Appare nei pensieri Gillo Dorfles, dopo essere stati testimoni dell’Alcesti di Euripide nella visione di Massimiliano Civica (semiottagono dell’ex carcere delle Murate di Firenze, dal 30 settembre al 26 ottobre). L’uomo di Trieste, critico, artista, adesso anche vecchio, fatto da segnalare perché avendo compiuto 104 anni nessuno può sfotterlo dicendogli che è ancora giovane, come ormai si usa perfino con i novantenni, è così folgorante da sintetizzare quel che accade anche solo con il titolo di un libro. I titoli di Dorfles che vengono in mente dopo aver visto Alcesti sono L’intervallo perduto (1980) e Horror pleni (2008).

Massimiliano Civica, Rieti, 1974, è un regista che ci ridà l’intervallo perduto e che alleggerisce il nostro fardello straripante di ciarpame, di quel miliardo di informazioni che ci crivellano senza apparente criterio. Come ci si raccapezza vedendo il volto di un morituro nelle mani di un decapitatore accanto ai volti più o meno riusciti delle attrici ritoccate? Come si fa a capire che davvero un uomo sta per ucciderne un altro se accanto c’è il labbruzzo rifatto, le poppe da catena di montaggio chirurgica e l’inesorabile rubrica di cucina?

L’intervallo perduto fra un’azione e l’altra, fra una sensazione e l’altra, fra un incontro d’amore e l’altro. Un intervallo per riflettere, assaporare, scegliere. Vivere. L’intervallo fra questo stupendo Alcesti e il resto. L’intervallo, in questo stupendo Alcesti, fra un dialogo e l’altro, intervallo significativo durante il quale le attrici Daria Deflorian e Monica Piseddu, che danno vita a tutti i personaggi, cambiano le maschere ideate da Andrea Cavarra, spalle al pubblico, attingendo a un mobiletto che contiene collane, cinture, cuffie, bracciali. Pochi, importanti accessori, disegnati dalla costumista Daniela Salernitano.

“Oggi non ci perdiamo niente. La pubblicità ci rassicura: possiamo andare a cena con la nostra fidanzata e seguire il derby Roma-Lazio sul nostro tablet poggiato sul tavolo - dice Civica -. Siamo dappertutto, insieme a tutti. Mentre bevo, al pub, una birra con i miei amici Carlo e Luca, chatto con Diego e Marco che sono in discoteca. Sono in cameretta, sdraiato sul letto, a fare una visita virtuale attraverso le sale del Louvre. Sono a Milano, ma seguo in streaming il convegno che si svolge a Roma. Non mi sento mai solo, ci sono così tanti amici che non aspettano altro, alle sette di mattina di sapere da un mio post su Facebook che sto passando dal bagno alla cucina per bere un succo di mirtillo”.

Chissenefrega, in effetti, del succo di mirtillo o della spremuta d’arancia o del caffè. Sarebbe meglio se gli amici si scrivessero del tramonto, della ribellione alla notizia dell’ennesimo naufragio nel canale di Sicilia, di Venezia imbruttita e minacciata dalle navi da crocierona. “Non ho bisogno di essere presente alla serata inaugurale, alla prima, al debutto: viviamo in un eterno presente soggettivo e personale, in cui per ogni evento è prevista una replica, la possibilità di assistervi in registrata, di riguardarlo su Youtube, di riascoltarlo in podcast - continua Civica -. Il teatro è mortale. Accade in un luogo e non in un altro. Davanti a delle persone, solo quelle che sono lì. Accade stasera e quando è finito, è finito. Devi scegliere di andare a teatro e di perderti tutto il resto. Il teatro non è contemporaneo, perché è il solo luogo dove la morte è ancora presente. Oscenità del teatro, quella di ricordarci che dobbiamo morire, che non abbiamo tutte le possibilità, ma solo la possibilità di scegliere”.

