Scrivere sui significati della Tempesta di Giorgione dopo il prezioso volume di Marco Paoli sembrerebbe veramente temerario. Eppure i grandi capolavori sembrano enigmi difficilmente esauribili e questo vale massimamente per la nostra opera: il più enigmatico dei capolavori. Il libro La Tempesta svelata di Marco Paoli è un saggio che denota la finezza e la cultura del suo autore ed è utile per fare piazza pulita di tutte le vecchie letture mitologiche sulla Tempesta ma non centra il proprio obiettivo: il dipinto resta enigmatico e le tesi di Paoli sono eccessivamente pluraliste: il quadro in poche parole secondo Paoli è un sogno filosofico, ma anche una descrizione di fatti naturali ma pure cela un codice politico e militare, oltre a veicolare allusioni ad Iside. Insomma: un guazzabuglio di risposte. Troppe.
L’opera non viene riportata ad unità. Resta spezzata ed enigmatica. I ragionamenti di Paoli si basano su sovrapposizioni tipologiche che non permettono di focalizzare sulle unicità e specificità dell’opera. E’ il solito difetto di una certa indagine iconologica non chiaramente fondata metodologicamente. Vogliono imitare Panofsky ma errano in quanto il procedere di Panofksy funziona se devi confrontare due modelli fra di loro, o comunque più forme tipizzanti, mentre qui il problema è non “fuggire” dall’opera ma “restarci dentro” e “portarci dentro” altri linguaggi compatibili. Se invece si tende a ridurre le forme del dipinto ad altri modelli si opera una semplificazione riduzionistica che banalizza l’opera e la fraintende per forza, perché “la usa” e non la interpreta.
La mia tesi invece riesce a dimostrare, sempre per sovrapposizioni e confronti, il perché di tutti i dettagli del dipinto. Il mio metodo invece è molto semplice ma pure molto rigoroso ed efficace. Semplicemente io leggo l’opera tramite l’opera. Cioè la leggo senza tralasciare nulla, senza “usarla” per dimostrare tesi precostituite ma cercando nell’opera stessa, quale visione spirituale, le ragioni delle soluzioni ai suoi enigmi. Non tutto si può così spiegare ma molto si può chiarificare e si riesce soprattutto ad individuare ”dove cercare”, cioè a risolvere il primo dei problemi. Questo mio metodo di lettura sistematico/olistico/anagogico mi ha portato ai seguenti risultati: so perché la donna ha quell’espressione strana, e so chi è e so perché è stato fatto il quadro, e posso dimostrare quale sia il contesto in cui è stato commissionato: in sintesi posso anticipare che il quadro è una celebrazione della politica e del ruolo imperiale di Venezia, ed è pure un accusa contro il Papa e nel contempo una richiesta di alleanza contro i Turchi. E so in quale anno è stato fatto.
Paoli si concentra sul tema politico dell’attacco imperiale a Venezia, mentre non coglie l’essenziale per i tempi veneziani di allora: il pericolo turco, molto più pericoloso di quello imperiale. Un dipinto quindi che rappresenta un preciso messaggio politico del governo di Venezia verso il Papa, al fine di chiedere aiuto contro i Turchi, ricordando nel contempo il ruolo fondamentale di Venezia quale baluardo della Cristianità. Un monito e una richiesta, un misto di avvertimento e di supplica. Appare così risolto il senso di sottile apocalitticità che chiunque evince da una sola occhiata al capolavoro che quasi trabocca una strana tensione mista ad un alone allusivo.
La parte debole dell’opera preziosa di Paoli inoltre penso si debba rintracciare anche nella pretesa di aver individuato in Cristoforo Marcello il nesso di congiunzione fra il committente, il governo veneto incarnato in una sua potente famiglia patrizia, e la corte papale. Se infatti il dipinto rappresenta quella che potrebbe definire in modo poetico: una “lettera diplomatica in figure” allora ne consegue quale corollario logico che deve necessariamente essere esistito un preciso destinatario storico che avrebbe potuto/dovuto ostendere il dipinto presso influenti consiglieri del Pontefice al fine di sensibilizzarlo sull’utilità di mutare la politica verso Venezia. Un raffinato e astuto omaggio contenente un codice di lettura suggestivo quanto chiaro e preciso, in perfetto stile veneziano. L’anello debole della “Tempesta svelata” deriva dalla debolezza del ruolo politico di Cristoforo Marcello presso la corte papale a fronte di un impegno politico così importante veicolato dal dipinto, in quanto il Marcello diventa protonotaro apostolico solo nel 1507-1508 e quindi la data di composizione dell’opera si sposterebbe pericolosamente nei pressi della data della morte di Giorgione.
Va considerato infatti che è improbabile quale tempo di composizione dell’opera il periodo 1501-1503 in quanto corrispondono ai tre anni di pace con i Turchi, pur incerta e pagata a caro prezzo, mentre la Lega di Cambrai, che aggrava la situazione di Venezia, viene inaugurata solo nel 1509. Il contesto problematico con i Turchi e con il Papa per via della contesa Romagna/Polesine e dell’incertezza papale sull’indizione di una nuova Crociata, che favorirebbe Venezia, è già maturo alla prima calata dei francesi in Italia, quindi l’arco di possibile composizione dell’opera va allargato. Perché poi Venezia avrebbe affidato a Cristoforo Marcello l’utilizzo politico del dipinto quando avrebbe potuto rivolgersi più direttamente ai vari ambasciatori della Serenissima che stazionavano a Roma o vi passavano sotto Innocenzo VIII o Alessandro VI?
Il periodo di composizione dell’opera infatti va prudenzialmente collocato in un arco temporale che va dagli ultimissimi anni del quattrocento, quando cresce il pericolo francese e nel contempo il pericolo turco con la ripresa delle ostilità con Venezia nel 1499, e i primi anni del 1500 quando era impellente l’urgenza di premere sul Pontefice affinché tornasse alleato di una Venezia che subiva una seria “ansia da accerchiamento” che minava il proprio impero. Alla fine di questo saggio indicheremo due ulteriori dati che ci permettono di ipotizzare la data della primavera del 1500 quale periodo di realizzazione più probabile del dipinto. Non solo: se la Tempesta è strumento di un messaggio politico allora l’uomo del dipinto, il “Mercurio”, cioè il nunzio latore del messaggio, andrebbe ricercato utilizzando come indizio i colori bianchi e rossi del suo vestito, le cui evidenti schematicità portano a pensare ad un blasone araldico di riconoscimento. Che sia un “Mercurio” infatti ce lo dice la più antica intitolazione del dipinto stesso nella cinquecentesca raccolta Vendramin, oltre che un indizio sottovalutato: la decorazione sul muro alle spalle dell’uomo mutuante chiaramente il proprio schema dal caduceo di Hermes.
