La città-lista ha l’aspetto di un labirinto aperto
(Umberto Eco, Vertigine della lista)
Ho messo prima un piede, poi l’altro
E sono uscita dal libro
(Chiara Zocchi, Olga)
Ha ragione l’Umberto. La Lista dà vertigine. E il catalogo. Catalogo contenitore, catalogo medium, catalogo struttura e catalogo oggetto, catalogo virtuale, catalogo specchio e catalogo labirinto. Tante le accezioni di museo, di evento, quante quelle di catalogo. Prodotto, strumento di comunicazione, open space mentale, per sua natura polilinguistico, opera d’arte in sé, ancillare/centrale rispetto all’evento, suo alter ego. La distanza fra una giustapposizione di opere e un evento/percorso espositivo, oppure, più sottilmente, fra poetica e poesia, dovrebbe intercorrere analogamente fra un book fotografico di opere artistiche e un loro catalogo. Il fattore significante risiede nella residuale ineffabilità della stessa differenza, esaurite le razionalizzazioni posteriori. Qualcosa che può essere anche facile da intuire ma arduo da teorizzare, sistematizzare, precisare concettualmente, indagare. Cosa fa di un evento qualcosa che va al di là di un insieme di opere, pur restando un insieme di opere e cosa fa di una serialità di immagini e testi un catalogo?
Si apprezza un esoterismo della struttura e del processo, un esoterismo nella formazione di un tessuto connettivo, di un’unità complessa. Germinazione quasi impercettibile, graduale, percepito per percepito, fatto per fatto, fra visibile e non ancora riconoscibile, per salti ontologici, per flash di rispecchiamento. Nel divide et impera della gestione distributiva degli spazi la moltiplicazione vangelica della povertà iniziale, mistero numerico e numerologico. Talvolta le specificità/problematicità degli spazi a disposizione, vincolo e risorsa, inducono a costruire un percorso ideativo/immaginale limitatamente al catalogo, mentre nel percorso espositivo si andrà random, costruendo, fra caso e necessità, un viaggio ideale alternativo, imprevisto, dialogo/lotta fisica fra opere, angoli, termosifoni, finestre, quasi intraducibile, esoterismo situazionistico.
Come la scelta delle opere è circolo fluido fra idea esplorante ed esperito, così accade nel rapporto fra indagine visiva degli spazi, con le loro frammentazioni, la loro storia e le opportunità d’ambiente, e ricostruzione connettiva dell’idea culturale ed estetica, istanza di perpetuazione coerente e sostenibile. Zolla tenta di fissare l’ineffabile logico a proposito della strategia culturale di Aldo Manuzio. Una secolare storia editoriale in cui ogni opera diventa uno stato significativo di un percorso vasto e profondo, connotazioni e toni di medesimo ritmo ondulatorio, sezioni di una riconoscibile spirale. Tutto ciò mi ricorda la serialità dei tarocchi rispetto al loro gioco giocato. Serialità fa rima con sacralità. E viceversa. Due gli ingredienti base per un catalogo riuscito: identità chiara e precisa, declinazione coerente. Poi la magia della moltiplicatio in unitate, del e pluribus unum, del coagula. Lo stesso rapporto fra concetto e sue accezioni, fra parola e la sua pronuncia, fra tattica e strategia, grammatica e sintassi, accenti e accentuazioni, corre fra un catalogo e la materia che struttura e vampirizza, tornando quasi poi dietro le quinte.
Un buon catalogo non ostenta mai se stesso, anche quando è chiamato a celebrare. Deve riuscire a farsi dimenticare mentre lo si sfoglia, regista occulto, ma tirannico. Dopo tutto, l’etimo qui non tradisce, è un ragionamento attraverso. La medianità è il suo cosmo. Architettura logica, prodotto di consumo, camera picta, il catalogo ci induce a riflettere sul rapporto fra esemplarità ripercorribile e accidentalità unica, fra Token e Type, a dirla con Pierce, così ben evangelizzato dal geniale Amedeo Giorgio Conte. Il type è la lettera della tastiera, il token la sua battitura. Visione fisicamente neoplatonica, ma ineludibile. Il catalogo è come il concetto di moneta, valore simbolico che si nutre di scambi e relazioni, restando funzione vuota ed astratta, oggetto fiduciale, permeabile e permeato a e da qualsiasi materia, lui stesso materia delle materie.
