Raccontami le storie che ami inventare spaventami
raccontami le nuove esaltanti vittorie
Conquistami inventami
dammi un'altra identità
stordiscimi disarmami e infine colpisci
abbracciami ed ubriacami
di ironia e sensualità.
(Carmen Consoli, Parole di Burro)
Spesso quando mi sono trovata a scrivere su opere o artisti che hanno avuto a che fare con il tema dell'identità, mi sono servita, o meglio ancorata, come tasche piene di sassi, alle parole di burro di Carmen Consoli. Il suo esorto all'invenzione, alla creazione, al racconto, allo stordimento e disarmo si allineano bene a mio parere alla volontà dell'arte di essere critica e disturbante. Mai uguale a se stessa e perennemente mutevole.
La mostra curata da Andrea Bruciati alla GalleriaPiú - also known as Oltredimore - riflette sul tema dell'alterità partendo da un saggio del filosofo lituano Emmanuel Lévinas, Altrimenti che essere. Allievo di Husserl, incontrò Derrida e lesse Heidegger. Imprenscindibile infatti il seme filosofico di natura fenomenologica, la proiezione dell'essere appunto Da-sein, Esser-ci Heideggeriano, l'uomo è sempre in relazione alla situazione nella quale si trova. L'essenza dell'esserci secondo Lévinas consiste nella sua esistenza, l'uomo è dinamico e può scegliere, perdendosi o conquistandosi. L'essere è la condizione più privata che ci possa essere, per cui diventa inscindibile la solitudine che ne deriva. Lo stesso filosofo afferma: "Siamo circondati da esseri e da cose con i quali intratteniamo relazioni. Siamo con gli altri con la vista, con il tatto, con la simpatia, con il lavoro in comune. Io tocco un oggetto, vedo l'altro, ma non sono l'altro. Tra esseri ci si può scambiare tutto tranne l'esistere".
Viene confutata la tesi di Freud secondo la quale l'Alterità non è che una proiezione dell'io, essa invece diventa totalmente estranea all'Ego, perché ogni esperienza è unica e irripetibile. Lo specchio di Narciso si è spezzato e l'immagine riflessa non può che essere l'eco di tanti frammenti tutti diversi. Gli artisti in mostra interpretano il sentimento e l'emotività in chiave antiromantica, non c'è fusione, identità totale o possesso, ma mistero vero l'altro. Non vi è inglobo e sopraffazione ma una comprensione paritaria. Come una fetta d'arancia immersa nel latte, l'esposizione si bagna di sapori che pur convivendo tra loro mantengono una loro personale forza.
Un respiro corale come nell'opera video Breathing, Vulnerability di Piotrowska e Skarmea. Il bianco labile del burro, sul quale fare scivolare le convinzioni diventa il fil rouge della mostra, e lo si ritrova nella grafite su carta e fotografia in bianco e nero della coppia di artisti Prinz Gholam. Si è sempre in bilico tra presenza e essenza dell'assenza. Questo vuoto pieno che convive e non si prevalica l'un con l'altro. Bianca anche la scultura da stampa 3D con struttura in acciaio di Didier Faustino, Doppelgänger, letteralmente "un doppio che va", un'interfaccia che mostra l'impossibilità di fusione nell'altro, come una protesi di unione, l'oggetto, come viene mostrato nelle foto esposte, convoglia come un imbuto il bacio - respiro verso l'altro, è punto di raccordo ma nello stesso momento di impedimento e divisione. Risucchio e rilascio.
Bianco è lo sfondo-ambiente scelto sia per i lavori video Smoke di Elodie Pong che per The body is the question IV... La mamma morta di Athi-Patra Ruga. Nel primo una coppia immersa in un'atmosfera apatica ed evanescente riscatta soltanto verso il finale l'uscita da uno spleen esistenziale, un cerchio di fumo creato dal protagonista uomo fa scattare nella donna un impulso sensuale, facendole venir voglia di infilare la lingua nell'anello grigiastro. Metafore viziose di rapporti naufraganti nel nulla del tempo. Athi-Patra Ruga invece inscena la famosa aria La mamma morta, per un memento mori interpretato dal baritono e film maker greco Telemachos Alexiou, modellato su ritratto della struggente Callas. L'ambiguità trapelante mi ha ricordato gli autoritratti fotografici di Urs Lüthi che proprio nel magistrale Body art e altre storie simili. Il corpo come linguaggio curato da Lea Vergine, affermava l'importanza dell'ambivalenza nel suo lavoro: "Il risultato di questa mi indagine è il ritratto. Un ritratto che ha una sua propria esistenza e che vive al di fuori di me, appena si spengono i riflettori. Chiunque lo osservi lo paragona alla sua propria esistenza, fino a modificarsi, e sdoppiarsi... Questo è il mio contributo alla coscienza del sé, dei propri limiti, dei propri eccessi, delle proprie possibilità... e anche delle diverse realtà che vivono nella stessa realtà".
Sempre nello stesso libro Lea Vergine riporta una frase di Husserl: "Fra i corpi di questa natura ridotta a ciò che mi appartiene io trovo il mio proprio corpo che si distingue da tutti gli altri per una particolarità unica: è il solo corpo che non è soltanto un corpo ma il mio; è il solo corpo all'interno dello strato astratto, ritagliato da me nel mondo nel quale, conformemente all'esperienza, io coordino, in modi diversi, campi di sensazioni; è il solo corpo di cui dispongo in modo immediato come dispongo dei suoi organi". E allora c'è il corpo erotico e performativo di Nefali Skarmea in Tabledance, o il corpo effimero e caduco di Namsal Siedlecki con la scultura Volver, in salgemma e ghiaccio. Entrambe le opere echi di un sentire identitario all'Amodovar. Ci sono i corpi di grafite impressi sulla carta di Davide Savorani, di passaggio, di schizzo, che si sovrappongono come trasparenze o quelli animalier, con uno sguardo accecante e accecato à gouaches di Tomaso De Luca.
Poi ci sono le solitudini acquerellate dei numeri primi del Toulouse-Lautrec di Times Square, Patrick Angus che nella sua carriera di pittore ha creato numerosi lavori attigendo dal Gaiety Theater regalandocene una visione acuta, da spett-attore. Paul Mpagi Sepuya decide invece di entrare fisicamente nei suoi lavori fotografici, in punta di mano, come una presenza indiscreta e silenziosa, ancorata alla vita stessa, accarezza e sostiene le immagini di ricordi vissuti, è così che sfiora Alex, Sam e Brian o A.K and Katie, tra gambe, corpi e mani. Il bianco sensuale, che ci ha accompagnato in questa esposizione, si celebra metaforicamente nella schiuma del mare, l'acqua si ricongiunge nell'opera di Siedlecki alla conchiglia dalle curve materne, accoglienti, come l'origine du monde. All'origine dell'identità questo viaggio tra parole di burro.
Non c'è nulla da capire, c'è solo da essere
(Piero Manzoni)