Mentre aspetta il traghetto per Marina di Ravenna, una signora, aggrappata al suo cellulare, urla: "Veniamo alle otto, il bambino è già mangiato". Vicino a me due coppie con due gemelli a testa parlano di supposte, pappine, biberon o latte materno, di veglie e di sonno. Gli eterni discorsi delle mamme: "Mi mangia, non mi mangia, mi dorme e non mi dorme". Arriva poi un ragazzo aggrappato alla sua bicicletta da corsa che inizia ad arringare la folla. L'argomento è la lentezza del traghetto, le lunghe attese alle quali siamo costretti e ci invita a protestare. Naturalmente nessuno coglie il suo invito: le mamme continuano a parlare di pappe, i ragazzi e le ragazze a parlare di amici comuni, di lavoro e di divertimenti e la signora al cellulare, per la terza volta, urla che il bambino è già mangiato.
In silenzio solo io. La ragione è nella circostanza che da un po' di tempo mi muovo da sola. E così sono allenata al silenzio e contemporaneamente le persone che mi sono vicine, sia all'aperto: qui al traghetto, in spiaggia, in strada, sia in luoghi chiusi: i coinquilini, i vicini al ristorante, al bar, ovunque, urlano. Dicono sia una caratteristica tipica degli italiani. Una valida ragione per espatriare. L'urlo mi appartiene solo quando sono molto arrabbiata e poi, dopo avere urlato, per lo sforzo rimango senza voce. Credo che uno dei grandi privilegi delle persone ricche, se dotate di un sano gusto per la vita, sia la possibilità di isolarsi dal rumore e dalla voce umana quando esprimono il loro mondo di stupidità e di aggressività collettiva. Le due cose, come ha espresso così chiaramente Hanna Harendt nella Banalità del male, vanno per la stessa strada e quotidianamente ne vivo frammenti più o meno fastidiosi.
A volte, nella vita, mi capita di essere bugiarda: sono taciturna e se mi si chiede di parlare, talora, per non offendere, mento. Di fronte alla scrittura, invece, mi pongo in un territorio di autenticità e di verità. E di lì non mi muovo, provo il desiderio di essere sincera, semplicemente. Il pensiero e il sentimento della scrittura mi accompagnano in ogni luogo, trasformano tutto ciò che vedo e l'aria che respiro. Essa è talmente radicata dentro di me, che non l'abbandono neanche quando percorre le strade dell'indicibile. Come sta facendo ora nella narrazione di una fissazione che accompagna le mie giornate.
Nei confronti del rumore non ho più sopportazione e per difendermi compio gesti un poco folli. I coinquilini del secondo piano tutti i giorni, alle 14.30, spostano uno, o più i mobili. Contemporaneamente altri condomini aprono e richiudono il garage una, due, tre volte. Nella casa di fronte un cane abbaia, perché forse ha fame, o sete, o per solitudine, o perché passa un altro cane. Il rumore di solito mi raggiunge in quel momento in cui riposo e lettura viaggiano assieme al profondo desiderio del silenzio. A volte reagisco mettendomi tappi di cera nelle orecchie, altre volte prendo una scopa e col manico batto il soffitto. Sono raptus. Come quello di poco tempo fa. Al mattino, appena sveglia, faccio colazione nel terrazzo, nel verde delle mie piante e del giardino. Questo risveglio, nella buona stagione, lo vivo come un dono. Ma la signora del secondo piano urla al cellulare, anche lei nel terrazzo, in che modo trascorrerà la giornata: informa così il vicinato intero che porterà il bambino al mare, o che rimarrà a casa perché, alle 14.30, con suo marito, dovrà spostare un mobile. Una mattina, allora, iniziai a lanciare le poltroncine di paglia viennese contro il muretto del terrazzo, ma la voce superava di gran lunga il rumore del mio impeto d'ira.
Perché non salire di sopra e chiarire gentilmente il fastidio che le loro azioni mi arrecano? Non ce la faccio; sono già miei nemici e rimango meravigliata che ancora mi salutino. Per fortuna che a casa ci sto pochissimo e non possiedo armi. Le liti tra inquilini a volte arrivano alla cronaca nera: "Anziano signore dopo una lite furiosa spara al vicino di appartamento". Oppure: "Spara senza ragione al vicino di casa". Sono una pacifista sconsiderata, nel senso che per me non esiste nessuna ragione valida per aver fatto guerre, dalla prima a quelle contemporanee, eppure le mie reazioni nei confronti delle persone che creano rumore, ignorando di essere in un luogo condiviso, rasentano quella stupidità che, in una dimensione più vasta, conduce alla guerra. Quello che dico può apparire assurdo, ma credo che nei nostri gesti quotidiani risieda la responsabilità dell'essere portatrici e portatori di pace. A me il rumore risulta insopportabile, scende nel profondo e mi impedisce qualsiasi azione.
