I suoi figli Lorenzo e Ruggiero pensano che abbia gli occhi gialli. Occhi di brace, non quelli danteschi di Caronte, piuttosto quelli di una figura romantica ottocentesca che uno scrittore avesse voluto riscattare da una femminilità leziosa, a costo di farne un’eroina condannata, di quelle venute al mondo anzitempo e destinate a pagare un sentire d’avanguardia. Per sua fortuna, Paola Pace è nata nel Novecento, quello proiettato verso il Duemila, e può essere come le pare.
Attrice e siciliana, siciliana e attrice perché attrice siciliana non sarebbe la sintesi giusta, è allegra e addolorata nello stesso istante, affabulatrice travolgente che ispira la scrittura non di uno ma di cento articoli e, soprattutto, di una sceneggiatura da spedire subito a Roman Polanski, sperando di poter poi raccontare a un giornalista, il giorno ipotetico dell’uscita del film, che il regista polacco trovò la storia conturbante e decise di girarla. Come nelle migliori vicende di Hollywood. “Polanski, il mio preferito – esplode Paola– . Fa sognare, riflettere e ha la capacità di raccontare mentre scava nella parte misteriosissima della nostra essenza. Chi ha capito Oliver Twist meglio di lui? Polanski è Oliver Twist!”.
Carmelo Bene e la signorina Pace
La sceneggiatura per Polanski, destinata a due interpreti in uno spazio buio e insalubre, potrebbe intitolarsi Carmelo Male. “Da giovane ero appassionata di certi artisti che sperimentavano a cavallo fra il verso e la sonorità del verso – racconta Paola– . Carmelo Bene allora era il Maestro. Registro una cassetta con le migliori poesie e poi lo chiamo, lasciando un messaggio in segreteria. Una notte, a mezzanotte, un amico con il quale dividevo la casa mi dice boccheggiando: c’è Carmelo Bene al telefono. Signorina Pace, sono Carmelo Bene, se mi vuole incontrare venga adesso”. L’attrice in boccio si fionda dall’attore leggendario per trovarsi avvolta dal fumo di sigarette alle erbe, in “una casa nera, superbarocca, piena di arazzi, argenterie e oggetti pesanti”. Bene, coperto da una vestaglia di seta, per metterla in difficoltà le pone domande dalle risposte impossibili su intellettuali sconosciuti: “Come un ragno mi tesseva una tela attorno. Sempre più aggressivo, rabbioso, con un lampo diabolico negli occhi che aumentava di minuto in minuto perché non ero la donnina che piangeva. Mi scusai per la mia ignoranza”.
Poi, toccandole la faccia, il naso importante delle stirpi nobili di Sicilia, le dice: “Vede, queste parti sono in più. Se accetta di farsi l’operazione, gliela finanzio io, per poi darle un posto di segretaria…”. “Era così eccessivo nella provocazione che mi scappò un sorrisino. Si infuriò. Urlava che non mi dovevo permettere, che le sue attrici erano tutte miss Italia. Sentii il suo degrado interiore, lui avvertì la mia delusione e mi voleva distruggere: eravamo in un sotterraneo ed ebbi paura. Tanta. Alle 5, finalmente uscita, respirai l’aria fresca dell’alba, fu una boccata di aria all’anima. Ci misi tre mesi per togliermi di dosso la malignità, qualcosa di maleficamente invasivo che induceva la depressione”. Poco tempo dopo Bene picchiò sua moglie incinta, l’ex miss Italia Raffaella Baracchi.
Goliarda c’est moi
“Goliarda Sapienza era un genio della gestione della giornata. Un tot di giornata dedicata alla scrittura, un tot all’espletamento delle cose pratiche, un tot alla cucina, alla quale dava un valore immenso. Diceva ad Angelo (Angelo Pellegrino, classicista, traduttore, attore, curatore dell’opera della scrittrice n.d.r.) che avrebbe preferito essere ricordata più per i piatti che per i libri”. La sua era una cucina socialista, appetitoso il purè povero di patate alla scorza di limone, senza burro e senza latte. “E in ogni giornata, il momento della felicità, con la visita di un amico, per esempio”.
