“Bancomat o Carta?” ci domanda il portiere dell’albero al check out. Abbandonata e tradita sempre di più la banconota, che dava al tatto con la mano il senso della misura e della consistenza del denaro, l'abbiamo sostituita con questa schedina di plastica che insieme a tutto l’odierno apparato elettronico, è uno dei principali killer della vecchia carta e di tutto quello che le affidavamo. Già, la cara e vecchia carta!
A pensarci bene sembra una follia che l'uomo abbia affidato proprio alla carta, deperibile e indifesa dall'acqua e dal fuoco, il compito di affidare per secoli la trasmissione della memoria dell'uomo. La carta, soprattutto quella dei libri e degli antichi archivi storici, se avesse la possibilità di protestare, come accade nelle fiabe o nei racconti di fantasia, potrebbe vantarsi di avercela fatta ad arrivare fino al secondo decennio del terzo millennio. Ma, proprio per la sua veneranda età, potremmo risponderle francamente, con buona pace degli amanti dei libri tradizionali fatti di pagine odorose di stampa, che non ce la fa più a stare al passo con i tempi: è fragile, è ingombrante, è lenta, è sedentaria, è pesante, è cagionevole; alla fine diventa ingovernabile quando rende obesi e ipertrofici gli archivi domestici, e si rende irrintracciabile, proprio quando serve, nascondendosi nella stratificazione dei cassetti di casa.
Le potremmo rimproverare la lentezza imposta dalla compilazione a mano di moduli e di bollettini; le potremmo rinfacciare la noia che ci ha costretto a subire agli sportelli delle poste, degli uffici comunali e delle banche; la potremmo accusare di aver fatto piegare la schiena a generazioni d'impiegati costretti a movimentare faldoni densi di fogli; le potremmo esternare il nostro disappunto di non essersi fatta trovare quando serviva a dimostrare a Equitalia che quella tassa l'avevamo regolarmente pagata; la potremmo invitare a non darsi tante arie con il lustro della sua storia e a pensare piuttosto di limitarsi a diventare sacchetto ecologico per la spesa, anche per farsi perdonare le centinaia di migliaia di alberi che, per nascere, ha fatto distruggere; e alla fine, anche per smorzare la sua supponente superbia per essere stato antichissimo strumento scrittorio e di trasmissione della cultura, di continuare serenamente a svolgere il suo utile ruolo sociale, di carta igienica, che non è così antica come i manoscritti e i libri, perché è stata inventata in America nel 1857 ed è arrivata in Italia solo ai primi degli anni cinquanta. E non si facesse tante illusioni, ché la gente che compra a peso d’oro penne stilografiche lussuose e scintillanti, le usa più per esibirle nel taschino della giacca o per impugnarle per darsi tono nei talk show, piuttosto che adoperarle per scrivere.
Con minore fantasia, rispetto a questo immaginario dialogo con la carta, ma con più concretezza, dovremmo invitare gli amanti di penna e calamaio a farla finalmente finita con nostalgia. Il mondo cammina più velocemente e meglio con tutta quell'elettronica e quell'informatica che ha messo fuori combattimento la carta e con essa tutto quello che ai suoi tempi utilizzavamo: macchina per scrivere, carta carbone, matita e gomma per cancellare. Vuoi mettere lo spazio e la velocità raggiunta, vuoi mettere la possibilità di recuperare utilizzare in tempo reale dati non più segnati a mano sulle finche di un modello, vuoi mettere la flessibilità e la componibilità, la versatilità e la moltiplicazione in serie, vuoi mettere la facilità di copiare e di correggere, vuoi mettere la possibilità di comprimere, di miniaturizzare, di digitalizzare!
