.085. Le razioni erano di tre tipi e variavano da fronte a retrovia, dove si consumava la razione territoriale modificata, che contemplava meno calorie, mentre al fronte venivano distribuite la razione normale di guerra e quella invernale di guerra. Esisteva anche una razione da viaggio che era composta da 400 grammi di galletta e 220 grammi di bue in conserva (scatoletta). Naturalmente la razione, che all'inizio della guerra consisteva in 750 grammi di pane, 375 di carne, 200 di pasta oltre a cioccolato, caffè, formaggio, cambiò a seconda della disponibilità dei viveri che nel corso della guerra variò sensibilmente, ma anche in relazione alla località. In alta montagna venivano distribuiti supplementi di lardo, pancetta, latte condensato, mentre al servizio di trincea erano contemplati alcolici, del resto segno inequivocabile dell'imminente assalto.
Nel dicembre 1916, la razione diminuì per i problemi alimentari di cui soffriva l'Italia, passando a 3.000 calorie, cioè 600 grammi di pane e 250 di carne, spesso sostituita da pesce poiché la carne bovina era in larga parte di importazione. Prima di attaccare bisognava quindi fare il calcolo delle calorie, altrimenti si rischiava di non avere quelle per ritirarsi. Dopo Caporetto, gli italiani chiesero insistentemente più grano agli alleati, ma a quel punto la strettoia era diventata la marina mercantile, falcidiata da affondamenti, che poneva il drammatico dilemma: far arrivare carbone o grano? In ogni caso nel giugno 1918, la razione, che nel novembre 1917 era ancora di 3.067 calorie, venne aumentata a 3.580 per sorreggere lo spirito dei combattenti. Per fare un rapido confronto basterà dire che i francesi avevano una razione di 3.400 calorie e gli inglesi di 4.400.
Se leggiamo Gadda, ad esempio, vediamo come nelle retrovie il cibo fosse abbondante nei primi momenti di guerra, dal ’15 al ’16, con ampie disponibilità di grappa (che poi non era distillato di vinacce, ma una preparazione anche in questo caso realizzata a tavolino, una sorta di “cordiale” come veniva chiamato) che diventava anestetico per la fame e i dolori causati dalla vita in trincea, oppure per mediare i terribili ricordi della condizione bellica della prima linea. Appunto, la somministrazione al fronte della grappa significava che l’attacco era imminente, modo semplice e immediato di dare un po’ di coraggio ai soldati, ma anche le calorie aggiuntive necessarie a sostenere la lotta.
Sarà durante la Seconda guerra mondiale, poi, che cominciò a circolare grazie agli americani la famosa “Razione K”, che stava comodamente nelle tasche dei pantaloni divisa in tre parti, tre pacchetti con leccornie sconosciute nel nostro Paese: chewing gum, caramelle, cioccolata, biscotti, caffè solubile, latte in barrette, formaggio in scatola e sigarette, oltre a carta igienica, o spaghetti con polpette! La confezione era impermeabile e resistente fino a -20 gradi e comprendeva tavolette per purificare l’acqua e apriscatole, set cucito e igiene personale, contenuti in scatole di legno che potevano essere utilizzate come combustibile. La Razione K di guerra venne considerata superata nel 1948 e destinata all’esaurimento, ma durante l’avanzata delle truppe negli ultimi mesi della Seconda guerra mondiale, veniva distribuita alla popolazione. La razione era pensata per una sopravvivenza di 3-4 giorni, ma poteva bastare anche per 6 o 7, anche se in questo caso era facile il rigetto dei cibi consumati.