Da una breve ricerca sugli stemmi veneziani o di chi in quel contesto svolgeva un ruolo politico-militare per Venezia, saltano fuori molti ottimi pretendenti al ruolo che Paoli attribuisce un po’ troppo frettolosamente al Marcello. Fra i molti, tutti con stemma con i vermiglio e bianco, ricordiamo: Antonio Bon dell’omonima famiglia patrizia di Venezia, politico e militare ricordato dal Guicciardini, un esponente della famiglia patrizia Ghisi, che avevano interessi e domini in Eubea, minacciata dall’avanzata turca, il nobile Andrea Foscolo, anch’egli ricoprente un ruolo politico per Venezia, Giovanni Emo, politico e militare già dipinto dal Bellini, l’ambasciatore per Venezia Niccolò Zorzi, con un nome curiosamente uguale a quello di Giorgione, lo sfortunato condottiero Antonio Grimani, esiliato, latitante e poi riabilitato, oppure, infine, un Malatesta come Roberto o come Pandolfo, al servizio di Venezia, negli ultimi anni prima dell’occupazione di Cesare Borgia o appena dopo nel senso di una parallela rivendicazione di Rimini, mai tenuta stabilmente senza Venezia.
I Malatesta fecero da capitani di ventura per Venezia e Sigismondo pochi anni prima andò a combattere anche in Morea contro i Turchi, in una fase drammatica fase di quella continua crociata difensiva che fù la storia della Serenissima nei secoli. Dal massacro di Otranto del 1480, anzi da un certo punto di vista fin dalla caduta di Costantinopoli del 1453, la dialettica Turchi/Venezia non cessa di crescere in drammaticità ed avvicinamento geografico fino alle inquietanti incursioni turche in Friuli degli ultimi anni del Quattrocento. Se quindi Paoli ha giustamente individuato il contesto politico dell’opera, tuttavia ben lungi siano dal definirne i precisi contorni in quanto abbiamo troppi pretendenti al ruolo di difensori di Venezia contro i turchi e di interlocutori del Pontefice.
Un altro indizio da valutare nuovamente penso sia lo stemma del carro posto sulla casa turrita di destra. Certamente corrisponde perfettamente allo stemma della famiglia Da Carrara di Padova e certamente ancora a fine quattrocento i discendenti della famiglia brigavano per riottenere la città da loro persa per colpa di Venezia. Ma non appare credibile che di fronte alla terribile minaccia turca si chiedesse al dipinto anche di lanciare un avvertimento contro i Da Carrara, le cui rivendicazioni non penso posso aver intimorito o preoccupato seriamente la Serenissima. Piuttosto l’astuzia linguistica dei Veneziani potrebbe aver usato lo stemma dei Da Carrara per alludere ad un Pontefice connesso con la città di Carrara quale fu ad esempio Innocenzo VIII, con una vera e propria minaccia “per via araldica”.
Che lo stemma del palazzo di destra sia da connettere ad una minaccia sembra evidente, lo ricordiamo, per il fatto che il tetto del palazzo si mostra mezzo distrutto, plausibilmente da un precedente fulmine o colpo di vento della medesima Tempesta, turca o divina poco importa a livello semantico, e sulla parte del tetto residuato sosta una bianca cicogna, segno di intelligente attesa. Alla bianca cicogna, nome di una famiglia patrizia della Serenissima avente interessi in oriente, altro pretendente credibile quale committente dell’opera o nuncius del suo messaggio presso il Papa, corrisponde simbolicamente e narrativamente la donna con la bianca mantellina. La donna, nuda e biancovestita, appare del tutto conforme alle allegorie della carità o dell’equivalente sapienza, che teologicamente è una forma di carità, ma il contesto teleologico del dipinto deve portarci a sovrapporre alla prima allegoria una seconda facile trasposizione: Venezia stessa. I connotati così apparentemente anomali nella figura di donna vanno prima riportati alla loro semplicità e poi ricomposti. Una donna nuda, madre, e posta su di un prato, come fuori da una città che diventa paesaggio su cui incombe una terribile tempesta. Il messaggio politico regge anche questa duplice stranezza e la attraversa se la consideriamo quale allegoria di Venezia regina e nutrice dei popoli e delle acque che sta per ridursi a causa dei turchi e dei francesi a donna desolata, spogliata, denudata, ed esiliata.
Lo sguardo della donna infatti è una sguardo che esprime profonda sollecitudine e attenzione, come in un silenzioso monito, in una sottile e sapiente lamentela che mescola desiderio di sollecitare una risposta ad una calma regale e prudente. E’ la donna il motore immobile di tutta la tensione che avvolge la rappresentazione, è il suo sguardo che agita sottilmente come un potente magnete l’intera opera. Questo effetto è potenziato infine dalla dialettica fra lo sguardo della donna, la sua nudità e la sua anomala postura e ubicazione. Il fulmine stesso che attraversa il mezzo del cielo della scena sembra una diretta conseguenza, anticipata in figura, della collera che il restare indifferenti al richiamo della Donna può suscitare. Collera divina attratta dalla calma e pura collera della Donna stessa. Siamo in presenza quindi di una nudità allegorica di tipo mistico, metafisico, e non semplicemente di un allegoria morale.
Che possa oggi per allora scandalizzare questa allusione audace a Venezia/Madonna deriva dalla nostra non completa visione della libertà espressiva e della visione spirituale dei secoli andati, molto meno puritani e ossessionati dalla morale sessuale e al sesso di quanto siamo noi moderni. Un esempio per tutti fuga ogni riserva mentale di tipo retroperbenista: lo stupendo “Cristo incinto” di Ludovico Mazzolino, segnalatomi per i sensi ermetici dallo studioso Riccardo Magnani; opera esprimente a mio parere anche un altissima e ortodossa teologia della misericordia divina, in quanto scritturalmente espressa anche per immagini femminili, come insegna lo stesso Cantico dei cantici. Che la donna quindi anche istintivamente possa allora, e ora per allora, rinviare all’immagine della Madonna, appena “mascherata” dall’inusuale location e dall’ancor più audace povertà di vestimenti, penso possa essere un effetto che possa essere “sfuggito” all’attenta regia “psicodinamica” dei committenti dell’opera. La “marianità” di Venezia ci porta allo stesso risultato. Come Maria difende le anime e la Chiesa così Venezia difende i regni cristiani dall’avanzata turca.
