Guido lungo un percorso che potrei fare ad occhi chiusi. Che ho fatto ad occhi quasi chiusi in quel periodo spaventosamente breve dell'onnipotenza. Quando tornare tardi è necessario e si dà al corpo solo lo scarto, l’involucro nocivo della sopravvivenza. Parcheggio sfiorando il marciapiede, senza alcuna manovra. Non devo infilarmi in mezzo a nessuno. Scendo, chiudo l’auto. L’umidità crea aureole di acqua sulle teste dei lampioni. Cerco la chiave nella borsa, la infilo nella toppa. Un piccolo suono cupo, lo scatto, gli scalini da salire, un’altra porta da aprire, e sono in casa. La cucina è buia. Busso alla porta della camera da letto. “Sono tornata”, bisbiglio. “Entra.”. Mia madre e mio padre storditi dal sonno, forzano gli occhi sotto il peso della luce gialla della abat-jour. Sorridono. “Hai fame? Ti preparo qualcosa?” – “Mamma, sono le tre. Ho cenato.”. “Come è andato il viaggio?” – “Viaggio… sono solo due ore, nemmeno. Ma bene, comunque. Sono qui.”. “Sì, vai a letto, ora. Domani ci racconterai.” – “Cosa?” – “Tutto, no?”.
Sorrido. Esco dalla stanza chiudendo piano la porta mentre con l’altra mano apro quella di camera mia. I due lettini paralleli. Le due scrivanie con le sedie che si danno le spalle. A destra quella di mia sorella, coi mobiletti pieni di profumi e libri di filosofia. Non vive più qui da dieci anni, ma ci è rimasta. A sinistra la mia. I mobiletti traboccanti del mio caos. Non vivo più qui da cinque anni, ma il caos me lo sono portato dietro. Sprofondo sul letto, nella fantasia barocca del piumone. Non ho voglia di dormire. Allungo una mano e pesco dal cassetto. Un diario, piccole mucche comiche sulla copertina blu. Metà scritto fitto fitto di inchiostri colorati, metà vuoto e bianco, un cantilenare di date senza memoria.
La rubrica, alla fine, con elenchi tondeggianti di numeri di telefono. Scorro chiedendomi a quale volto associavo nomi generici, come se esistesse una sola Valentina nel mondo, un solo Alberto, un solo Angelo.
In quel mondo mio, di allora, era esattamente così.
Scorro con gli occhi stanchi, coi pensieri lenti, come una scia blu di notte che mi è rimasta tra le mani.
Poi un allarme muto di sirena nel cuore impreparato. Il tuo nome maiuscolo, scritto due volte, incolonnato. Il tuo nome con accanto la scritta “casa”. Il prefisso di quel paese dove tu mi hai mai portata. L’altro ha accanto il numero del tuo cellulare. Non risponderà più nessuno, né all’uno né all’altro.
Mi viene in mente una notizia stupida che ho letto su internet, di una che riceve un sms dalla nonna morta. E’ successo perché i numeri “scaduti” possono essere riutilizzati dalle compagnie telefoniche.
Chi risponde, adesso, al tuo numero? Chi ha sostituito, inconsapevole, la tua voce la vigilia di Natale, che mi chiama per dirmi: scendi. Ed io scendo e tu sei lì, e mi dai un pacco e mi sorridi, ed io ti abbraccio anche se non so cosa c’è dentro, che ci può essere anche una bomba, ma chi se ne frega, che amarti per me è moto naturale che mi cresce col corpo, come mi si arricciano i capelli e mi crescono le unghie.
Compongo il numero sul mio smartphone che tu non saprai mai cos’è. Lo guardo qualche secondo. Clicco sulla cornetta verde. Suona. Realizzo che è notte fonda ovunque, in questa nazione, che non si ferma solo a me, che la notte non è un umore. Ma poi il guizzo di un suono, qualcosa che sfrega contro il mio orecchio, ed una voce impastata di sonno: “Pronto?”. Mi blocca il respiro. Un “pronto” senza allarme, senza preoccupazione, come uno che non aspetta brutte notizie, nel bel mezzo della notte. Come uno senza figli, senza nessun amore lontano. Come uno che ha già tutto lì, accanto a sé nel letto.
“Chi sei?”, chiedo. E mi sembra di sentire già la risposta, qualcosa tipo: no, tu chi sei! Tu mi hai chiamato!
Invece silenzio. “Pronto?” dico io stavolta. “Chi stai cercando?”. “Luca.”, rispondo. Ed è la verità.
“Hai sbagliato numero.” Dici. “No, il numero è giusto.” Rispondo. “Quello sbagliato sei tu.”
Silenzio. Sento la pressione che dal ricordo caldo parte fino al freddo delle tempie, del naso, della gola, degli occhi, e si fa liquido che si riversa lento in superficie, che si chiama pianto, o sudore, o saliva, a seconda del luogo in cui il ricordo trova la strada.
Silenzio. E respiro. Dall’altra parte. Respiro, dall’altra parte. Al tuo numero risponde qualcuno che respira. Realizzo che ho raggiunto il livello più basso del macabro, quello che neanche nello splatter funziona.
Ma finché qualcuno dall’altra parte respira, io ascolto.
“Pronto?” dice. “Sì.” Rispondo. “Mi dispiace.”. “Anche a me. Mi scusi.”
Silenzio. Respiro.
Non c’è nessuna domanda da fare. Non c’è un modo facile per chiudere senza chiudere e basta.
So che quello col tuo numero ha capito. Mi vergogno ma allo stesso tempo mi aggrappo.
Come essere nudi e appesi al ciglio di un burrone.
Poi smetto di porre resistenza, mi torna l’intelligenza, la scienza, mi torna la maturità, la lucidità. Tutto riconfluisce in me e mi riempie, mi ridà la dignità, l’arma, la protezione.
“Mi scusi.” Ripeto. E chiudo.
Sul display compare la durata della chiamata.
Mi sfilo gli stivali. Tolgo la giacca. Mi infilo vestita sotto la coperta.
Penso a cosa dirò domani ai miei genitori, perché possano essere fieri della donna forte che sono diventata.