La natura umana e l’abituazione
L’omeostasi può essere considerata una tendenza a ridurre al minimo l’attività, mantenendo una condizione di equilibrio. Dal punto di vista fisico e psichico, tale tendenza risulta alla base del benessere dell’individuo. Coerentemente con tale tendenza, l’abituazione a determinate situazioni che si ripetono uguali rappresenta la base per il benessere. L’individuo viene infatti rassicurato dalla ripetitività e dalle costanti, e l’organismo giova di tali situazioni, come si riscontra ad esempio:
• nel passaggio dalla veglia al sonno, dove il bambino trae grande giovamento dalla ripetitività rassicurante delle ninne-nanne e dei rituali che, al di là dei contenuti, si caratterizzano appunto per essere delle costanti
• in ogni situazione di cambiamento, che comporta una piccola “crisi”, un lasso nel quale l’organismo nella sua interezza richiede del tempo per adattarsi alla nuova situazione, non senza complicazioni o difficoltà di vario grado e natura
• nelle caratteristiche comportamentali delle persone che vivono più a lungo, che generalmente sono quelle che affrontano le giornate in modo ripetitivo, e con lentezza.
Il principio stesso dell’adattamento, che sta alla base dell’evoluzione delle specie, si basa sulla propensione a rendersi omogenei, adeguati all’ambiente in cui ci si viene a trovare, creando un’armonia, basata sulla similitudine, tra l’organismo e l’ambiente nel quale esso è inserito. L’organismo ricerca le costanti, per sopravvivere e per mantenere la specie, e quando non ritrova costanti cerca di modificare se stesso (attraverso l’adattamento dell’individuo stesso e - nel tempo - della specie) o l’ambiente (il concetto di “assimilazione cognitiva” introdotto da Piaget). Tali principi emergono ancora in tutta la loro semplicità nella società attuale che tuttavia, per le sue caratteristiche specifiche, sembra voler sovvertire quest’ordine naturale delle cose.
Lo stile di vita attuale ed i suoi effetti psicologici
Le caratteristiche ambientali e sociali attuali non sono coerenti né sintoniche con i principi generali descritti che, centrati sull’omeostasi, sull’adattamento e sul mantenimento rassicurante di costanti, garantiscono un benessere psico-fisico dell’individuo e della società. Qui di seguito, suddivise per aree tematiche, alcune caratteristiche della società attuale, che si scontrano pesantemente con il concetto generale di equilibrio:
• lo spazio: l’ambiente, inteso in senso ampio come struttura spaziale che circonda il soggetto, si caratterizza oggi per:
- iperstimolazione > l’individuo, a partire dalla vita fetale e per l’intera esistenza, è bersaglio di stimoli, soprattutto acustici e visivi, sia statici, sia in movimento (TV, Internet, video in metropolitana, inquinamento acustico, etc.)
- iperstrutturazione > l’azione normale e spontanea dell’individuo viene oggi “pre-codificata”, a partire da un’età molto giovane (feste strutturate con animatori e genitori in cerchio che guardano, attività sportive sempre organizzate in corsi, perdita del “gioco libero” nell’infanzia e del “tempo libero” - nel senso di ozio che si può riempire oppure no con azioni frutto dell’idea del momento - nell’adulto)
• il tempo: è un fattore fondamentalmente ansiogeno al quale si dà una grandissima importanza (oggi il tempo è particolarmente “prezioso”) in quanto mezzo per “fare” delle cose, e si connota per:
- accelerazione > velocizzazione dei ritmi (di lavoro, di studio, di divertimento, di fruizione di beni e servizi, etc.)
- anticipazione > si tendono ad anticipare le fasi di sviluppo, e le aspettative di prestazione che gli adulti hanno sui bambini sono improntate sull’idea di una precocità generalizzata (quasi che la precocità di comparsa di una determinata abilità fosse indice di una particolare forma di intelligenza, mentre è comprovato che ogni bambino segue i suoi ritmi/tempi di sviluppo e che la precocità è indice della prevalenza di un canale piuttosto che un altro)
- riduzione (conseguente) del tempo di sonno > poiché il tempo deve essere impiegato in continue attività, il tempo del sonno viene ritenuto “perso”, tanto che oggi il tempo medio che le persone dedicano al sonno è decisamente al di sotto di quanto ritenuto necessario. A tale proposito, è importante sottolineare come anche il tempo dedicato al sogno diminuisca (il numero delle fasi REM per notte ed il tempo complessivo del sonno REM sono al di sotto di quanto sarebbe necessario al benessere psichico dell’individuo). La conseguenza della diminuzione del tempo dedicato al sonno-sogno è, dal punto di vista fisico, un senso di stanchezza, di spossatezza, un abbassamento delle capacità cognitive, mentre dal punto di vista psicologico una diminuzione del piacere, in quanto il sogno risponde al principio di piacere ed al piacere si rivolge.