Per me il catalogo, come l’evento, nasce dal nome. Se non mi lascio permeare dal Nome, non si genera nulla. Il culto del Nome, ebraico, ma universale, è la sorgente fascinosa del ruolo mistico del catalogo. Un evento, ad-ventus, mito apocalittico e palingenetico, origine graalica del romanzo e dell’avventura, contiene in sé sempre un catalogo quale midollo vivo, e un catalogo è l’ideogramma, il talismano alchemico, la criptografia stenografica di un evento. L’unità organica della visione, in entrambe le dimensioni, è garantita dal rapporto delle opere e dei materiali con il Nome, come i raggi di una ruota con il mozzo della stessa. Israele non aveva bisogno di immagini perché il Nome racchiudeva l'infinito, e quindi generava indirettamente immagini generando relazioni di valore e sistemi oggettuali narrativi quali gli arredi dei Tempio. Eco ha dipinto una cifra metafisica nel dispiegare un elenco di tipologie di elenchi, sistema antisistemico, nominalismo antinominale, postulato e norma fondamentale, istanza primordiale. Dato il Nome, deve seguire l’enumerazione, ergo il catalogo, cioè la mediazione fra partecipazione e distacco, assoluto ed effimero, essenze ed esserci, sguardo di sguardi, prospettiva di scene prospettiche. Il ritratto stesso è un tentativo di catalogare l’esserci, di ricapitolare in unità riconoscibile e persistente il mistero fluido e sfuggente dell’esistenza. Il rapporto volto/persona ritorna archetipicamente nel rapporto catalogo/esposizione.
Il catalogo è fertilmente autoreferenziale. Torna a se stesso tramite se stesso, asettico e distante come la moneta, ma concreto ed efficace come la stessa identica moneta. Valore di scambio fra tempo e metatempo, singolarità e memoria, fatto e azione. Il curatore sente l’esigenza sacrale e sacrificale del catalogo rispetto al quale si riposiziona di fronte a se stesso e ai propri tempi di impegno e ricerca, e lo stesso suo ruolo risiede nella riallocazione di fenomeni, nella decantazione dei processi percettivi e mnestici, nella denudazione e rivestizione degli oggetti mentali posti ed evocati. Come una funzione algebrica il catalogo possiede l’inesorabilità uranica della matematica e la praticità contabile del numero. Ciò vale anche per i cataloghi mediocri o non riusciti. In loro è il catalogo quale funzione a rivelarci l’insuccesso di se stesso quale epifenomeno, non altro! Il catalogo quale test di tenuta dello stesso curatore e dello stesso evento, quale prova sacrificale, ma anche apprezzabile nel senso di un attività performativa e formante. Come in Genesi il curatore crea per separazione e ogni inclusione è rito sacro, cruda discriminazione.
La seconda operazione tragica e drammaturgica si individua nella successione degli artisti e/o delle opere. La scissione moltiplica i rispecchiamenti, come nell’aneddoto sufi della parete lucidata. Il mistero della mediazione, quando non scade in compromesso o assemblaggio, rivela la fertile generatività del Nome e dei type, potendo il dispiegarsi del flusso del catalogo sfatare ogni schematismo evolutivo, o saturnino e degradante o messianico e posticipante. Il catalogo salva le opere dal loro solipsismo, dalla frammentarietà sociale e percettiva, dal senso di fragilità e precarietà pubblica di ogni evento, dal cannibalismo smemorato delle masse, le ricorpora, le innesta in una elastica ma persistente nuova affettività. Il catalogo è antientropico, antidogmatico, ma autarchicamente iconico. Che elencatività è la sua? Per approssimazione o assonanze a idealità implicite? Per rigide esclusioni e isolazioni? Per stadi di manifestazioni o livelli di accrescimento/penetrazione? O per associatività partecipativa o per rieccheggianti richiami osmotici, complementari o dialeticamente antitetici?
La modulazione è un effetto che non sempre collima con l’intenzionalità o la sua riconoscibilità. Il catalogo deve stare alla sua elencatività come la pausa alla nota musicale. L’elencato è pausa, la musica l’incedere. Dalla serialità al ritmo, dalla successione all’esplicazione, dalla dimostrazione di una tesi all’illustrazione di un’idea. Il catalogo alla sua idea come un volume alessandrino, che si srotola a destra e a sinistra, restando fermo nella sua esplicatio, come il libro dell’Apocalisse, pieno di occhi, di sigilli, e di scritte, dentro e fuori. Lo sguardo del catalogo segue una logica associativa e rivelativa, quale modulazione di un medesimo linguaggio ficiniano o spinoziano. Il catalogo riuscito deve far dimenticare il suo ruolo pratico di musealizzazione dell’evento, di sua segnatura nel tempo, oltre il corpo fragile della sua esibizione. Il catalogo diventa così metaevento, essenza tramandabile dell’esposizione, sua aura, ma pure ologramma indipendente. Deve infatti vivere con le proprie forze. La sua efficacia va tenuta sotto controllo: l’enumerazione spazio-temporalmente successiva. Ogni ripetizione genera come un movimento ondulatorio, ma ciò deve avvenire senza sbavature oscillatorie. Il catalogo veicola e garantisce un valore aggiunto ulteriore sia all’insieme dei valori composti che alla dilazione nel tempo del valore dell’evento.