Certamente uno “shock” iconologico potrebbe essere stato voluto quale rafforzamento dell’intenzionalità persuasiva dell’affascinante dipinto. Se il Papa non avesse aiutato Venezia sarebbe stato come lasciare in povertà e abbandono la Madonna stessa! Mossa audace ma non eretica né blasfema, motivata dalla gravità delle circostanze. Ma l’arte antica è polisemantica per tradizione e per vocazione per cui nulla di male nel vederci magari anche Dorotea Malatesta o altra nobildonna pro Venezia, atta a suscitare tenerezza. Certamente nessuna donna storica potrebbe giustificare l’inquieta animazione della rappresentazione se non spostandosi ad un piano mistico/metastorico. La percezione della storia non era allora meramente cronachistica ma era sempre accompagnata, nei grandi eventi, da una lettura teologica provvidenziale-apocalittica, connaturata ad una società organicamente cattolica e così sarà fino alla rivoluzione francese/industriale.
Troppa spesso la critica artistica si dimentica la visione spirituale di fondo, cattolica, che ha sempre retto la Cristianità cioè quello che si è scoperto essere "l’Ancient Regime" solo a rivoluzione compiuta. A conferma del possibile incrocio fra discorso sui Turchi e discorso sul controllo veneziano di Rimini, confinante con il Patrimonio di San Pietro, abbiamo i colori araldici del “Mercurio”, che corrispondono a quelli, fra i molti, dei Malatesta, e l’edificio sullo sfondo, quello recante il leone di San Marco, che ricorda il Tempio malatestiano di Rimini, capolavoro di Leon Battista Alberti. Il disegno originale dell’edificio infatti lo sviluppava in altezza a mo’ di parallelepipedo, e, in ogni caso, il curioso incrocio del triangolo con dei contorni generali di tipo “templare”, cioè propri di un edificio complessivo alieno dai canoni dell’edilizia sacra come di quella patrizia, e non corrispondente ad una porta o ad una arco di trionfo, può portare ad una citazione politica riminense dal messaggio chiarissimo, quasi letterale: Rimini appartiene alla Serenissima, cioè in altre parole: Venezia può minacciare il dominio papale.
Conferma dell’impostazione politica del dipinto ma pure della difficoltà di precisare il volto del committente/tramite dello stesso, la troviamo passando in rassegna i Dogi e le famiglie dogali del periodo i quali sono tutti accomunati dalla gestione della questione dei rapporti con i Turchi e dalla questione dell’espansione in Romagna e quindi dei rapporti territoriali con il dominio del Pontefice: da Agostino Barbarico a Giovanni Mocenigo fino a Leonardo Loredan, ma senza dimenticare Andrea Vendramin, la cui sfortuna in guerra unita agli ottimi rapporti con il Papa Sisto IV potrebbero ex post portare a pensare ai Vendramin discendenti quali committenti del dipinto in quanto fautori di una “rivincita” famigliare e politica pro alleanza Venezia/Roma, per lavare l’onta del recente smacco da loro sentito come macchia sulla gloria della famiglia.
Incidentalmente ricordiamo che la certezza del messaggio diretto al Papa contenuto nel dipinto la troviamo nella Chiesa dipinta sullo sfondo vicino all’albero e nella chioma dell’albero stesso: si tratta con evidenza del Duomo della Roccia di Gerusalemme, posto sulla spianata del Tempio, e rappresentato da Giorgine con certosina e impressionante precisione. La chioma dell’albero che incombe sulla Chiesa per antonomasia, e Roma è la “nuova Gerusalemme”, non a caso presenta un anomala e simbolica forma a falce di luna inclinata, proprio per metaforizzare la minaccia turca che incombe su tutta la Cristianità. Con questi due delicati e sapienti dettagli il dipinto esprime chiaramente e potentemente il ruolo di Venezia quale difensore della Cristianità e del Papa stesso. La Chiesa fra Gerusalemme e il possibile Tempio Malatestiano sembra invece stranamente la chiesa di S.Ambrogio di Milano. Su questo aspetto andrebbe portata avanti un indagine accurata. Certamente in tre edifici dello sfondo, posti in vicina sequenza, non rappresentano dei meri orpelli come gli altri che sostanziano il paesaggio rubano, ma appaiono intensamente eloquenti.
Conclusa questa fase di precisazione non possiamo non prendere in considerazione l’altro dibattutissimo aspetto semantico del dipinto, cioè il suo essere espressione di una cultura ermetica. Che in un dipinto possano convivere più livelli narrativi non appare una novità ma, anzi, sembra quasi una costante dei grandi capolavori. Basti pensare ai sensi astrologici e religiosi del Cenacolo di Leonardo e ai significati cristiani e neoplatonici della Primavera di Botticelli. Due culture in entrambi i casi convivono armoniosamente. Che si tratti infine di un aspetto che è doveroso considerate che lo insegna l’intitolazione originale del dipinto che abbiamo appena sopra ricordato: Mercurio e Iside. Certamente potrebbe trattarsi di una denominazione erronea dovuta ad una rapida obsolescenza dell’intenzione semantica originaria, in quando elitaria nella committenza e nella destinazione, ma questa pista appare non così probabile vista l’antichità dell’intitolazione, la sua corrispondenza con la raccolta al cui interno era conservata l’opera, e la buona corrispondenza linguistica fra le due figure e i personaggi mitologici.