Goliarda Sapienza (1924-1996), un nome al quale non servono pseudonimi tanto è letterario, ha diviso con tanti altri sia il destino di essere stata respinta da viva e pubblicata da morta che quello di essere più celebre all’estero che in Italia. L’arte della gioia, edito da Einaudi, è un romanzo che spopola in Francia. Un romanzo “memorabile” secondo il critico Domenico Scarpa. A Goliarda Sapienza Paola Pace ha dato corpo e voce , anche francesi, in un adattamento dell’Arte della gioia: “La letteratura è stata il mio riformatorio! Se m’innamoro di un’opera letteraria voglio metterla in scena. Quando l’autore incontra il suo lettore i due diventano la stessa cosa. Goliarda è la legittima erede filosofica del Carpe diem di Orazio, un concetto difficile da capire perché estremamente laico, e aveva una sua progettualità usando ogni giornata come una vita”.
Fama
“Non sono famosa, ma sono contenta perché mi sono goduta spazi di soddisfazione enorme – spiega Paola– . Spesso gli spettatori sono stati colpiti da quello che ho fatto. Molti colgono l’intento profondo della restituzione dell’ispirazione poetica. Di quando si forma l’unisono fra autore e attore, come in una seduta spiritica”. Non sarà famosa, sostiene lei, ma intanto ha sfilato sui tappeti rossi del Festival di Cannes con il film Le buttane (1994) di Aurelio Grimaldi e alla Mostra di Venezia con I cento passi (2000) di Marco Tullio Giordana. A Cannes indossava un abito di seta cangiante bordeaux e nera, collana e orecchini di rubini antichi della madre. Sulla montée des marches i fotografi le gridavano: “Tu, tu con le gambe lunghe!”. “Quel ruolo non mi ha fatto gioco. Il ruolo di una puttana”.
Quando si presentò a cercare scritture al Teatro Biondo, stabile di Palermo, il direttore Pietro Carriglio l’apostrofò con un: “Ragazza ribelle. Non ho niente da dirti, niente da darti. Ero nella giuria, quando vidi il film e infatti non lo premiammo”. Il critico teatrale di Repubblica, Nico Garrone, andò a trovarla in camerino dopo L’Arte della gioia e la definì la ”Greta Garbo siciliana”. Hanna Schygulla, con la quale debuttò a Gibellina, diretta da Amos Gitai, vedendo che la giovane collega si teneva sottotono per rispetto nei confronti della star, la guardò con occhi lampeggianti, da musa di Fassbinder qual è stata, e le disse: “Alza la voce, tu sei molto più brava di me. Io sono un’attrice cinematografica”.
Monica Bellucci, con la quale faceva colazione tutti i giorni durante le riprese di Malèna, vedendola struccata, le disse: “Ti conosco come attrice, sono felice di lavorare con te. Io sono una novizia”. E a chi insinua che, in termini attoriali, la Bellucci non si sia discostata di molto dal noviziato, Paola Pace risponde con una difesa decisa: “E’ cresciuta. E’ una donna umile, intelligente, spiritosa. Pragmatica. Poi io ho visto che la sua bellezza può provocare la paralisi: è un evento”. La descrive con parole tenere, ristorandoci dalle banalità del “burroso sex symbol mediterraneo”: “Una madonna. Con l’ovalino umbro, gli occhi con le ciglia lunghissime, la bocca a cuore né troppo grande né troppo piccola”. “Ciao, bella donna” la salutava Monica. “Detto da lei, mi godevo il complimento”.
Il paladino
Mimmo Cuticchio, figlio del puparo Giacomo, è il più importante continuatore e difensore dell’Opera dei Pupi, dal 2008 patrimonio orale e immateriale dell’umanità. E’ cantastorie, regista, attore. Artista totale ha sempre spinto Paola, la sua unica attrice, la sua Angelica contesa dai paladini Orlando e Rinaldo, protagonisti, verso l’autonomia: “Puoi avere La dodicesima notte di Shakespeare e la puoi restituire tutta da sola”.
Tu hai tutto dentro di te, le assicura.