• gli obiettivi. Gli obiettivi da perseguire nella società occidentale, del benessere e dei consumi sono sostanzialmente votati alla produttività:
- la crescita continua dei consumi e della produzione
- la prestazione (in campo scolastico, lavorativo, sessuale, sportivo)
- le aspettative (di voti/punteggi, di superamento di limiti personali, di superamento degli altri, in un’ottica competitiva pervasiva)
- la logica dei “debiti/crediti” in un’ottica di apprendimento obbligato e costantemente equiparato a logiche economiche
- l’attenzione unica al risultato, a discapito del processo > il trascorrere del tempo viene infatti negato, azzerato
• l’etica: oggi il comportamento è svuotato di significato, l’intenzionalità non ha valore, l’etica appare sostanzialmente priva di contenuti
- la scorrettezza è presentata come stile di vita > la “furbizia” conta più di qualsiasi altra cosa
- il rispetto degli altri, dell’ambiente, delle cose, sono valori proclamati ma di fatto poco perseguiti nella realtà
- il lavoro è finalizzato al conseguimento di denaro e di successo, non alla realizzazione o alla crescita personali
- gli sport di gruppo, al di là del dichiarato, sono orientati anch’essi al risultato, e non alla coesione, allo scambio, alla socializzazione, alla collaborazione.
Le ripercussioni di tutti questi aspetti sulla persona e sulla società sono notevoli. Concentrando l’attenzione esclusivamente sugli effetti psicologici, si evidenzia che uno stile di vita così connotato comporta le seguenti conseguenze:
• disturbi del sonno
• iperattività
• ansia, in particolare ansia da prestazione
• disorientamento per mancanza di punti di riferimento e di valori
• depressione
• nervosismo, irrequietezza, insofferenza
• disturbi dell’attenzione
• disturbi sessuali.
La ricerca di senso
Il nostro pensiero è strutturato in modo da ricercare un senso nelle cose che osserva e che vive. Quando assistiamo ad un qualsiasi evento, siamo infatti portati a reagire cognitivamente rispetto a quell’evento secondo una modalità che indaga e ricerca e secondo una finalità euristica precisa: l’obiettivo è quello di trovare una spiegazione al fenomeno osservato. Per raggiungere tale scopo, la mente segue vari processi, tra cui:
• l’equiparazione al già noto > si tende ad interpretare un fenomeno sulla base delle conoscenze pregresse, in maniera da “equiparare” o comunque riportare quel fenomeno ad altri potenzialmente simili
• l’aderenza ai fatti e l’utilizzo dei processi di pensiero razionali > nella comprensione di un fenomeno, i processi logici tendono a prevalere, o comunque ad essere considerati le modalità euristiche elettive
• l’inferenza > qualora i dati a disposizione siano scarsi o comunque parziali, la mente tende ad utilizzare comunque i dati di cui dispone in quel momento al fine di costruire e poi verificare/validare ipotesi.
Tutti questi processi esprimono molto bene la profonda necessità che spinge a ricercare un senso nelle cose. Le nostre modalità cognitive puntano in maniera inequivocabile a trovare un senso in quello che succede, anche quando la realtà esterna è totalmente nuova, diversa dal nostro mondo conosciuto, dalle nostre abitudini, e persino quando i dati sono scarsi. E’ soprattutto l’inferenza che parte da dati scarsi, frammentari a disposizione il processo che porta maggiormente a riflettere: sembra infatti che la nostra mente abbia difficoltà a sospendere la ricerca di un senso, ad “arrendersi” all’evidenza, o ad aspettare di avere dati più precisi a disposizione. La sospensione del pensiero - non del giudizio, a cui gli psicoanalisti arrivano a fatica e dopo anni di training - ma del vero e proprio pensiero, sembra essere cosa quanto mai ardua per l’essere umano - probabilmente in particolare nella società occidentale. Si potrebbe dedurre che il fatto di non trovare un senso turbi l’equilibrio della mente, costituisca un vero e proprio elemento perturbante, sconvolgente, se siamo disposti a perseguire comunque le nostre modalità logiche, anche parziali, e perfino qualora i dati a disposizione siano scarsi.