Che poi Hermes fosse anche utilizzato quale metafora di Cristo e Iside quale prefigurazione di Maria non appare anche questa volta scandaloso in quanto la cultura cattolica ha sempre ricristianizzato, anche nel cristianesimo sincretista dell’umanesimo più innovatore, il patrimonio linguistico delle antichità. Il problema delle letture ermetiche, o meglio “ermetiste”, del dipinto è dato o dalla loro genericità, che non riporta ad unità organica la narrazione del dipinto, oppure dal loro “eccesso di zelo” che porta a risultati che Umberto Eco giustamente stigmatizzerebbe quali “derive ermeneutiche”, “sovrainterpretazioni” cioè “usi” dell’immagine mascherati da interpretazioni. Eppure molto sembra esserci ancora da dire in quanto mi sembra che questa scuola di lettura non abbia scandagliato con la massima attenzione i dettagli del dipinto e si sia fatta prendere invece da una “ansia da prestazione” volendo giungere subito a frettolose conclusioni. Possiamo anche elencare tutti gli elementi “anomali”del dipinto al fine di giustificare “la pista ermetica”. Si tratta di ben 17 elementi che possiamo denominare “metadiscorsivi” nel senso che appaiono muti o irrelati oppure non conferenti rispetto ad uno sguardo letterale e “piano” sul dipinto quale racconto. Questi elementi sono figure singole oppure relazioni fra figure o entrambe le realtà. Eccoli:
- L’uccello bianco sul tetto del palazzo sulla sponda destra. Appare un elemento anomalo in quanto non ha un rapporto evidente con il resto, è appena visibile, e non sembra relazionarsi con altri elementi
- l’edificio a cupola. E’ un architettura orientale che contrasta con il resto del paesaggio urbano
- la chiesa con torre vicina all’edificio a cupola, anch’esso molto preciso nella sua spiccata identità ma apparentemente inconferente con il proprio contesto, a differenza degli altri edifici che intessono il panorama urbano dello sfondo
- il palazzo rettangolare con lo stemma della Serenissima
- l’albero con la chioma curva. E’ forma innaturale che indica un messaggio, un segnale
- il ponte ha quattro pali e porta al palazzo sulla cui facciata abbiamo uno stemma con quattro ruote e quattro merli in cima. Curiosa “coindicenza”.
- l’uomo con il bastone forma un elemento duplice, come le doppie colonne spezzate, e le due arcature della decorazione del muro. Curiosa “coincidenza”
- abbiamo due grossi edifici ai lati del fiume entrambi con la parte superiore rovinata, distrutta da cause non comprensibili. Considerando anche le due colonne spezzate arriviamo a tre immagini di distruzione
- in mezzo alla scena e sul suo fondo si vede una specie di stagno scuro e fermo, che contrasta con il fiume di cui sembra continuazione. Dato totalmente isolato. Può accostarsi ad esso solo la salamadra scura sul muro di destra
- la roccia posta sotto la donna presenta un arbusto secco la cui radice, o ramo inferiore, spezza la roccia e una pianta verde vicina. Entrambi escono dalla stessa roccia. Entrambi presentano biforcazioni a Y, che ritroviamo pure nel raddoppiamento del tronco dell’albero dietro alla donna mentre le due finestre uguali nel primo edificio a destra ripetono il fattore di dualità
- la donna è nuda in un luogo aperto
- la donna allatta su di un prato
- la donna mostra una postura delle gambe e piedi innaturale e non comprensibile, articolate a “doppia squadra”
- sull’edificio di sinistra c’è una decorazione che appare inutile, e non comprensibile, ma molto precisa nella sua geometricità
- l’animale appena visibile che sale o sta fisso sul muro di sinistra, presenta la stessa anomalia dell’uccello bianco
- la cometa di luce bianca con scia dorata che giunge da sinistra verso destra sopra il primo edificio di destra
- le frange simili a gocce presenti solo sul lato destro della mantella dell’uomo.
Proviamo a condurre l’analisi senza tesi precostituite e riguardiamo con calma tutti le figure del dipinto alla ricerca non già di immediate soluzioni, del tipo di risposte “automatiche” a quiz, dall’esito quasi scontato, come: “Donna” = Mercurio alchemico e “Uomo” = Zolfo alchemico, ma si tratta di intuire e di ricostruire possibili relazioni che intrecciano uno o più percorsi di rispondenze e relazioni interne agli elementi dell’opera. Scopriremo così nuovi scenari che sembrano coerenti e significanti. I rischi da evitare sono la tautologia e, all’opposto, il “salto ontologico”. Partiamo da un sano principio: l’opera d’arte non va forzata, ma “assecondata”, cioè fra più vie ermeneutiche non solo va scelta la più semplice e diretta brandendo il celebre rasoio di Occham ma va considerata quale sia la strada che meno “usa” l’opera e invece più si adegua ad essa, seguendone la struttura e le specificità. Oggi invece gli interpreti non poche volte dimenticano il problema ineludibile del “metodo”. Un discorso che non va mai dato per scontato altrimenti si cade nel diffuso vizio della “fuga semantica”, cioè della digressione che non ha mai fine.
Facciamo un semplice esempio. Se devo analizzare il Cenacolo di Leonardo e mi concentro sul mito moderno di Leonardo invece che sui committenti e sulle specificità del dipinto, e se tratto del contesto culturale e storico del periodo in senso solo generale ma senza raffrontarlo alle specificità uniche del dipinto stesso, allora inizierò a correrre nel solito “circolo chiuso” della tautologia, alimentando ancora una volta quella “retorica leonardiana” meno innovativa e pertinente dello stesso manierismo leonardesco. Così vale per la Tempesta. Se indago la Tempesta alla ricerca di sensi ermetici ma in realtà ho già una soluzione in tasca che prescinde dall’opera e si riduce ad un semplice schema riassuntivo del concetto di alchimia allora non sto leggendo il dipinto ma sto usando la Tempesta quale argomento per comunicare la mia cultura, la mia personalità o per altri più pratici fini. Se vogliamo “rispettare” l’oggetto dell’indagine dobbiamo noi stessi farci oggetto e lasciarci immergere dentro l’unico protagonista certo e assoluto: il dipinto stesso.
Tendere quindi a “leggere il dipinto con il dipinto stesso”. Partiamo quindi dall’unico dato certo del dipinto, insieme al magnetismo della donna, cioè il suo articolarsi in due parti, delimitate dal fulmine e dal fiume. Con questo sguardo abbiamo già un risultato di evidenziazione dato dal possibile parallelismo fra fulmine, in alto e nel mezzo, e fiume, anch’esso in posizione centrale e portante rispetto al racconto figurativo. Proviamo quindi ad analizzare il dipinto seguendo questa divisione in due scene per poi cercare percorsi di congiunzione. Iniziando dal protagonista maschile balza agli occhi l’impressione di un senso simbolico dei colori delle vesti. Tutto sembra allusivo, anche la postura della gamba sinistra e del braccio sinistro. La metà sinistra di Mercurio, destra per chi guarda, resta in ombra ed è flessa, mentre il lato destro, sinistra per chi guarda, a appare più luminoso e disteso, in perfetto chiasmo con la decorazione della parete retrostante che assomiglia molto ad un caduceo e che presenta, invece, il cerchio sinistro più scuro e il destro più chiaro. La dinamica cromatico dell’uomo sembra precisa secondo un alternanza ternaria e quaternaria. Il busto lascia il petto con il bianco della camicia e i lati con il vermiglio della mantella. La parte mediana vede le brache decorate con un reticolo di tre strisce vermiglie che ritagliano quattordici sezioni di color chiaro, più sporco però rispetto al bianco lucente della camicia. Le calze sono vermiglie la destra e chiara la sinistra. La luce sembra provenire dal sinistra ma la resa è innaturale in quanto la testa dell’uomo resta scura, assai brunita.
