Gli storici del futuro avranno di che lambiccarsi il cervello per tentare di capire le contraddizioni e le stranezze del mondo occidentale all'inizio del terzo millennio. Noi uomini e donne del duemila, del resto, siamo troppo presi dai tempi incalzanti della nostra frenetica vita, sia nel lavoro che nel divertimento, per rendercene conto; e, d'altro canto, non ci sarebbe nessun plausibile motivo per frenare il ritmo della nostra quotidianità, smettere per un attimo il flusso della vita, e metterci a riflettere sulle complicazioni della nostra psiche. La televisione, del resto, ci ha abituato alla sua velocità, cui ci siamo adeguati molto serenamente, evitando soste e pause che spezzerebbero il flusso e il ritmo delle trasmissioni con l'angoscia di qualche riflessione. Godiamocela, alla fine, questa tumultuosa irrequietezza! Che ci importa! Saranno i posteri a prendersi la fatica di analizzarci e giudicarci.
Se avete un po' di tempo, andate a rileggere, o a leggere se non l'avete fatto da ragazzini, quell'irresistibile rassegna di avventure e di monellerie che è il Giornalino di Giamburrasca di Vamba, pseudonimo di Giuseppe Bertelli, pubblicato nel 1920, ancora oggi divertentissimo e attualissimo. La vicenda è costruita sul diario di tutti i giorni redatto dal pestifero e simpatico Giannino Stoppani: il divertimento è assicurato. C'è una pagina particolarmente interessante; il bambino, a un certo momento, chiede scusa al suo giornalino per averlo trascurato per qualche giorno; spiega ad esso che non ha avuto un attimo di tregua per mettersi a scrivere per il gran da fare, e non ha pensato nemmeno un momento di tralasciare l'azione per mettersi a scrivere. Il problema del piccolo Giannino – scrivere o vivere - è lo stesso dello scrittore Michail Bulgakov, che nei suoi Appunti sui polsini confessa la difficoltà di scegliere tra il vivere la vita o fermarla per raccontarla sul diario. Perciò, visto che non c'è più la moda di scrivere i diari, visto che non c'è voglia e tempo per riflettere, lasciamo che siano gli esegeti del futuro a riflettere e a spiegare ai nostri nipoti e ai nostri pronipoti il perché delle nostre contraddizioni, che certamente i nostri nipoti e i nostri pronipoti non potranno non scoprire.
Immaginiamo, per esempio, i nostri nipoti a mettere ordine tra le cose che abbiamo loro lasciato, così come abbiamo fatto tra le cose che ci hanno lasciato i nostri nonni. Guarderanno certamente con tenerezza e sussiego i nostri computer per loro antidiluviani, domandandosi come diavolo facevamo noi nonni a utilizzare hardware e software così rudimentali e lenti; lo faranno con lo stesso benevolo sorriso col quale noi abbiamo osservato i calamai e i pennini dei nostri avi. Noi abbiamo trovato vecchi quaderni vergati con l'esile scrittura grattata da un ruvido pennino, cartoline affrancate, piccole fotografie in bianco nero col bordo dentellato, lettere custodite amorevolmente per anni. I nostri nipotini troveranno chiavette USB, patch cord, dischetti: tutte cose per loro un po' patetiche, ormai superate dall’irrequietezza della tecnologia. Noi abbiamo trovato i resti di collezioni di francobolli, lamette da barba usate non buttate via perché avrebbero potuto essere utili per lavoretti di casa, forcine di tartaruga per capelli, ditali di galalite e quel che resta di necessaire per rammendi e piccoli interventi di sartoria domestica: tutte cose utilissime e usatissime.