E’ proprio la serialità non solo a generare il senso della collezione ma pure a evocare la forza bizantinamente sacrale della theoria. Ogni processione imperiale, cesaropontificale, veniva preceduta e seguita da atti di venerazione. Gli astanti veneravano la coppia imperiale, e la coppia imperiale venerava le reliquie della Passione di Cristo: la Lancia e il Mandilion. Il movimento solo apparentemente risultava lineare e progressivo: nasceva invece circolare. Kierkegaard fu il primo a capire l’importanza strutturante della ripetizione. Nell’omonima opera elenca le virtù della ripetizione: senso di benessere, compiacimento, speranza, serenità, senso di persistenza. Dal sorgere del sole alla nuova sigaretta fino alla successiva pagina del catalogo. Il token sempre muta ma mutando implica, richiama e presuppone la costante permanenza del type. La quantità suscita mutamenti di qualità. Il catalogo non possiede tipologie, le genera, le accoglie, le coglie. E’ la prima tipologia, da Adamo che nominava, e quindi enumerava, gli esseri dell’Eden, universo immenso ma numerabile, a Noè, che, come mi ricorda Paolo Lesino, fu il primo collezionista della storia. Lo stesso nome di ARCAdiA, ideato da Paolo per l’omonima associazione culturale, qui, e altrove, organizzatrice di eventi e di cataloghi, cela in sé il mistero generativo, cabalistico, della polisemanticità, della successione accrescitiva, della chiamata all’essere.
Il catalogo gioca con i propri materiali e con la stessa idea di sistema. Lusso raro! Esso opera secondo due archetipi perenni: Adamo e Noè. Adamo enumerava, catalogava l’Eden. Non collezionava perché tutto era già dato. Rivelava, riconosceva, manifestava. Il catalogo adamiticamente porta alla luce un nuovo sguardo, battezza, o ribattezza, le opere e gli artisti. Noè invece deve inventariare un insieme fluido e sparso, gettato nel caos di un mondo corrotto, come i materiali del catalogo. Medesimo ruolo infatti esercita quale frutto di una ricerca e garante di un’accoglienza salvifica. Noè rinumera ciò che ha nominato ed enumerato Adamo. Analogamente il ruolo del catalogo si può anche apprezzare quale lista delle liste, quale ricomponimento trasformativo di serialità potenziali, possibili, implicite, riunificatore di scene aperte. Analogamente svolge pure una funzione custodiale, rafforzativa, Arca che separa e rigenera i propri tesori. Tutto ciò ricade anche a livello di valore, cioè di intenzionalità impressa. E allora il catalogo genera la collezione, anzi le dà consistenza d’essere, la salva dalla fragilità della percezione, la tesaurizza, la separa dal resto del cosmo, e separandola la rende universalmente comunicabile e partecipabile, la trasmuta esaltandone l’effimera unicità, la riveste rigenerandola meno vertiginosa, più apparentemente controllabile e, quindi, esperibile.
Il catalogo tuttavia possiede dei carismi d’anima. Ci sono cataloghi celebrativi, tesaurici, citazionisti, testimoniali, istituzionali, ricapitolativi, impositivi, propulsivi, partecipativi, restaurativi, documentali. Cataloghi assaggi e cataloghi pervadenti, cataloghi sistematici e cataloghi scenici, cataloghi autoriali e cataloghi frammentanti, sfuggenti, spot. Il catalogo rassicura, perché ricrea l’illusione di un ordine nella successione, evoca il senso della permanenza nella visione e nel frammento, riconcilia noumeno e fenomeno, ridona l’ottimismo di poter pregustare e intuire l’unità, la gioia del gioco ricombinatorio. Enumerare significa porre in successione nel tempo e nello spazio. La successione interpella sul senso. Richiama l’esigenza di una pietra di paragone, rinvia a un Altro di cui gli enumerati sono, o siano, exempla. A sua volta l’enumerazione di per sé si pone quale ulteriore exemplum, quale nuovo modello iconico. Sembra un gioco di specchi.
L’operazione valutativa sfugge talvolta anche a una razionalizzazione posteriore. Non esistono linee guida per il mistero del giudizio. Il giudizio non tollera di essere giudicato. Si deve porre un limite, si ambisce al Limite, all’esigenza di una “Cassazione” estetica, di un nume del Termine, ineludibile. Il catalogo, come ogni sistema aperto, come il processo giudiziario, come la vita, va valutato tramite se stesso, concentrandosi sulle sue premesse/finalità implicite per apprezzarne la coerenza interna. Eco sul finale di Vertigine della lista definisce il paradosso di ogni enumerazione data dalla dualità fra insiemi normali e insiemi non normali, o meglio fra attività genetica di insiemi e la stessa area insiemistica. Insieme normale è quello che non contiene se stesso, il quale resta così al di fuori dell’insieme che circoscrive. Insieme non normale è quello accennato da Borges, e includente se stesso. Il problema appartiene alla logica e alla filosofia, e quindi all’uomo, ma è stato pure sviscerato dalla teoria e dalla filosofia del diritto. Kelsen inventò la fittizia Grundnorm a fondamento del postulato del vivere civile, della Costituzione. Ancora si parla talvolta di costituzione materiale per indicare la Costituzione ad oggi vissuta e praticata, ed è facile ricordare l’antico motto: chi custodisce i custodi?