Il nostro “Mercurio” emerge quale uomo degli “incroci” e delle corrispondenze alternate. Tutto è doppio e chiaroscurale nel personaggio maschile comprese le sue braccia in quanto la destra è luminosa e regge un bastone perfettamente dritto e illuminato mentre la sinistra è piegata dietro e in ombra, e non mostra il bianco della manica. Il braccio sinistra quindi corrisponde nel colore alla gamba destra e viceversa, mentre la luce e l’ombra sono in opposizione incrociata. In una visione unitaria della dinamica cromatica della figura abbiamo i due colori complementari in uno stato di separazione in basso, in corrispondenza con le gambe, con il vermiglio in uno stato attivo e il color chiaro in ombra, mentre salendo troviamo uno status di intreccio fra i due elementi tramite l’incrocio di tre strisce verticali vermiglie con tre strisce orizzontali e il tutto è attraversato da pieghe a buffetto che sembrano mimare il segno delle fiamme. Salendo ancora ammiriamo il bianco lucente della camicia per poi notare l’alternanza ternaria fra mantella e camicia. Il tutto è chiuso da una testa scura sia nei capelli che nella pelle, a sua volta richiamante lo scuro delle scarpe. Geometricamente la figura poi tende al triangolo e lo include implicitamente. L’atteggiamento è calmo, nobile e concentrato. Il nostro Mercurio fa mostra di se in una posizione di riposo adatto ad una sosta prolungata.
Che cosa fa di preciso? Non è palese intenderlo. Sembra vigili ma non compie in realtà alcun atto determinato. La funzione di vigilanza è una istintiva suggestione derivante dalla detenzione dell’asta e dalla posizione di meditato riposo. Ma potrebbe trattarsi di un “automatismo interpretativo”. L’asta infatti, sia a livello pratico che quale simbolo, può assumere anche un ruolo misuratorio a livello di spazio e/o di tempo o in base ad una tavola di valori. Essendo Mercurio l’uomo dovrebbe annunziare qualcosa, ma anche sotto questo aspetto non abbiamo evidenze, oltre a considerare il fatto che l’aspetto di Hermes quale nunzio è un dettaglio non predominante nella ricchissima fenomenologia simbolica del nume. Quale Mercurio la figura maschile potrebbe ad esempio stare ad indicare un rapporto di scambio o un legame, o l’esigenza di misurare qualcosa, come ad esempio la profondità dello stagno scuro lì di fronte. E’ indubbio che siamo in presenza di un blasone e non di una figura storico/ritrattistica dati questi precisi connotati che intessono una rete di corrispondenze a cui non corrisponde un esplicita narrazione o una precisa segnalazione.
Quali altri elementi possono entrare in dialogo con Mercurio? Certamente la doppia colonna spezzata e il sottostante muretto rosso. A questo giungiamo confrontando l’analogo color bianco lucente del marmo rispetto alla camicia dell’uomo e il simile vermiglio del mattone a confronto con la calza della gamba destra. Altro elemento di raccordo è proprio la “duplicità” che accomuna Mercurio all’elemento di simbologia architettonica. Il tema della “colonna spezzata” è a sua volta un enigma tradizionale e di solito viene spiegato tramite i vangeli apocrifi quale segno della distruzione dell’epoca degli idoli in relazione all’Incarnazione del Figlio di Dio o alla sua entrata in Egitto in fuga da Erode. Nell’arte sacra viene associata infatti convenzionalmente al Natale o all’Epifania. A questa lettura viene incontro la presenza della cometa che giunge da sinistra. Sul senso possibile della cometa, indicazione preziosissima, anche per la datazione del dipinto, torneremo più avanti. La colonna di per se di solito viene intesa quale allegoria della forza, oppure, in senso anagogico, quale segnale che rinvia all’Esodo di Israele dall’Egitto. Il basamento marmoreo delle due colonne segue infine la direttrice dello sguardo di Mercurio. Siamo appena agli inizi ma già cogliamo tutta l’insospettabile ricchezza di sfumature e di scenario che emerge quasi spontaneamente unendo olisticamente un approccio letterale di illustrazione “fisica” ad uno sguardo iconologico cioè tendente a captare tutte le possibili dinamiche semantiche. Un primo risultato lo individuiamo nella conferma della “mercurialità” del protagonista maschile. Mercurio quindi di nome e di fatto! Una mercurialità che trova conferma nelle allusioni ignee della figura: il volto brunito, le pseudofiammelle delle brache, la torsione triangoleggiante.
Probabilmente la complementarietà dei colori delle vesti rimanda anche a sensi araldici, ma si tratta di colori abbastanza diffusi nei blasoni del periodo, per cui è difficile trovare corrispondenze. Potrebbe trattarsi di un patrizio veneto o veneziano impegnato diplomaticamente che ha fatto da tramite per il quadro presso la corte papale, oppure di Roberto Malatesta, ultima speranza per Venezia di avere un alleato nello snodo cruciale della Romagna. L’autosufficienza semantica della rete di relazioni interne ed esterne alla figura è così complessamente congegnata in unità che resta tale anche in assenza di risoluzione di un’identificazione storica. Alle spalle di Mercurio e più in alto troviamo,come sfondo alla figura maschile, un muro di un edificio diroccato con una decorazione precisa che corrisponde, come già accennato, ad un caduceo, cioè un asso verticale che si duplica in due volute speculari che qui terminano in due globi/cerchi, uno dei quali ad un attenta analisi, leggermente più scuro dell’altro. Continua la duplicità e la complementarietà cromatica: da Mercurio fino alla decorazione del muro passando per le colonne spezzate, anch’esse epifenomeno di una rovina. Accanto al lato destro del tacito caduceo intravediamo una lucertola o salamandra che sta fissa in aderenza del muro. Un animale simbolico, reso con toni scuri e opachi, che si interpone fra le colonne e il caduceo. L’allusività del sauro (c’è qualcosa di non allusivo in questo dipinto?) sembra intrattenere una silente conversazione con solo con il muro ma pure con le colonne e con Mercurio.