Interessante a questo proposito sembra essere la teoria - oggi decisamente “datata” - della dissonanza cognitiva proposta da Leon Festinger. Essa stabilisce che, qualora ci troviamo in una situazione di contrasto tra due elementi, solitamente uno interno ed uno esterno, cerchiamo di adattarne uno dei due in maniera tale da annullare la dissonanza, che evidentemente non siamo in grado di tollerare. Allo stesso modo, potremmo dire che anche qualora gli elementi contrastanti siano totalmente esterni a noi, la nostra mente è portata a trovare/costruire un senso, rendendo i vari elementi “spiegabili” ed armonici attraverso un significato, un senso che noi tendiamo spontaneamente ad attribuire alla situazione osservata. Evidentemente esiste un malessere che la nostra mente vive quando percepisce una dissonanza, tanto da far di tutto per annullarla, armonizzando l’insieme.
L’estraneità che irrompe: l’evento traumatico come elemento impensabile. La negazione della morte intesa come negazione della trasformazione energetica.
A fronte di una condizione che mira all’omeostasi, all’adattamento, alla ripetitività, tutto ciò che crea variazione di stato determina un cambiamento che porta con sé aspetti positivi in quanto spinge l’organismo a variare alcuni elementi, tenendo attivi i processi adattivi. Tuttavia, quando la variazione di stato è improvvisa, forte e generalizzata, si crea una situazione negativa, in quanto legata ad uno stato traumatico. Il trauma è un evento che invade il soggetto, qualcosa che capovolge lo stato mentale precedente, senza alcuna gradualità, senza che vi sia una preparazione. Il soggetto non ha pensiero, e successivamente ricorda soltanto qualcosa, e senza coinvolgimento. L’evento traumatico, difficile o impossibile da gestire sul momento, non viene accettato dalla mente, che non è in grado, perlomeno nell’immediato, di attribuire un senso a ciò che succede. Ed essendo l’attribuzione di senso una conditio sine qua non del pensiero, le strategie adottate in questo caso sono sostanzialmente due, entrambe finalizzate a far sì che l’evento - magicamente - non sia accaduto: negazione e rimozione.
La negazione e la rimozione sono due meccanismi che mirano entrambi a risolvere la contraddizione, annullandone le “parvenze” contrastanti, ossia eliminando ciò che crea disagio. Che il processo avvenga in maniera conscia o inconsapevole, il risultato non cambia: la condizione finale è, almeno apparentemente, senza contraddizioni. Si verifica in tal modo, e attraverso tali strumenti, quello che si potrebbe considerare un annullamento del pensiero, un vuoto di significazione.
Nella società attuale, il “non pensabile” è rappresentato dalla morte, intesa come processo trasformativo. Oggi quello che viene rifiutato è il concetto di morte/nascita: di fatto non viene rifiutata la morte in senso tradizionale, bensì il concetto di trasformazione energetica. L’idea che un essere passi da una condizione di esistenza ad una condizione di trasformazione in altre forme di energia (anima, ambiente, altri esseri viventi) non viene accettata, in quanto contraria alla comune percezione dei fatti e soprattutto contraria ad una logica di pensiero occidentale, basata sulla razionalità e sull’osservabilità dei fatti.
Il principio di Lavoisier, secondo cui “nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”, basato su studi sulla combustione, non sembra avere avuto ripercussioni filosofiche rilevanti sul pensiero occidentale, tanto che le poche teorie psicologiche basate sulle forme di energia sono state in breve tempo accantonate, o sono a tutt’oggi oggetto di prese di distanza. La micropsicoanalisi, che individua nello psichismo un “destino” energetico pari a quello del resto del mondo vivente, animale o vegetale, e che tratta in maniera energetica il complesso fenomeno della trasmissione della vita psichica tra generazioni e tra inconscio e inconscio, spesso viene considerata con superiorità critica e razionalistica alla pari di un’elucubrazione filosofica. Il pensiero olistico, che considera l’essere umano nella sua interezza, e nella sua stretta e imprescindibile relazione con l’ambiente nel quale è inserito, con il corpo, con le influenze elettromagnetiche, rappresenta nel mondo occidentale un pensiero “non convenzionale”, di fatto poco/non riconosciuto, e decisamente poco accettato dai più.
