Per definire l'insieme delle immagini che vanno sotto questo titolo, alcun bellissime, altre orripilanti, bisognerebbe coniare un termine nuovo. The look of silence è in concorso come documentario alla 71a Mostra di Venezia. Certamente non è una fiction, ma non è neppure un film su una realtà esistente. Ciò che si filma qui è una realtà in fieri, ovvero le reazioni, assolutamente imprevedibili, indotte da domande dirette su fatti gravissimi. Il riferimento è alla metà degli anni '60, quando in Indonesia la dittatura militare, sostenuta dal governo americano, eliminò un milione di persone, tra intellettuali, presunti comunisti, contadini e appartenenti alla minoranza cinese.
E' un documentario l'inanimato che fa da sfondo alle interviste, le case e la natura intorno, ma anche lì, in aperto contrasto con l’argomento del film, certe scene raggiungono levità e bellezza, perché filmate con il coinvolgimento affettivo che il regista nutre per il protagonista e i suoi familiari. Il filmmaker è il danese-americano Joshua Oppenheimer, al suo secondo film sul genocidio indonesiano, dopo The act of killing del 2012. Qui però la prospettiva è diversa. Joshua ha trascorso quasi dieci anni in una comunità di sopravvissuti fuori da Medan (a nord di Sumatra). E’ così che ha trovato il protagonista del suo film, Adi, fratello di una delle vittime della purga del '65, nato dopo quell’anno, a cui affidare la ricerca di verità nelle parole di quegli stessi che avevano compiuto le stragi. Solo la conoscenza e il dialogo sulla storia recente, infatti, potranno permettere di ricostruire una società dove forzatamente convivono vittime e carnefici.
Film di ricerca, dunque, concepito come strumento operativo di ricomposizione di una società straziata. Adi, per il suo lavoro, (vero, ma squisitamente allegorico), di optometrista, avvicina molti anziani e mentre comunica loro i cambiamenti da apportare agli occhiali per aumentare la loro capacità visiva, fa domande. Fa visita a tanti e “guarda” con coraggio il silenzio che è sceso sui fatti trasformandolo in domande via via più incalzanti, ma senza odio. A casa, nell’incessante ricerca di verità, guarda filmati sui racconti dei colpevoli di strage. Interroga anche il padre ultracentenario ormai sordo e incapace di camminare; la madre ottuagenaria inconsolabile che prega Dio perché la vendichi degli aguzzini di suo figlio; ne parla con la moglie ma sa anche evitare di coinvolgere i suoi figli, con cui passa bei momenti di gioco.
Il film è scaturito dal pensiero che non ci può essere perdono senza qualcuno che lo richieda, ma per farlo ci deve essere pentimento. La maggior parte dei massacratori non riconosce nelle sue gesta un crimine, dunque una colpa. Nei filmati appaiono ridere spesso quando narrano le atrocità commesse. Il pensiero corre alla filosofa heideggeriana Anna Arendt, sostenitrice della “banalità del male”, e al suo riso irrefrenabile quando rileggeva le pagine del processo a Eichmann. Molti dei carnefici sono dunque impazziti. E tanti sono già morti. Fra i sopravvissuti, quelli che occupano posizioni di potere sono protervi e minacciosi di possibili nuove purghe. Nulla si può fare con loro, eccetto difendersi.
Ci sono però anche, ad aprire uno spiraglio di speranza, coloro che dichiarano di non averne saputo nulla e si fanno condurre da Adi sul terreno della conoscenza. Una ragazza, commossa, chiede scusa per suo padre. Ecco che questa ricostruzione del passato getta una luce su una possibilità, al di là della rimozione o dell’oblio. Oppenheimer, impossibilitato dal tempo inclemente a tornare a Venezia per la premiazione, ha voluto esserci però con un messaggio. “Adi, alla fine del film era infelice per i pochi risultati raggiunti. L'accoglienza ricevuta alla Mostra gli ha dato nuova fiducia, e di questo vi ringrazia”.
Un grande film, che alla forza delle emozioni, unisce l’elaborazione di un metodo che apre alla speranza di poter intervenire dal basso sui tanti conflitti irrisolti che insanguinano il mondo, frutto di contrasti mai affrontati.