Potrebbe trattarsi di una tappa di un percorso semantico ermetico, oppure un accessorio dell’elemento “muro”. Assialmente corrisponde a Mercurio e si identifica con il muro. Difficile la decrittazione specifica del simbolo. Potrebbe essere un blasone araldico, oppure una citazione delle sacre Scritture (Proverbi), o l’espressione di un proverbio veneto oppure, infine, semplicemente una nota decorativa che drammatizza il senso dell’imminente tempesta data l’associazione della salamandra con l’umidità e il suo comparire con la rottura del tempo atmosferico. L’immobilità avvicina questo segno a Mercurio. Una lucertola e un Mercurio anomali in quanto colti in un senso di staticità che contrasta con la loro natura mobile, sebbene nella prima umida e nel secondo ignea. A naturale conclusione di un rapporto di consequenzialità ascendente incappiamo alla fine in un altro elemento anomalo e allusivo dato dal grande e svettante albero la cui chioma leggera e agitata mutua la proprio forma in modo assolutamente isomorfico dalla mezzaluna inclinata, tipica insegna dell’esercito turco e delle moschee.
Quest’ultima possibile “fase” per ora non può che restare un dato isolato e non comunicante, se non al livello “politico” dato dal rapporto semantico con l’edificio diroccato da cui si protende il muro sopradescritto. L’allegoria è apertissima: la cristianità è come un muro diroccato dietro al quale si agita minacciosa la potenza turca. Un'altra facile connessione complementare la possiamo evidenziare fra le chiome mosse dal vento e il cielo che minaccia tempesta. Ma questi dati appartengono alla lettura politica del dipinto, quindi non possono entrare in un approccio altro quale è questo che stiamo conducendo. Mercurio, colonne spezzate, salamandra sul muro, caduceo e albero a forma di falce di luna. Ecco un possibile percorso narrativo che ci ricorda la logica dei “rebus” e che potrebbe celare un codice ermetico.
Vediamo ora il lato destro della scena, oltre il fiume. Partiamo dalla donna enigmatica dallo sguardo rimproverante. E’ stranamente nuda e coperta sul capo e sulle spalle da una corta mantella bianca. Allatta al seno sinistro un infante, anch’esso nudo. Alle spalle della vegetazione scura e selvaggia. La figura è appoggiata su di un rado prato che cela appena delle poderose rocce rossicce. Abbiamo due possibili elementi di raccordo con la figura femminile. Uno in basso dato dalla particolare roccia da cui spunta da una parte un arbusto e dall’altra una radice che resta nell’aria, e l’altro in alto dato dall’uccello bianco che riposa sul rossiccio tetto. Il parallelismo è semplice e si regge a livello di colori, chiaro su rosso, e di senso di femminilità fra l’uccello e la donna, mentre il rapporto fra donna e roccia appare più sottile e criptato ma non sembra inesplicabile. La radice sta alla pietra come la donna sta al bambino. La radice infatti “tiene” la roccia/terra, la penetra, la domina, come la donna è la radice di vita per il bimbo e lo domina Paradossalmente possiamo invertire i termini accostando il bimbo alla radice che vive nella terra/roccia, come il bimbo vive avvolto fra le braccia della madre che lo allatta. L’uccello non sembra tanto un ibis ma una cicogna (nome anche di una famiglia patrizia veneziana) o un airone.
Se la donna attende con urgente esigenza una reazione in chi incrocia il suo sguardo, se sembra attendere un “suo tempo” risolutore, anche la cicogna parimenti sembra attendere, similmente calma ma pure inesorabile. Ecco perciò un'altra “rete” linguistica fata di possibili concatenazioni: roccia con radice, donna, cicogna, o viceversa dall’alto in basso. Ma l’uccello riposa su di un edificio che appare mostrare una ricchezza di indizi linguistici che non sembrano connettibili con la figura femminile. Proviamo quindi a cercare una continuità di percorso a partire ex novo proprio da questo curioso palazzo. Si tratta di un edificio complesso articolato in due strutture il cui corpo di destra sembra una porta monumentale la quale presenta quale elemento dominante sulla facciata uno stemma la cui effige mostra un carro con quattro ruote. E’ identico allo stemma della famiglia nobile padovana dei da Carrara. Il colore del carro e delle ruote è il vermiglio. La porta rappresenta lo sbocco del ponte che attraversa il fiume. L’intensità semantica della figura è particolarmente densa perché incrocia tre elementi che indicano il viaggio e il passaggio: la porta, il carro e il ponte. Il corpo di sinistra del duplice edificio reca una particolarità sul tetto che appare mezzo distrutto, per cui residua come un mezzo triangolo sorretto da due pali. Una duplicità che ricorda quella delle colonne spezzate. Quindi la parte di sinistra del palazzo/porta dialoga con le colonne spezzate e con l’altro edificio rovinato sul suo culmine, quello dove sosta la lucertola, mentre la parte di destra, la porta vera e propria, dialoga con il ponte e il fiume nell’opposizione simbolica acqua/fuoco, in quanto il carro è ha colore igneo ed è quaternario come il ponte. Un carro color fuoco può rinviare al tema del carro di Elìa, caro alla mistica come all’ermetismo, oppure, più semplicemente alludere ai quattro elementi. Siccome questo edificio simbolico è il primo edificio in bella vista sul suo lato scorriamo lo sguardo risalendo il fiume. Ne troviamo infatti un altro simile poco più oltre in quell’edificio con lo stemma del Leone di san Marco.
La loro similitudine si articola in quattro aspetti: mostrano sulla facciata uno stemma vermiglio, corrispondono a parallelepipedi quadrangolari, presentano un elemento triangolare, presentano una porta a volta. L’unica differenza è data dal fatto che il secondo palazzo concentra in se stesso l’elemento triangolare e la funzione di porta apparendo così compatto e più unitario. Probabilmente si potrebbe trattare anche di un esigenza di rappresentabilità poichè sarebbe risultato eccessivamente confuso e disarmonico se si fosse dipinto in maggior stretta specularità con il primo in quanto viene dipinto in lontananza, ma certamente ritroviamo i fattori geometrici del primo edificio, come se si trattasse di una variazione grammaticale del medesimo discorso, di una permutazione cabalistica all’interno di un processo trasformativo. Un elemento aggiuntivo di rilievo lo troviamo nella scala che va dall’edificio al fiume. Se poi consideriamo il palazzo del primo stemma nel suo complesso, inclusivo dell’edificio con il tetto mezzo distrutto, allora scopriamo un'altra corrispondenza con l’edificio con lo stemma del Leone di San Marco, in quanto anch’esso va visto in relazione con le vicine due grandi torri chiare, una delle quali è merlata come l’edificio con lo stemma dei Da Carrara. La funzione della porta, inclusa nel mezzo del primo doppio palazzo, appare ora duplicata e separata fra le due torri e il palazzo con il Leone.
