Credo ci siano pochi dubbi sul fatto che le più grandi qualità di Stefano Bollani siano due, entrambe ben note. La prima è la capacità di non prendersi troppo sul serio e di parlare a un pubblico molto più vasto di quello che abitualmente ascolta il jazz, o anche soltanto la musica di qualità. La seconda, che poi in ordine di importanza sarebbe la prima, è quella di essere uno straordinario pianista, un esecutore che riesce a spaziare tra generi, autori e sensibilità diverse dimostrando una rarissima capacità di adattamento, oltre che una bravura tecnica fuori dal comune.
Questo secondo aspetto è ciò che personalmente proteggerei in una teca di vetro blindata, consapevole che gioielli del genere ce ne sono pochi, che vanno custoditi e – certo – valorizzati al meglio. L’altra dimensione della bollanità, invece, è quella che a volte mi suscita qualche dubbio. Bollani non si prende troppo sul serio, ma si prende “abbastanza” sul serio? Mi faccio questa domanda, ogni tanto, e non sono mai sicuro della risposta. Poi però scopro da solo che non ha molto senso. Stefano Bollani è così, l’amore per la battuta, per lo scherzo, qualche volta per la farsa, non si possono scindere dalla maestria e dalla velocità con cui le sue mani si muovono sulla tastiera.
Prendiamo il concerto che ho visto alla fine di gennaio al Teatro Manzoni di Pistoia: alla fine il pubblico, dopo il terzo ritorno sul palco, si consumava le mani per applaudire, e intanto aveva stampato sul volto un sorriso di contentezza esplosiva. Dico: non sono in molti a ottenere questo risultato dopo un’ora e quaranta di pianoforte, al termine di quello che, nonostante gli ampi sconfinamenti, resta un concerto jazz. Per ottenere questo, Bollani si è prodotto in una scaletta (irriproducibile per il numero di citazioni, medley, abbozzi, improvvisazioni) che ha mischiato veramente di tutto, da Gershwin a Dove sta Zazà, da Jeeg Robot a Jobim, da Branduardi ai Beatles.
Il primo bis è il consueto mixage frutto di un sondaggio tra il pubblico, con il pianista che compila un elenco improbabilissimo con alcuni degli autori segnati qui sopra, e poi si diverte a alternarli, legarli, mimetizzarli, mischiarli, così che il finale di Alla fiera dell’est compare un po’ ovunque, tra il divertimento del pubblico. E le gag non sono solo quelle musicali: all’inizio c’è il panchetto alzato e abbassato compulsivamente, parodiando una composizione sperimentale estrema per panchetto e terga di pianista. Poi c’è la mano morta che si rifiuta di suonare, e di conseguenza la dimostrazione che è possibile cavarsela anche con una sola, sempre che ti chiami Bollani.
Uno dei pochi momenti liberi da questa tendenza incontenibile all’ironia è la porzione di concerto in cui si aggiunge come ospite Nico Gori, ottimo clarinettista che collabora spesso con Bollani. Ecco, probabilmente, se si voleva cercare un po’ di magia di quella che non si affida ad altro che alla musica e all’interplay, questa in duo era la parte della serata da non perdere. Non l’unica ovviamente, perché a volte anche il padrone di casa in solitario sospende ogni tentazione scherzosa e diventa tutt’uno con il pianoforte, scordandosi quello che c’è intorno.
Bollani sa essere anche questo, ma non sa essere (e non vuole essere) solo questo: torna presto alla leggerezza, perché non si sopporterebbe scostante, noioso, tirchio nel concedersi alla platea. L’apprezzamento generale per il suo programma tv, Sostiene Bollani, dimostra che ha le qualità e l’ispirazione per parlare a tanti di cose che generalmente frequentano in pochi. E comunque a volte fare il cabaret gli riesce benissimo: per esempio quando, tornando ai tempi della radio fatta in coppia con Davide Riondino, propone le versioni toscanizzate (attribuite a tale Duccio Vernacoli) di pezzi anglofoni, da I will survive (che diventa E ce la fo) a Let it be (che diventa Lascia fare) con un risultato veramente spassoso nella traduzione letterale anche se filtrata dal dialetto.
Al momento di uscire dal teatro, tirando le somme, tutti hanno ottenuto quello che volevano. Certamente è raggiante chi non ama le atmosfere paludate, la seriosità o le bizze dei virtuosi pronti a condannare la minima disattenzione del pubblico, e si è divertito come un pazzo a canticchiare, battere le mani a tempo e perfino dialogare con il protagonista. E in fondo hanno apprezzato anche quelli come me, a cui basterebbe una dose più contenuta di frizzi e lazzi, perché di qualità ce n’è stata tanta, ed è arrivata a tutti. E’ meglio ricordarcelo la prossima volta che malediremo la crisi dei jazz club alla fine di un’esibizione svogliata e noiosa.