Che meraviglia, invece, perdersi ‘tutto il resto’ se stiamo vivendo proprio quello che abbiamo deciso. Che meraviglia perdersi tutto il resto e passare un’ora e venti con Euripide. Per questo la Compagnia Massimiliano Civica (il regista e tre attrici, Daria Deflorian, Monica Demuru e Monica Piseddu, tutti rigorosi e premiati, affiancati da Silvia Franco) ha deciso di mettere in scena l’Alcesti per venti spettatori a sera, per quasi un mese di repliche, in un luogo non teatrale, pressoché sconosciuto, la sala del semiottagono dell’ex carcere delle Murate di Firenze, valorizzata dalle luci di Gianni Staropoli.

La tragedia greca perché è all’origine di tutto. L’Alcesti perché, secondo la compagnia, “pone una domanda che dobbiamo imparare ad accettare come ineludibile: se dobbiamo morire, se dobbiamo a un certo punto perdere tutto, se non possiamo esserci per sempre, che senso ha vivere? La risposta alle nostre orecchie di contemporanei suona scandalosa: la vita ha senso se scegliamo di vivere per qualcuno, se siamo pronti a sacrificarci per qualcuno”. Come Alcesti che, nella tragedia ‘felice’ di Euripide sceglie di morire al posto del marito Admeto e sarà strappata da Ercole alle grinfie di Tanato che si gloria di averla, “più grande è l’onor mio, se muore un giovane”. “Tutto finisce bene. Ma è solo una favola, non si torna dalla morte. Euripide lo sa bene. Non ci consola, ma ci offre il solo miracolo consentito agli uomini. Il miracolo di trovare un senso nell’amore. Il teatro non è contemporaneo, è eterno. Della stessa specie di eternità che appartiene all’uomo, quella di un incontro e di uno scambio fugaci”.

La faccenda è economicamente rischiosa (produzione Pontedera Teatro e Atto Due, in collaborazione con il Comune di Firenze), venti spettatori a sera non portano un incasso pingue, e la compagnia ha scelto con accuratezza il luogo. “Firenze è una città ricca di storia e di cultura. I suoi edifici, le sue strade e i suoi monumenti testimoniano il continuo lavoro dell’uomo per essere presente a se stesso attraverso lo specchio della bellezza e dell’arte. A Firenze è stato poi ri-inventato il teatro: la Camerata dei Bardi nel Rinascimento ha fatto conoscere a tutto il mondo la tragedia greca e i suoi testi, dando il primo impulso alla creazione di una tragedia moderna”. E non è solo l’antico di Firenze ad affascinare la compagnia, ma il presente e il possibile futuro. “E’ una città ostinatamente ‘altra’ rispetto agli stilemi delle metropoli odierne. La ricerca di una qualità di vita alta e ‘pensante’ e il tentativo di coniugare modernità e competitività con i valori umanistici ne fanno il modello di uno sviluppo sano e possibile. Firenze può essere un prototipo di progetto ‘italiano’ al futuro: un modello che tenga conto e valorizzi la specificità e l’unicità del nostro patrimonio storico e culturale. La scelta di essere a Firenze, e non in una città teatralmente più facile e ‘appetibile’ come Roma o Milano è nata dall’esigenza di imporre un cambio di prospettiva, di dislocarsi fuori dai luoghi teatrali più canonici per rendere paradossalmente più visibile il nostro tentativo. Vogliamo che la gente scelga di venirci a vedere a Firenze, convinti che il semplice fatto di fare questa scelta influenzi la qualità dell’esperienza e dell’ascolto dei nostri spettatori”.

La decisione di andare in scena per venti persone alla volta non è elitaria o classista, il biglietto costa dodici euro.“Crediamo fermamente che il teatro debba essere un’arte popolare. Ma non crediamo che i ‘grandi numeri’ testimonino da sé e in automatico della ‘popolarità’ di un evento. La scelta di un ‘piccolo pubblico’ nasce invece dalla convinzione che a ciò possa corrispondere una ‘grande’ esperienza teatrale”. Al ‘piccolo pubblico’, ed ecco, oltre l’impegno profondo, il garbo e l’ironia della compagnia Massimiliano Civica, prima dell’ inizio dello spettacolo non viene chiesto di spegnere i telefonini ma raccomandato di non scordare di riaccenderli alla fine.

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