Ma resta il limite: la scienza ha i postulati, le religioni i dogmi, le filosofie i princìpi. Ogni sapere, dimensione, tipologia, necessita di un confine fra sé e il resto. Ancor di più ogni sistema, unità infrarelazionale, reca dei limiti, in quanto possiede punti di osservazione, altrimenti non si potrebbe neppure parlare di sistema, ma saremmo di fronte solo a una visione, a un frammento. Il catalogo stupisce e stordisce anche in questo. Concettualmente il catalogo appare e deve apparire un sistema. Più appare sistema più apparirà suggestivo, efficace, carico di una propria identità e intenzionalità. Ma resta un sistema aperto. E’ infatti un sistema di simboli, cioè immagini e testi che rinviano ad altro, rinvia esso stesso a un evento o, in ogni caso, all’opera degli artisti e agli artisti stessi, a una dimensione estetizzante/simbolizzante che evoca ma che non può controllare né soddisfare del tutto. Mai un catalogo può essere fino in fondo esaustivo, e non deve pretendere di porsi tale. L’idea della compiutezza deriva da crude esclusioni, da giusta focalizzazione. Il suo valore trascende sempre, si moltiplica, si sfoca, si sfrangia, vibra, riflette. Ma c’è di più: il catalogo possiede la rara qualità di porsi nel contempo quale insieme e quale facitore di insiemi. Il catalogo si pone sia nel sistema, identificandosi con esso, che fuori del sistema connotandolo e delimitandolo. Regge infatti e connota un nuovo insieme di oggetti narrativi e simbolici, ma pure equivale ad essi, distinguendosene solo per un’operazione concettuale. Dentro e fuori; è una porta, un varco a un tesoro, un varco a se stesso. Ricorda, a livello di logica, l’art. 138 della Costituzione, norma costituzionale che regola le modifiche della stessa Costituzione.
Il catalogo regola, è la Carta Costituzionale di un percorso culturale e artistico. Ricorda gli scacchi dove ogni regola, ci rammenta Amedeo Giorgio Conte, non disciplina il gioco ma è il gioco. Come negli scacchi infatti l’unione di logica, posizione, simbolo e messaggio è totale e spietata. Anche nel mondo del catalogo non vi è distinguibilità fra precettività dello stesso e sua identità. La grafica congiunge metafisica a logica pratica. Una didascalia deve essere in quella posizione, va realizzata in quello stile, non altrimenti, pena inviare messaggi contraddittori o disorientanti, inefficaci. Il colophon quale segnaletica stradale. Tutto ciò ricorda pure il ruolo del processo giudiziario e della sentenza del giudice, ricordando Salvatore Satta: forma formante, circuito senza inizio né fine, funzione vuota ma generativa. Il catalogo è insieme terzo, osmotico con entrambi ma distinguibile da essi, fra l’insieme opere e artisti e l’insieme evento, come pure è terzo occhio fra l’insieme opere del catalogo e l’insieme catalogo quale opera. Una natura ternaria e trinitaria, che ricorda la sostanza relazionale della terza persona della Trinità cattolica: lo Spirito Santo.
Mentre il book fotografico di opere pittoriche manifesta un’intenzionalità direttamente o allusivamente commerciale, a meno che sia una banale pratica di rintracciabilità mnemonica o fisica a suo proprio, il catalogo resta libero e aperto anche a questo livello semantico. Suo scopo, in primo luogo, è promuovere e celebrare se stesso. Il senso di assenza di ulteriori o manifeste finalità è proprio dei luoghi sacrali. Comunità di luoghi e luogo di comunità. Il linguaggio del catalogo è il catalogo stesso. Identità di identità, incrocio di relazionalità, porta di scambio, inquadratura mobile da postazione fissa, il catalogo quale logica in movimento, quale funzione fissa di simbolizzazione riallocativa di spazi mentali e di redistribuzione di assonanze, codice ritmico e spaziale, riconversione di immagini e di parole da oggetti/prodotti a segni, visioni, vie. Come l’occhio sapienziale di Pinocchio: fisso e mobile, mercuriale, guizzante nella sua concentrata fissità! Il catalogo quale scacchiera a partita sempre aperta. Katà Logos, appunto.