La malattia autoimmune potrebbe in quest’ottica essere considerata come la reazione corporea - immunitaria - alla negazione del concetto di trasformazione energetica. Il sistema immunitario attacca ciò che dovrebbe difendere, le cellule “impazziscono” e si moltiplicano in maniera impropria ed aberrante nel cancro, come forma di reazione all’idea, che permea tutta la nostra società, per cui le cose devono rimanere sempre nello stesso stato, senza trasformazioni: l’essere umano deve rimanere sempre in vita, sempre uguale a se stesso, non deve invecchiare, la sua immagine e le sue cellule non possono subìre trasformazioni > ed il corpo “non ci sta”, si “ribella” a questa mancanza di senso, a questa incapacità di accettare il naturale trasformarsi delle cose, il normale decadimento fisico, fino alla putrefazione ed alla trasformazione in nuove forme di energia strutturata, in nuove organizzazioni strutturate di vita.
L’estraneità che irrompe: l’evento traumatico come causa ed esito di negazione e rimozione. La negazione della morte intesa come negazione della fine dell’individuo.
Come l’evento traumatico è causa di negazione e rimozione, così pure può esserne l’esito. La negazione e la rimozione sono delle modalità di difesa, e quindi di tutela dell’integrità psichica, che vengono messe in atto quando compare un evento traumatico, o una serie di micro-eventi traumatici. In questi casi l’estraneità irrompe sulla familiarità, il trauma si insedia come corpo estraneo e la psiche opera una rimozione della connessione tra eventi. L’evento traumatico può essere di diversa natura, ad esempio:
1. sessuale
2. aggressivo
3. di morte
4. di perdita dell’identità/spersonalizzazione.
In una fase avanzata dell’analisi, viene portato alla luce un trauma infantile legato ad un tentativo di suicidio della madre, unitamente ad un trauma originario legato alla nascita (un rischio di soffocamento). In entrambi i casi il trauma non è di natura sessuale bensì di natura mortifera, è legato cioè in maniera diretta alla morte. In rapporto all’evento parto-nascita, il trauma è sempre legato alla morte, ed all’angoscia che da essa deriva. La paranoia primaria permette il distacco attraverso un canale aggressivo, che modula e sposta l’angoscia di morte su di una terza figura, che stabilisce una connessione capace di permettere l’esistenza, la vita. Il senso di profonda gratitudine che la donna che ha partorito prova e spesso manifesta verso la figura - in genere maschile - che ha permesso tale distacco è la rappresentazione evidente dell’importanza centrale di un terzo su cui spostare parte dell’angoscia e dell’aggressività. La pulsione di morte si interseca qui con quella di vita, l’una permette l’altra.
Nel caso riportato, come nei traumi legati al parto ed alla nascita, la negazione o la rimozione delle rappresentazioni e delle connessioni avvengono in quanto il portato di angoscia di morte è risultato eccessivo, ingestibile in altri modi. Tuttavia, andando ad osservare la natura degli eventi traumatici più presenti oggi, si potrebbe formulare l’ipotesi che negazione e rimozione siano anche all’origine dell’evento traumatico, ne siano cioè anche la causa. L’evento traumatico è infatti figlio della società in cui si vive: se per la Vienna di fine ottocento l’estraneità era rappresentata prevalentemente dalla sessualità, oggi nel mondo occidentale l’estraneità è rappresentata prevalentemente dalla morte.
La nostra società non accetta il decadimento del corpo, la morte fisica, la malattia, tanto che i tentativi per evitare – negare appunto – la morte sono oggi infiniti, spesso aberranti, paradossali. La battaglia della medicina oggi è quella dell’attacco del corpo a se stesso, dell’attacco autoimmune, fenomeno che sembra essere la manifestazione aberrante di una negazione della morte e dell’aggressività: se la morte non ha diritto di esistere, allora essa si manifesta in maniera illogica: le cellule impazziscono, ed il sistema immunitario cede o attacca aggressivamente chi dovrebbe difendere.