Loro, i nostri nipoti troveranno, tra le cose delle quali noi ci siamo circondati, le nostre matite, tante: dal corpo coloratissimo e pieno di logo, di scritte, di reclame, di motti. E si chiederanno legittimamente, cosa mai ci facessimo con le matite, considerando che, tra la fine del novecento e l'inizio del duemila, noi scrivevamo assai poco su fogli di carta e disegnavamo ormai solo col computer e addirittura avevamo perso l'uso del corsivo. E si chiederanno, nel vederle assolutamente integre, perché mai le compravamo, le regalavamo e le conservavamo, senza usarle. Saranno certamente sopraffatti dalla curiosità e forse indagheranno. Forse avranno il dilemma della loro datazione; osserveranno il logo e le stampigliature sul loro esile corpo tondeggiante o sfaccettato, e scopriranno che proprio noi, i loro nonni, le avevamo comprate, regalate o ricevute in dono, per tenerle così, come souvenir, spesso chiuse e dimenticate in un cassetto. Scopriranno anche, con un altro pizzico di meraviglia, che tutti, proprio tutti - musei, gallerie, pinacoteche, paninoteche, alberghi, agriturismo, teatri, auditori, ristoranti, istituti di ricerca – producevano matite ricordo, mettendoci tutto ciò che poteva essere miniaturizzato: firme di musicisti, mini riproduzioni di dipinti arrotolati intorno al piccolo fusto, micro ritratti, nomi di città e mini vedute con sfogo del più esuberante kitsch.
Matite mai usate: nemmeno per prendere appunti sui libri, che erano feriti a morte, quelle rare volte che li prendevamo in mano per una ricerca, da oscene spennellate di fosforescenti evidenziatori. E allora, probabilmente, penseranno che la nostra generazione, quella nata subito dopo la metà del Novecento e transitata quasi con un respiro di sollievo al Duemila, è stata una generazione di incomprensibili nostalgici, che hanno continuato a tributare un inspiegabile amore per la matita dopo averla tradita prima col nipponico pennarello, poi col computer. E diranno di noi che siamo stati anche un po' scemi perché abbiamo comprato e regalato cose inutili con la consapevolezza di non utilizzarle mai.
E che dire del segnalibro! Immaginateli i nostri nipoti e pronipoti perplessi a girarsi e rigirarsi tra le mani i segnalibri che hanno scoperto tra le cose che abbiano conservato. Fateci caso. Dalla fine degli anni Ottanta a tutto il primo quindicennio del terzo millennio, non c'è stato evento che non sia stato celebrato dalla stampa di un segnalibro: come souvenir di un luogo o ricordo di un evento, dal più leggero e disimpegnato al più severo, dalla presentazione di una sfilata di moda a un convegno sulla fisica delle particelle, dal congresso su Giacomo Leopardi alla presentazione di un'automobile, dal convegno sul buco dell'ozono alla festa di San Valentino, dal festival del vino al centenario della nascita di un pittore. Rispetto alla matita, il segnalibro ha di solito il pregio d'essere dato in omaggio; e perciò va a ruba. Ne fanno incetta anche quelli che a casa hanno pochissimi libri, e che abitualmente non leggono e non hanno nessun bisogno di segnare la pagina dove si sono fermati e non sanno assolutamente cosa farne. Alcuni poi non le metteranno nemmeno nel libro. A proposito, quel stravagante di Ramon Gomez de la Serna scrisse – val la pena citare questa singolare fantasticheria -: “ Il più grande desiderio del segnalibro è smarrirsi tra le pagine come un pesce nella sua vaschetta”. E forse scopriranno, i nostri discendenti, lo strano comportamento dei nonni che amavano i segnalibri ma non i libri.
Giudicheranno, allora, le nostre stramberie di raccoglitori di matite e di segnalibri, sganciati dalla loro naturale destinazione d'uso: una stravaganza? O forse la praticità di souvenir da portare agli amici dopo un viaggio: basso costo, scarso ingombro e leggerezza che non fa aumentare il peso della valigia da portare come bagaglio a mano in aereo. La parola decisiva sarà, tuttavia, in futuro, degli psicologi, il cui compito sarà ancora quello di lambiccarsi il cervello per capire il perché di quello che noi abbiamo fatto senza capire; si fermeranno a riflettere con calma, senza farsi travolgere dai ritmi che hanno travolto noi, e potranno spiegare ai nostri nipoti il perché di questi nostri strambi comportamenti con le matite e i segnalibri. Speriamo che non ci trattino troppo male.