Insomma nemmeno il più tradizionale dei maestri cartari potrebbe negare che il progresso, il futuro, ma già anche il presente, non sono più cartacei. Per non parlare della posta mail, della sua praticità, della sua velocità; senza il fastidio delle buste da incollare, del francobollo da attaccare, senza la seccatura di andare a imbucare la lettera, sempre col patema d'animo di uno sciopero delle poste. Ancora alla metà degli anni settanta usavamo il gigantesco e rumoroso telex, che ci sembrava il massimo della modernità e consumava enormi rotoloni di carta. E quando il computer è pieno, basta un clic sul tasto sinistro del mouse e la pulizia è fatta, la memoria è cancellata.
Alleggerire i vecchi archivi di casa, quando lo spazio disponibile è colmo, è una fatica immane, che si affronta per lo più la domenica. Si tira fuori da qualche anfratto del guardaroba, il vecchio scatolone di latta per far fuori bollette saldate da anni, le buste paga di una volta, vecchie corrispondenze, cartoline con le firme illeggibili di chi le ha spedite, copie carbone di domande di assunzione, oppure – toh ! - una poesia che non si ricordava d’aver scritto. E si avvia la selezione necessaria; si comincia a stracciare e a cancellare quella parte di memoria che è inutile continuare a conservare. La carta, mentre viene lacerata, emette una sorta di sommesso fragore, sprigiona ancora gli odori che ha assorbito dagli oggetti con i quali è venuta a contatto, si abbandona per l'ultima volta al contatto con le nostre mani, dopo essersi esposta al controllo dei nostri occhi che le hanno dato l'ultima visura. Procedimento, questo, assai più lungo di quello compiuto dallo sbrigativo computer.
Perciò questa volta c’è tutta l’intenzione di fare spazio; ne è passato di tempo dall’ultimo repulisti e bisogna procedere senza tanti complimenti. Per esempio, perché continuare a tenere una vecchia busta paga del babbo, che guadagnava alla metà degli anni sessanta poco meno di settantamila lire? Ma no, che non si butta, alla fine che spazio occupa? È un bel ricordo, o no? E il certificato di nascita della nonna con quelle vecchie marche da bollo? Perché mai è stato conservato? Si butta via o si continua a tenere come ricordo di famiglia, anche se non serve più a niente? E due vecchissime lettere di zio Lazzaro, che in casa nessuno ricorda di chi era zio, se del nonno o della nonna? Si stracciano, anche se sono belle, fatte di un foglio solo ripiegato su se stesso e chiuso dal francobollo? Magari si tengono ancora un poco per regalarle alla prima occasione a Valerio che fa collezione di cimeli di storia postale? E dopo diverbi tra marito e moglie sul dismettere o sul conservare, ci si accorge che la selezione cartacea è stata molto esigua. Ah! Ecco che affiora, sempre nello scatolone di latta, il floppy con la tesi di laurea del primogenito. Accordo tra i coniugi, con tutta l’idolatria per l’erede brillantemente laureato, si butta via, tanto nessun computer lo legge più e non è il caso di chiedere ospitalità sul vecchio catenaccio anni ottanta, ostinatamente usato da quello spilorcio del vicino che ha il coraggio di ascoltare Mina e i Nomadi con decrepite cassette stereo otto.
E allora, proprio nel momento in cui ce ne vogliamo liberare, ci accorgiamo che la carta, la amiamo. Sarà pure un fatto generazionale, ma la carta la amiamo anche perché ci ricorda le letture della giovinezza, le cartoline spedite quando si andava in gita e ricevute, la lettera ricevuta dal fidanzato lontano per il servizio militare; ci ricorda la pazienza e il divertimento di attaccare con gli angolini adesivi le fotografe sulle nere e spugnose pagine di un album. E quando ritroviamo una vecchia lettera o la tesi di laurea faticosamente scritta su una rumorosa e gigantesca Olivetti M40 ci viene da sorridere e ci abbandoniamo a un pizzico d’innocente nostalgia. Se troviamo un già vecchio floppy, quasi lo schifiamo, perché, non serve più a niente e, a differenza del vecchio quaderno con la copertina nera e il taglio delle pagine in rosso, non ha più niente da dirci.