Capita oggi spesso di trovarsi in situazioni assurde, divenute “normali” secondo la norma statistica, nelle quali la negazione della morte è lampante. Per citare soltanto alcuni tra gli innumerevoli esempi possibili: vengono chiamati “ragazzi” gli adulti, in un’età di piena maturità; i bambini vengono “protetti”, in pratica esclusi, dal tema della morte; vengono spese enormi quantità di denaro per non invecchiare mentre un’impressionante quantità di gente muore nel mondo povero. L’assurdità e l’illogicità di questi fenomeni non è inferiore alla difesa dalla sessualità nella Vienna di Freud, quando le gambe dei tavoli venivano coperte/vestite per pudore. Ogni eccesso è potenzialmente traumatico, in quanto genera una familiarità fittizia, parziale, artificiale, davanti a cui l’estraneità – ciò che è stato negato – arriva ed irrompe in maniera brusca, traumatica appunto. Sembra che ogni volta che una società rimuove una parte della natura delle cose, questa ritorni - come fa il ritorno del rimosso nella psiche individuale - irrompendo in maniera brusca sulla natura parziale creata in maniera fittizia.
- Quando una società è puritana, la sessualità irrompe attraverso il trauma sessuale, che sta alla base della patologia isterica.
- Quando una società si proclama come unicamente buona e giusta, l’aggressività irrompe, spesso proiettata sull’estraneo/nemico.
- Quando una società vuole essere eterna, la morte irrompe attraverso il cancro.
Francis Bacon diceva che “non si comanda alla natura se non ubbidendole”. La natura stessa dell’uomo e delle cose è fatta in realtà di nature diverse, contraddittorie, legate al piacere ed al dispiacere. La rimozione come difesa dalle cose spiacevoli dura finché non diventa massiccia, estremizzata, finché non porta ad un eccessivo distacco dalla realtà. E’ l’estraneità che irrompe come evento traumatico, laddove l’estraneità consiste nel non avere visto/voluto vedere l’esistenza di elementi spiacevoli.
Il senso e la parola
All’interno di un continuum caratterizzato da omeostasi, ripetitività rassicurante, adattamento, si delinea quindi un processo centrale per l’equilibrio mentale: la ricerca di senso. Tale processo avviene non soltanto attraverso l’utilizzo dell’intelligenza, delle capacità logiche, dei processi di inferenza, ma anche, ad un livello più evoluto, e superiore, attraverso l’utilizzo della parola.
La parola permette al processo di ricerca di senso di estrinsecarsi, di rendersi in qualche modo “visibile” e soprattutto “condivisibile”. La visibilità della parola è ciò che oggettiva l’esperienza. Quando un individuo pensa al senso di un evento che gli è accaduto, tale pensiero rimane dentro di lui, all’interno del suo mondo, mentre quando tale pensiero viene espresso in parole diventa un dato visibile, concreto, e ciò permette di aprire la mente all’esterno. La condivisibilità della parola è un passaggio ulteriore, che apre ancora di più il pensiero all’esterno, rendendolo fruibile anche agli altri. Si tratta di un passaggio che, se da un lato rende ancora più concreto ed esplicito il pensiero, dall’altro rende il soggetto vulnerabile. E’ per questo motivo che la discrezione e la riservatezza che caratterizzano il segreto professionale costituiscono un bene preziosissimo in una psicoterapia.
Il recupero del trauma avviene attraverso la parola, espressione di quello che è ricostruito, grazie a qualcosa di simile. Il processo di pensiero, in questo caso “inceppato” in un vuoto di senso, deve necessariamente “agganciarsi” a qualcosa di simile per trovare una sua pensabilità. Ma la cosa fondamentale affinché il trauma venga recuperato e poi superato è la parola. Si utilizza quello che dice il paziente, lo si collega a qualche elemento del presente. La rielaborazione è un’opera artistica, è qualcosa di creativo. Significa recuperare quello che abbiamo davanti agli occhi, i ruderi e le contraddizioni che emergono. Tradurre in parola, individuare i ruderi.