Il rapporto appare evidente non solo ragionando a livello di scomposizione dell’insieme di partenza ma anche osservando la piena corrispondenza della dimensione e della collocazione del palazzo con il Leone a confronto con lo spazio della probabile porta interclusa fra le due grandi torri. Fra le due torri che formano la porta e il palazzo abbiano un area dove sembra indirizzarsi il fulmine che sfavilla in mezzo al cielo della scena. Che poi questi due complessi architettonici siano da considerare quali due tappe della medesima sequenza è circostanza che trova conferma non solo nella presenza di uno stemma e nella funzione di porta ma pure nel colore più brunito della fascia superiore, altro dato “anomalo” e nella corrispondenza fra la scala evidente del secondo palazzo e la scala allusa nelle pennellate marroncine che salgono dal portone marrone fino allo spazio fra le due finestre. Che poi la direzione di lettura ascendente e da destra a sinistra sia quella corretta ne troviamo conferma in tre segnali efficacissimi: la cometa, la direzionalità della cicogna e del fulmine.
Continuando questo incedere a mo’ di salmone troviamo, come in una terza tappa di un viaggio iniziatico e trasformativo, un altro edificio che emana un aura allusiva e simbolica. E’ dato da una facciata triangolare ampia che ricorda una chiesa dal tetto a capanna con vicino una torre/campanile alto e slanciato. La facciata triangolare è ricca di finestre e di arcate: otto sopra e cinque sotto per un totale di tredici aperture. Sembra che la materia dei primi palazzi quindi diventi più aerea e leggera. Anche i toni cerulei della torre/campanile rafforzano questa impressione alleggerendo la percezione della stessa, mentre la chiesa presenta una chiarificazione cromatica. Ma la chiesa mostra stranamente tre comignoli di differente altezza sul proprio tetto. Anche in questo edificio quindi la dimensione numerologica e geometrica si rivela ricca e non casuale nella sua precisa e studiata unicità. Se confrontiamo l’evoluzione dell’elemento triangolare e di quello quadrangolare nei tre complessi architettonici considerati ricaviamo l’impressione di una progressione trasformativa coerente e dotata di una propria logica interna. L’elemento triangolare, che in alchimia corrisponde al fuoco o al principio attivo indicato con la metafora dello “zolfo”, che nel primo edificio emerge quale semplice accenno nel tetto mezzo distrutto e nelle merlature, sembra crescere di importanza nel secondo edificio diventano un fattore caratterizzante interno alla facciata, nel timpano dell’entrata centrale, fino ad assumere un ruolo preponderante nella successiva chiesa.
Emerge un percorso parallelo dialetticamente correlato se osserviamo l’evoluzione del fattore quadrangolare. Da elemento strutturale e ossessivamente ritornante nelle ruote del carro dello stemma del palazzo di partenza, nel balcone che incrocia la facciata,nel muro del portone di raccordo e nelle merlature, assistiamo ad una sua scomposizione e riduzione di importanza nei tre edifici considerati fino alla sua “volatilizzazione” e “sottilizzazione” nel terzo “emblema” di quella chiesa che mi evoca Sant’Ambrogio di Milano (ma non abbiamo ancora elementi di significanza in merito).Nella Chiesa “a capanna” assistiamo quindi ad un inversione dialettica fra il triangolo e il quadrangolo, per cui il triangolo, segno igneo, cresce e si rafforza, inglobando l’elemento aria, mentre il quadrangolo, segno tellurico, si assottiglia e si “areifica”. Questo avviene anche tramite un processo di separazione fra le due dimensioni, prima mescolate. Questa simbolicizzante “fuga all’indietro” ci porta inesorabilemente alla sua meta: il fascinoso edificio cubico con la cupola orientale sulla propria cima. Qui siamo fortunati perché la simbolicità dell’edificio viene veicolata dalla precisione impressionante della propria identità storica: si tratta chiaramente del “Duomo della roccia” che si erge magnificamente, ora come allora, sulla spianata del Tempio a Gerusalemme. Non potevamo sperare un esito più nobile e suggestivo. Se la facciata con il Leone di san Marco e la Chiesa a capanna lasciano intendere allusioni ad edifici storici particolari, come il Tempio malatestiano di Rimini e Sant’Ambrogio di Milano, il terzo edificio sacro manifesta la certezza di un identificazione, quella gerosolimitana, che, a ritroso, conferma e illumina tutto il cammino di lettura simbolica condotto.
Il “Duomo della roccia” di Gerusalemme esprime il culmine di una quasi completa armonizzazione fra quadrato e triangolo a sua volta coronata dal sorgere, come sole dalla roccia, della cupola dal cubo del corpo dell’edificio. Questo “sorgere” richiama misticamente la resurrezione di Cristo dalla pietra del sepolcro mentre nel complesso abbiamo la percezione di una tensione convertitiva tendente all’unità fra cerchio, quadrato e triangolo, cioè fra mercurio, sale e zolfo. Non a caso notiamo, ad adeguato ingrandimento, numerose pennellate di colore ceruleo nella resa di questa forma,ancor di più di quanto già si nota nella resa della leggiadra e quasi incorporea precedente torre Il cielo sembra attraversare la materia del Tempio con dolce facilità. Il Tempio è terra celestiale, terra resa perfetta e quindi inclusiva anche delle proprietà del cielo. La pietra filosofale, appunto. Questa triplice visualizzazione corrisponde perfettamente sia al discorso mistico della Gerusalemme celeste, dove la croce si ripiega nel cubo e Dio si riposa definitivamente con la sua circolare corte dentro la città, sia all’immaginario alchemico che visualizza la “Pietra filosofale” nella sua maturità quale quadratura del cerchio e inquartatura del triangolo, come se il centro di tre sostanze coincidesse in unità. Il triangolo è infatti presente nelle due ali oblique e scure ai lati della parte superiore del cubo di base e viene ripreso potentemente dall’iscrizione in trasparenza della medesima precedente chiesa dentro il cubo stesso. Il cerchio è presente due volte nel mezzo dell’edificio, anche in forma più piccola e luminescente, sospeso sopra la cuspide del triangolo interno. Il pinnacolo della cupola, di vangelica memoria (….), incrocia idealmente con la retta orizzontale del tetto dell’edificio, in allegoria implicita della croce. La croce inscritta in cercio indica alchenicamente il salnitro quale,unione di sale, segno verticale nel cerchio, e di nitro, linea orizzontale nel cerchio. Anche la citazione templare, cioè al Tempio di Gerusalemme, e quindi il richiamo alluso alla “roccia”, cioè alla roccia del sacrificio di Abramo che secondo la tradizione giace sotto quella chiesa, pure luogo natale di Adamo, può leggersi quale rafforzata semanticità di sapore ermetico rinviando alla pietra filosofale che si cela dentro il perfezionamento della materia come la roccia di Abramo sotto il Tempio.
