Con un balzo spicchiamo il volo, solo volo volante, tessuto per volo acceso in campo roboante. Incominciamo i corpi, incorniciamo i corpi in sinuosi passi, in sinuoso movimento di levigata felpataggine, come l’ospite sacro che si aggira per casa senza fare rumore. Non simulacri, Eidola, non fantocci o figure dell’inganno ma essenze gentili in progressione, essenza dell’essenza, primavere di parto, principio dell’arte mobile e danza sempre unita, per tener viva la vita. Mutanti scorrevoli porte, porte senza porte, incantatrici in vesti d’argento, seduttrici con chiome profumate. E’ tutto vero, non c’è finzione, non c’è trappola, non c’è sogno sognato. Non c’è ascensione, sprofondamento.
Tempio di luce, tracciato filiforme, osso e tintinnamento, cembali senza antiquaria, felici acrostici del divenire bianco in pura forma formata rigenerante, portico della vittoria nel limite mai finito del divenire. La forma afflosciata del nostro essere a riposo si attiva con un balzo e allora viene l’aurorale tutto, il già iniziato e il non ancora fatto, l’informe sconosciuto, tutto il mutevole. Noi siamo senza inganno, piantiamo radici con le fave e abbeveriamo i morti, anche in fracassamento di pentolazze dove passano gli appestati, anche in cose crudeli -così improvvisate, che si accennano solo per poi svanire- per allattare i vivi mulinando. Noi siamo il fremito, il riassorbimento. Siamo l’ardore.
In lunetta di olfatto, con ornamento di onnivore studiose, ogni nostro gesto è indirizzato con precisione. Il primo miracolo è l’avviamento e il secondo miracolo è il discernere senza impiastricciamento e il terzo miracolo e il fiorire e il quarto è il consolidare il principiamento è il quinto è il nostro essere solare tutto e il sesto è il nostro essere secolare sculturato e il settimo è l’ardimento e l’ottavo il perfezionamento e poi viene il nono dell’avveramento e il decimo, il decimo sei tu. Che a furia di aggiustare da dentro ci siamo miracolate, dentro a uno scossamento in nodo, ci siamo guarite il cuore per offrirlo.
Nostro è il destino in apertura, si apre ad ogni passo principiante. Noi siamo le serve senza patire, le rispettose serve di ogni scambio e ci allarghiamo gli occhi per fiotto senza angoscia e dialogo fattivo e transitiamo nell’esperienza liberante. Noi non vogliamo la metà di niente ma il doppio di tutto, il nostro regno è il tuo, con illuminazione innamorata, oracolata, in maestà sposata al mondo e al suo sembiante. All’occhio chiuso, il compito della favola, all’occhio aperto la sua celebrazione, nel presente del vivo in suon di lei. Figlie del sole e della terra, per andamento libero disciolto sempre, gettiamo al vento le museruole, la nostra forza ci esplode nelle radici. Non siamo l’archetipo, il doppio e il triplo. Non siamo l’ebbrezza. Ma la nostra unità immacolata e ti baciamo, con le ferite tutte aperte, e siamo qui, fiorite come gli argini, benedette sopra lo stipite dei portali.
La nostra è un‘India superiore. Inda Angelica Fiamma, la corte del respiro, l’ostrica senza guscio e il guscio vuoto, lo sguardo intimo; qui è parola viva di alberatura e tatto e tutto vive già in salvo; nessun san Giorgio ha da venire per liberare da nessun drago, nessun lanciafiamme guaritore di medicina spiccia sporadica sia, che abbiamo già trasvolato dai territori della malagrazia e siamo qui, accanto a san Giorgio resuscitato. Gloria e onoranza, vivezza in estensione. Il nostro non è un regno perduto, una terra promessa, un’estensione iperurania di arroccamento arricciolato. Noi siamo dove le cose sono possibili realmente. Delle cose possibili, la maturità.
Quando siamo abbagliate tutte piene di beneficio, quando siamo abbigliate per raccontare una nuova storia, nell’alta fantasia della tigre sovrana noi diventiamo cosa bella, divina scintilla sopra lo amore che viene ancora e ancora ci commuove coi suoi colori di color amaranto, e allora ci impastiamo con coraggio, con quel po’ di soggezione che fa belle le donne e poi ci confidiamo, noi confidiamo in Te. Misteriosa a tratti e delicata la forma della lungimiranza dove le tessiture diventano collane: un verso di anguilla, una carezza di fragola, un lavacro di seta, un orso silenzioso. Noi partoriamo tutto, come mano di pesce che non disturba.
Melarance e finocchi, gioie e corredi, dammi un poco del tuo pensiero, dammi l’arcinota arcibella tua presenza, senza amarezza. Dammi allegrezza, fa’ che non manchi l’essenziale. Fa che ci sia una sonata ad aspettare, una consolazione da predire, il favoloso manuale da leggere in ogni passo, e favolosi sigilli da aprire e la bestiola che sa di dolcemente e placidamente, mentre impastiamo una pallina di carta coi fiori del giardino, una cosa che basta, una folata d’acqua col suo mantello, una fortuna predestinata e un vivere un po’ più arcano. E fino a quando tutto ci mancherà, noi continuiamo ad impastare.
Fiamma comandamento lavami il cuore. L’amore che resiste dentro alle fodere mentre ci becchettiamo, mentre sbocconcelliamo, mentre sgraniamo le pietre dei rosari, mente siamo splendore. Non siamo noi a correre coi lupi, siamo già lupi e lupesse, bambine e alberesse dalle chiome celesti, e annodiamo i fili dei nidi di rondine, la memoria degli anni e il calore dei giorni, nel nostro ventre divaricato ospitiamo i bambini, nel nostro ventre oracolato gli uomini, nel nostro tutto la luce di ogni cosa. Con fondamenta irregolari a volte ci arrampichiamo, a volte ci nascondiamo, a volte sentiamo tanto e confusamente, a volte invece siamo pura saggezza. Carne di incarnazione, puro presente.
Noi che vorremmo della bellezza essere tutto, essere gli altri, essere un sentimento inconsumabile, centratura in brillore meravigliato, senza confini, con l’ombra senz’ombra. Eterno femminino regale, regno d’alta libertà dove il cor non si spaura perché non è un possesso ma un avvenimento sempre vivo in esalazione, un segno tangibile di movimento. Venerati uomini, venerati opliti, venerati guerrieri, guardate, sentite, trasformate in avvitamento; inchinatevi docili all’andamento senza distanza, placate la vostra immensità, fatela diventare misura che sia a misura, depositate il portavento delle vostre apprensioni. La preghiera di fede ha in sé la grazia della felicità e non si invoca invano, non si scrive per mano dell’assente, ma si distende ovviando lo sguardo tribolato.
Se ci sfiorate, ci fioriscono gli occhi. E se ci amate, ci abbandoniamo rilasciando legittima rosa, legittimo tempo, polvere senza paura, rovina di cosa lucentevole. Belle di Venere arrivederci fino a qui.