Compassione, amore ed autostima alla base del vivere sociale
La ricerca di senso, in psicoterapia, avviene attraverso l’ascolto e la parola, ed è resa possibile dalla consapevolezza dell’esistenza della riservatezza insita nel segreto professionale. Poco si è discusso sul ruolo “umano” del rapporto tra paziente e terapeuta. La relazione che si stabilisce è in effetti molto particolare, fortemente connotata di una serie di specificità che la rendono in qualche modo unica, e comunque nettamente differenziata dalle relazioni sociali usuali. Forse per questo motivo ci si è concentrati più sulle differenze che sulle somiglianze. In realtà tale relazione possiede alcune affinità di base con le relazioni sociali positive in generale, e queste affinità potrebbero essere:
• la compassione, nel senso letterale del termine (cum - pathos): la situazione per cui ci si sente in sintonia con l’altro, si percepisce un’affinità emozionale, come se quello che sta provando o esprimendo l’altro fosse “riconosciuto”, come se potesse essere - nella realtà, in fantasia, nel passato come nel futuro - anche proprio
• l’amore: non si tratta soltanto di un termine che indica un generico affetto, ma di un vero e proprio sentimento di affetto incondizionato verso l’altro. Il paziente può presentare tratti che ci risultano fastidiosi, o tratti e comportamenti irritanti, svalutanti, aggressivi, ma il terapeuta si mette comunque in una posizione di ascolto e di aiuto, non tanto (o non soltanto) per filantropia o per senso del dovere, ma per amore. Il terapeuta accoglie comunque, come una vagina o un utero pronti a ricevere. Talvolta questa qualità della relazione viene scambiata per pazienza (una pazienza infinita), ma in realtà è amore, è un voler bene a chi si ha di fronte, è un saper aspettare, con l’idea di vedere che cosa succede e che cosa è successo prima. Dopo aver sentito tante storie durante i colloqui iniziali o le sedute in fase di psicoterapia avanzata, ho sempre guardato la persona che avevo davanti con una luce nuova, non con l’occhio esperto che indaga e capisce, ma sempre di più con l’occhio ingenuo e spalancato di chi osserva incantato la “varia umanità”. A mio parere questo è un sentimento di amore verso gli esseri viventi, e lo possiamo chiamare pazienza se ancora una volta ci agganciamo al “sentire emotivamente”, al “pathos” appunto.
• la stima, partendo dalla stima dell’altro per arrivare alla stima di se stessi, e viceversa. Dall’ascolto della persona che si presenta a noi nella sua unicità, nella sua tragicità talvolta, nei suoi aspetti di varia e mutevole sofferenza, noi tendiamo a riconoscere nell’altro una profonda dignità di essere vivente, con le sue difese ed i suoi “trucchi” ideati e messi in atto per sopravvivere agli aspetti dolorosi dell’esistenza. Ascoltando una storia di vita, il terapeuta non giudica perché stima la persona che ha di fronte, riconosce la funzionalità o la disfunzionalità delle sue difese, comprende le ragioni di un agire. Attraverso questa stima, il terapeuta arriva quindi a riconoscere le leve su cui agire, le qualità della persona, e in tal modo opera nel senso di rinforzare l’autostima del paziente, gli permette di vedersi sotto una nuova luce, e magari di apprezzare certi lati del carattere e della personalità.
Compassione, amore ed autostima sono di fatto alla base del vivere sociale. La professione di psicoterapeuti, come del resto molte professioni di aiuto, amplifica tali sentimenti all’interno di un contenitore speciale. Il tessuto sociale in generale si fonda sull’esistenza di tali sentimenti: soltanto nel riconoscimento dell’altro come “simile a sé”, nel “sentire comune”, nell’osservare l’altro con amore, comprensione e rispetto può aver luogo una coesistenza civile e pacifica.
Ruolo e funzione dell’aggressività
Mentre il vivere sociale si fonda su sentimenti di coesione, quali appunto la compassione, l’amore e la stima, l’affermazione di sé si fonda su spinte aggressive: l’individuo, per venire al mondo e per affermare la sua soggettività, ha bisogno di una spinta di natura aggressiva. L’aggressività è strettamente legata alla dipendenza dall’altro: il figlio dalla madre, la vita dal nutrimento. Accettare di dipendere significa accettare che dentro di sé esistano parti e spinte aggressive, che possono attaccare l’altro ma anche se stessi. L’accettazione della dipendenza porta a “digerire” l’aggressività, che può seguire vie e percorsi diversi dalla negazione. Ma l’aggressività è anche legata alla separazione, alla nascita fisica e psichica: la paranoia primaria si caratterizza per una figura che porta in sé la possibilità - aggressiva - di un distacco.