Se leggo o scrivo o dipingo o tento di dormire e c'è rumore, perdo concentrazione e smarrisco la strada. Ed è la zona oscura di me che prende il sopravvento e posso avere raptus di follia. E dire che sono una persona gentile, disponibile e soprattutto silenziosa. Se entro anch'io in lotta e non cerco nel dialogo una via di uscita, ripropongo un meccanismo violento. Non sopporto questa metamorfosi di me stessa in un grande orecchio teso ad assorbire tutti i livelli del rumore. La mia è un'ossessione e ho l'impressione di essere una vittima predestinata. Dopo tanti anni trascorsi a sentire sopra la mia testa bambini giocare a pallone in salotto, mamme camminare con tacchetti a spillo su pavimenti di piastrelle, gente spostare seggiole e tavoli privi di gommini e usare trapani e martelli a tutte le ore e parlare con toni talmente alti da abbattere le difese dei muri, il rumore è entrato inevitabilmente nella mia vita come un tormento insopportabile.
Questa estate, ad esempio, ho vissuto in due abitazioni che avevano un ampio terrazzo con una splendida veduta, ma sempre confinanti con un altro appartamento abitato da gruppi familiari rumorosi e io, sola, a cercare strategie di difesa. La mia alleata: Rai radio tre. Alzavo il volume per non sentire e i vicini alzavano il tono della voce fino al litigio finale. Ho perfino finto di telefonare a una persona di chiara fama e questa tattica ha funzionato. La cosa è andata così. Dal terrazzo accanto mi arriva un frastuono infernale e io inizio a urlare al cellulare: "Vorrei parlare con Fabio Fazio (il nome celebre). Sono Mariella, sì, Mariella Busi ". Dal terrazzo accanto, brusio. E io: "Caro, come stai? ? No, non sono a Ravenna, sono a Ischia. Qui è davvero stupendo. Sto appunto ammirando un tramonto, sì, di quelli africani." Dal terrazzo accanto, silenzio. Allora ho continuato: "Hai letto già il racconto? Grazie, sei troppo gentile. No, ora non esagerare... Vuoi dire il soggetto per un film?...". E più scemenze dicevo e più, nel terrazzo accanto, scendeva, finalmente il silenzio.
Il silenzio.
Verso la fine di queste lunghe vacanze mi sono trovata sola, in riva al mare in attesa del tramonto. Sola, se ne erano andati proprio tutti. Respiro profondamente, mi immergo in un silenzio che è ricchezza di suoni essenziali. In quel luogo erano il mare d'onde, le nuvole che correvano in cielo e la sabbia che scricchiolava sotto il piede "come seta che si strappa". Ma ecco che arriva un signore. Nella spiaggia non c'è nessuno, ma ugualmente si siede nell'ombrellone accanto al mio. Si accende una sigaretta, prende il cellulare e con quella voce caratteristica di uno che si è fumato una vita, dice: "Amore! Sto pensando ai tuoi figli. Sono preoccupato soprattutto per tua figlia. Adesso chiamo il medico che è una brava persona perché non mi fido di quelli ai quali si è rivolta lei. Non mi piacciono, poi hanno dietro certe persone... Sono degli squallidi. Adesso chiamo il medico e poi ti faccio sapere". Compone un numero e tossisce: "Pronto dottore, sono l'avvocato Giuseppe Caruso, si ricorda di me? La chiamo perché di lei mi fido, so che è una brava persona. Vorrei un appuntamento per mia figlia, il più presto possibile. Grazie, io non ci sarò perché ho un impegno di lavoro. Vedrà che carattere gagliardo ha questa mia figlia!" Altro numero: "Ti ho preso l'appuntamento, domani alle 14.30 con il mio amico medico che è una brava persona. Domani vai da lui e disdici l'incontro con quegli altri. È gente della quale non ci si può fidare. Credimi. Non ti preoccupare. Allora d'accordo? Lo faccio anche per tua madre che è preoccupata. Ciao, ciao tesoro!". Altra sigaretta e ancora al cellulare "Amore, vedi che penso sempre a te e ai tuoi figli. Hai una figlia tosta tosta. Si era fissata con quelli là! Ma ci sono riuscito, ho preso l'appuntamento con il medico che è una brava persona. Sì, domani alle 14.30. A dopo, amore".
Questo signor Giuseppe non l'ho neanche guardato, ma ho preso immediatamente il mio piccolo quaderno degli appunti e mi sono trascritta esattamente la sua conversazione. Alla fine avrei voluto chiedergli: "Perché proprio vicino a me? Che cosa le ho fatto di male?”