L’estate è finita e dentro sé, la sua acclarata temporalità, nell’accezione più ampia del termine, porta la parola più ricercata in assoluto sul web dell’ultimo decennio: “ebola”.
La definizione, perché di definizione si tratta, in sé non significherebbe nulla, se non vi fosse quella sofferenza manifesta per coloro che di tale virus si ammalino e quell’onda invisibile di emozioni che tali immagini suscitano nel collettivo; emozioni che hanno tutte un’unica causa d’origine, a mezzo un astuto ed irriverente traghettatore chiamato dolore: la paura della morte.
Ognuno di noi trae fonte ispirata delle proprie certezze e delle proprie paure da quello che l’archetipo junghiano ben descrive; allo scrivente il compito di risalire, attraverso l’analisi della parola morte, alle fonti più pure di una lingua naturale donata all’essere umano, per compenetrare intimamente il significato della parola in esame.
D’acchito scriviamo: morte deriva dal latino [mori] morire, ergo [mors] morte e tra cui [mortalis] mortali; il greco di assonanza esprime [mortós] morte e [brotós] mortale; la radice sanscrita è, altresì, ineccepibilmente identica [mr] dal significato didascalico appunto di morire e [mrti/yu] morte; entrambi i termini nati dalle osservazioni visive e sonore dei lamenti verbali, che i famigliari dei defunti esprimevano, accompagnando il feretro allo scopo di raggiungere [r] il luogo della sepoltura, posto, per ragioni igieniche, sul limitare [m] della foresta.
Altrettanto come , entrando nel mistico, [nek] significhi, in lingua sanscrita, l’essere umano compiere un moto [k] nelle acque dell’Oceano cosmico [nã/ne] da cui derivò altresì il termine greco [nekrós] morte ed il verbo latino [neco-are] annegare e l’ulteriore sostantivo [nex, necis] morte nociva.
Vediamo sentendolo il lungo corteo nero , più prossimi al de cuius in testa, disperare proferendo: "[M]io caro [R]itorna, [M]io dolce amico [R]iappari, [Ne] sei più [k]on noi, [Ne] sarai [k]e ridi".
Sono solo poche righe, e già, l’angoscia attanaglia me che scrivo, figuriamoci vuoi che leggete: ciononostante, vi e mi esorto a proseguire oltre, per ricercare quel bianco bagliore che, anche e sopra tutto, il nero più cupo trattiene.
Con la morte, infatti, viene meno una visione, fatta di monete d’oro da porre sugli occhi dei corpi disamini di Ettore ed Achille, fatta di materialità percepita dai sensi umani ora all’oscuro di questa medesima.
È proprio l’oscuro che istiga le nostre paure, l’ignoto tenebroso di una notte nel buio profondo di un bosco senza suoni, senza odori, senza gusti, senza sentori; vicini talmente ad una unità da non sentirsi più umani e di questo provare profondo terrore.
Al Canto RG Veda X,121,9 possiamo leggere:
Non vi era morte allora, né immortalità.
Non vi era giorno
Non vi era notte.
Quell’uno viveva in sé e per sé, senza respiro.
Al di fuori di quell’ Uno, vi era il Nulla.
In Paul Celan ne Mandorla leggiamo:
Nella mandorla – cosa sta nella mandorla?
Il nulla.
Nella mandorla sta il nulla .
Lì sta e sta.
Nel nulla – chi sta? Il re.
Lì sta il re, il re.
Lì sta e sta.
Ricciolo ebreo, non diventare grigio.
E il tuo occhio – per dove sta il tuo occhio?
Il tuo occhio sta davanti al nulla.
Sta verso il re.
Così sta e sta.
Ricciolo d'uomo, non diventare grigio.
Mandorla vuota, blu regale.
Quanto suffraghi la potenza della semiotica, esprime, qui ed ora, fulgido esempio; infatti, risalendo alle origini della parola notte e, con essa, il più metaforico termine tenebra, possiamo così andare a ritroso e condurci: dal latino [nox-noctis], passando per il greco [nyks-nyktós], giungendo al sanscrito [nak-näkta], ivi, dalla scomposizione radicale si evince che sia un moto curvilineo [ak] delle acque [n]; per cui, quanto una lettera ed un accento esprimano un brillio che ci porti a meravigliare, [nãka] significhi: il moto di rotazione [ak] dello / nell’oceano celeste [nä/ne]: siamo ora di fronte al Firmamento.
Elidendo, quindi, la sdoppiatura di radice [na/ne] operata dal greco, rinveniamo [néktar], ovvero il [tar] indoeuropeo nel latino [tr] attraverso, alias nettare, quale bevanda che permetteva di attraversare le tenebre, concedendo agli dei l’immortalità.
Come altrettanto, rimaniamo attoniti, estasiati da un divino mistero, di fronte alle coincidenze rinvenute nella terza tavoletta dell’Enuma elish, opera epica mesopotamica, ante fonte alla Bibbia e la sua Genesi, narrante la guerra dei cieli e la creazione della Terra e dell’essere umano; lì, il pianeta Marduk/Nibiru, nel durante di una tremenda collisione cosmica epocale, si collise, de proprio motu, con il pianeta ribelle del sistema solare Tiamat, in un luogo celeste chiamato [Sharmanu] in accadico e [Shamay’im] in ebraico; lì, nella traduzione di tali termini, siamo nel cielo derivante dal [Ma’yim] cioè le grandi acque sacre del pianeta Tiamat appunto e, sempre lì, il pianeta Nibiru ha il significato letterario di [attraversamento]; lì quindi, il Nibiru attraversò Tiamat, sezionandola in due, ove la parte sopra, amalgamata dalle grandi acque sacre, divenne la Terra, quel pianeta blu che tutti conosciamo, e la parte sotto, disgregata e caotica, la fascia degli asteroidi propria del sistema solare; lì, in Genesi 1,1-2 troviamo: “In principio Dio creò il Cielo e la Terra. La Terra era informe e vuota e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque”.
È il tuffatore di Paestum che si porge ora innanzi a noi; cioè tutta quella tradizione letteraria e pittorica greca che ritenne la morte come un ritorno dell’anima del defunto alle Acque dell’Oceano.
È l’ascesi verso il paradiso cristiano ove il Cristo salì al Cielo e di là verrà a giudicare i vivi e i morti.
È l’antitesi della torre di Babele che con la sua materialità non si conquisti il cielo.
È il blu regale di Paul Celan.
È il Ventimila Leghe sotto i mari di Jules Vernes.
È la trasparenza del cielo cangiante blu e poi nera per cosmo, amica e compagna, della trasparenza dell’acqua cangiante blu e poi nera per abisso.
È la spirale della vita e della morte, indissolubilmente legate, e, la resurrezione e reincarnazione del verbo, indissolubilmente intrecciate.
È
“A PRO PRIA SORGENTE”
Hai tu sorel la
le redini dell’ essere
pro fondamente a gr t ti
no t te e di osse r vi amo e ascol tuo amo
nel sole occh io o luna
a prender ne no intenzione
for ma ragione
che stra ziar a osar ur lo le la a finir li
di terrena eco si re di te e incunea in noi
oi in coscienza a piacer dia do l ore e l’ore
scintil le cale i da no lampo
che umani si amo e
spro fondare o si ri de amo
per nuovi cor pi orizzonti
a tuffar al fon do
nuo va a luce
intra e scorgiamo
la sole asciu pre garsi
pria a ori e gene del scintillar il lampo
la crima anima di sua sorgente
che uo mo vol ta ora
e più non fu
les
Coraggio umano, non sei mai stato e sarai solo.