L’aggressività è quindi una strada che permette all’individuo la sopravvivenza, e che garantisce il perdurare della specie. La pulsione di morte è mortifera perché attacca senza limiti, tanto da compromettere la sopravvivenza dell’individuo e della specie: la guerra, la distruzione da un lato, e dall’altro il cancro, l’attacco alle proprie difese ed al proprio organismo. La pulsione di morte s’interseca con l’aggressività, ma non coincide con essa: l’aggressività è, infatti, una spinta che permea di sé non soltanto la pulsione di morte, ma anche la pulsione di vita. Senza la strada naturalmente aggressiva della paranoia primaria non esisterebbero né il concepimento, né la nascita fisica, né l’individuazione di sé tramite la separazione dall’altro.
L’aggressività mantiene e garantisce la sua precipua funzione vitale soltanto nel momento in cui è accettata, accolta in sé, e successivamente espressa attraverso la parola. L’oralità, che è il nodo centrale della prima aggressività di un essere umano, è anche il nodo centrale della sua espressione adulta, matura, sana. La psicoterapia è essenzialmente una sollecitazione che il terapeuta fa al paziente, mostrandogli la possibilità di parlare anziché negare: contrariamente al detto “parlandolo da vivo” (detto che “concede” ai vivi di parlare male dei morti), la parola non uccide mai, per quanto possa essere carica di aggressività. Anzi, la parola genera vita, permettendo all’individuo di nascere e di esprimersi, come all’inizio: “in principio era il Verbo”.
La posizione del terapeuta: il non agire
Il terapeuta dovrebbe arrivare ad essere veramente e totalmente neutro, nel senso che nessuna situazione, per quanto aberrante o ripugnante, dovrebbe stupirlo: nessun tratto psichico o comportamentale dovrebbe essergli estraneo, nel senso che dovrebbe essere visto e letto come frutto della natura umana. Soltanto una successiva considerazione razionale sull’adeguatezza di quel tratto al benessere della persona, al vivere sociale, contestualmente alla società nella quale si è inseriti, dovrebbe permettere il giudizio e la presa di una posizione. Homo sum: humani nihil a me alienum puto; "Sono umano, e nulla di ciò che è umano mi è estraneo", diceva Terenzio (Heautontimorumenos, II sec.a.C.).
Compassione, amore e stima rappresentano la base dell’atteggiamento del terapeuta, ma non necessariamente questi sentimenti devono scaturire/esitare in un comportamento attivo, propositivo, diretto verso il paziente. Anzi, una posizione che denoti fermezza, stabilità, osservazione è quanto di meglio possa incontrare il paziente. La “non azione” soddisfa infatti il bisogno di ascolto, fa sentire la persona accolta, accettata, attiva, viva, stimolando le capacità intrinseche al soggetto, anche e soprattutto quelle che egli non ricorda, non utilizza o non sa di possedere.
Ciò che più caratterizza la posizione dello psicoterapeuta in psicoanalisi è la capacità di attesa, la capacità cioè di mettersi in una posizione di ascolto e di sospensione di giudizio e di pensiero. L’inattività (non soltanto quella fisica, ma anche quella mentale) unita all’ascolto incondizionato dell’altro, ha la funzione di “mettere in moto” il paziente, che si sente in tal modo portato/spinto a:
• decidere di comunicare
• reagire attivando la sua mente e le sue risorse
• controbattere mettendo in modo le sue difese e le sue modalità usuali di far fronte alla relazione con l’altro
• parlare.
Soltanto una persona che abbia fatto un training personale approfondito riesce a tollerare di mettersi nella posizione terapeutica di “non agire” nel senso indicato. Ciò presuppone infatti che il terapeuta possieda la capacità di aspettare, di mettersi in attesa, di non anticipare i tempi, e che di conseguenza riesca ad essere “immune” dalle problematiche che sorgono nell’epoca attuale, e che sono la conseguenza di un’accelerazione dei tempi, di un’iperstimolazione e strutturazione spaziale, del perseguimento di obiettivi di produttività e di un’etica svuotata di senso.
Oggi per una persona, per quanto preparata a svolgere la professione di terapeuta, risulta estremamente difficile non farsi intaccare il pensiero dall’organizzazione spazio-temporale della società. Ciò presuppone prese di posizione definite, coraggio, capacità di gestire l’ansia che inevitabilmente è indotta dai fattori esterni. Il semplice presupposto di mettersi in una posizione di “non agire” e di “non pensare” richiede di non avere ansie di “prestazione”, e richiede anche di essere convinti di attribuire a tale posizione un’importanza centrale per la comprensione e per la possibilità di dare senso.
Ma la cosa certamente più complessa è la capacità di tollerare l’impotenza: ascoltare l’altro in maniera incondizionata, non agire, non parlare, non interpretare, non pensare (nel senso di dare immediatamente un senso a ciò che si ascolta) significa infatti vivere a tutti gli effetti una situazione di impotenza. Per un’esemplificazione della situazione così come viene vissuta dal terapeuta: > il paziente ci conduce dove vuole e dove ha bisogno di condurci, le sue parole e le sue storie entrano nelle nostre orecchie senza alcun freno, e la nostra mente accoglie tutto in maniera neutra, passiva, tollerando anche che vi siano vuoti di senso, e che tali vuoti permangano per un tempo per noi tollerabile, fino a che – senza fretta – la mente, attraverso un pensiero “organizzatore” riesca a intravedere la sofferenza, il conflitto ad essa legato, le tracce di eventi traumatici pregressi.
Psicoanalisi e medicina olistica: la potenza di un approccio integrato
Questa posizione di assenza di azione fisica e mentale, come si è detto, attiva in maniera potente le risorse cognitive ed emotive del paziente, che viene in tal modo stimolato. Tale processo – che avviene a livello soprattutto psichico – trova il suo corrispettivo a livello fisico/corporeo nel processo di attivazione delle difese immunitarie che si ha attraverso l’omeopatia, la stimolazione di canali energetici che si ha attraverso l’agopuntura, e più in generale attraverso la medicina olistica, che considera la persona nella sua interezza ed affronta il malessere specifico nella globalità del funzionamento dell’individuo.
Se si considera la psicoterapia nella sua specificità di intervento, centrata su una posizione definita del terapeuta, fortemente connotata dalla sua staticità, passività, inazione, si nota la grande affinità con il pensiero dell’antica tradizione cinese, che fonda la reazione dell’altro sulla passività del soggetto. Si considerino ad esempio gli antichissimi stratagemmi cinesi per l’arte bellica, o la fluidità passiva dei movimenti del judo, che sfrutta l’energia dell’altro per l’innesco di un movimento estremamente potente, che si realizza così senza sforzo alcuno. Si consideri ancora il significato della parola “judo”, “via della cedevolezza”, laddove nella passività e nell’attenzione all’altro si esprime tutta l’essenza della forza.
Per questo motivo, la possibilità di affiancare alla psicoterapia psicoanalitica la terapia olistica rappresenta un modo per attivare in maniera estremamente potente il soggetto, che viene stimolato nel suo funzionamento mentale e corporeo, in tutta la sua persona. Un approccio integrato di questo tipo riesce a mettere in moto tutte le energie del soggetto, senza che egli percepisca questo come “sforzo” da parte sua. Si producono effetti terapeutici amplificati, uniti ad un’incredibile accelerazione del processo di cura. Al contrario, l’affiancamento della medicina occidentale alla psicoterapia risulta non soltanto dissonante nella sua essenza, ma spesso anche svantaggioso ai fini terapeutici. Se da un lato, infatti, attraverso l’attesa, la sospensione del giudizio e del pensiero, l’utilizzo della parola del paziente, noi cerchiamo di attivare il paziente stesso a riconoscere i processi disfunzionali e a trovare da solo la costruzione del suo mondo, l’intervento medico tradizionale mira a cancellare l’espressione sintomatologica del paziente attraverso una medicina che lo “passivizza” e talvolta lo rende dipendente.
Nella medicina occidentale, in altre parole, è il medico ad essere attivo, il paziente passivo. Il medico interviene sulla sintomatologia, su ciò che emerge come evidenza di dolore o malfunzionamento, pertanto il suo intervento in affiancamento alla psicoterapia produce risultati effimeri, di breve durata, spesso confondenti per noi che cerchiamo di inquadrare l’andamento complessivo e che miriamo a “guardare oltre”. Dal canto suo, dall’integrazione delle due discipline, il paziente si sente trattato in maniera opposta, da adulto e da bambino, da soggetto e da oggetto, da intero e da frammentato. I risultati di questa discontinuità sono un allungamento del processo di cura ed una minore incisività nei trattamenti.