Se sovrapponiamo il concetto alchemico di “solve et coagula” con la convenzionale dottrina del quattro elementi, o umori, e con il concetto di “materia prima” da cui partire nel lavoro alchemico, possiamo rileggere tutta la sequenza al completo partendo ancor prima dalla considerazione del ponte. L’acqua attraversata dai quattro pali del sottile ponte di legno mostra un colore particolarmente inteso, quasi indaco e ceruleo, e questo contesto potrebbe quindi alludere al “lavaggio” dei quattro elementi (terra, aria, acqua e fuoco) allusi dai quattro pali del ponte. Dalla prima fase di purificazione si passa ad una possibile seconda fase accennata dal carro dall’igneo colore le cui quattro ruote, in equilibrata postura e in alta posizione, potrebbero segnalare la rettificazione e armonizzazione dei quattro elementi, Dopo il “solve” una tappa di “coagula”! Ecco spiegata l’ossessione quaternaria del primo edificio, la cui porta in penombra, che non si capisce se aperta o chiusa, sembra come incisa da un ponte che ricorda la lama di un coltello. Qui la concordanza di immaginari può richiamare il tema alchemico della penetrazione o scorticazione della materia. Le “aperture” infatti iniziano ora a moltiplicarsi e reiterarsi: la sottile linea scura del secondo portone, il tetto triangolare mezzo aperto, allusivo magari del fuoco “invisibile” o filosofico, le finestre, le merlature, fino al varco fra i torrioni e la scala verso la facciata del Leone. Abbiamo visto poi quanto queste “aperture” si moltiplichino, crescendo verso il basso, nella chiesa triangolare dove la materia si estremizza in due polarità: un fuoco arioso, la facciata, e una “terra”, la torre, lievitante ma ermeticamente chiusa, senza finestre. Coincidentia oppositorum. Il tre dei comignoli e della forma a “capanna”, verso l’altro e verso il basso, potrebbe essere giustificato da un allusione all’incrocio fra triangolo ascendente e triangolo discendente,cioè il segno del sigillo di Davide,utilizzato in alchimia per indicare l’equilibrio entro il quale emerge la pietra filosofale, glorificata dal e nel Tempio. Quattro quindi le tappe prima della gloria aurea finale: solve et coagula e ancora: solve et coagula. Precisata questa ipotesi di lettura proviamo ora a rileggere anche il primo percorso che abbiamo pretracciato da Mercurio fino all’albero con la forma di falce di luna al fine di verificare se può riscontrarsi un analoga continuità organica all’interno di un processo trasformativo che potrebbe essere incrociato con il linguaggio figurato dell’alchimia, per poi addentrarci nel tema della donna, del fiume e dei segni aerei e per concludere infine con l’illustrare l’ultimo aspetto delle concordanze fra lato sinistro e lato destro della rappresentazione con l’obbiettivo del riportare ad unità semantica l’opera.
L’uomo rivela una precisa e accurata rete di indicazioni tramite le sue vesti e i colori. Notiamo inoltre un omogeneità cromatica fra il bruno della testa e il bruno dei piedi in posizione triangolare. Cerchio in alto, la testa. e triangolo in basso, agli antipodi, come due polarità poste nel medesimo habitat e destinate alla fine a congiungersi. E di che habitat si tratti ce lo dice il gioco dei colori e delle trame, cioè un habitat igneo dove tutto concorre ad esprimere il senso di un fuoco delicato ma tenace che “cuoce” due sostanze in dialettica segnalate dagli intrecci, dai chiasmi e dalle separazioni fra i due colori fondamentali. Conferma eloquente di questa lettura troviamo negli altrimenti assurdi filamenti penduli, simili anche a gocce stillanti e resinose, che scendono dal bordo destro, per chi guarda, della mantellina vermiglia dell’uomo. Elementi del tutto assenti nell’identico bordo sinistro e che segnalano un processo trasformativo in atto. L’impressione generale è quella di un equilibrio dinamico perfetto, vivo, fra umido e secco, passività e attività, ascensione e discensione, dualità e ternarietà, come se i principi e gli elementi base dell’opera alchemica stessero preparandosi attendendo finché siano maturi per progredire con decisione nelle fasi successive.
Lo stesso reticolato igneo 3x3 delle brache, che delimita 14 zone di colore chiaro, presenta una numerologia basata sul 3, sul quattro, e sul sette che può essere vista sia misticamente che ermeticamente. Per ragionare sulla “funzione” del nostro Mercurio, che “cuoce nel suo brodo”, fisso, fermo e regalmente calmo, nella sua ricca duplicità e processualità, non possiamo non considerare la sua perfetta e lucida asta inclinata e la direzione dello sguardo. Lo sguardo di Mercurio appare misterioso in quanto si direziona verso il volto della donna ma non sembra rivolgersi a lei; appare distratto, sovrapensiero, anche se concentrato e consapevole. Il suo sguardo sembra “oltrepassare” la donna che guarda. I due volti e le due teste possono relazionarsi in dialettica opposta: quello di Mercurio scoperto e scuro, quello della donna chiaro e velato. I colori di Mercurio richiamano quelli dell’Amato nel Cantico dei cantici con le chiome ricce come palma e nere come il corvo e con il vermiglio e il bianco quali colori emblematici e distintivi. Non a caso lo stesso Cantico dei cantici diventa un punto di riferimento per l’immaginario alchemico tramite quel celebre testo alchemico, attribuito a San Tommaso d’Aquino, che abbiamo con l’Aurora consurgens. Anche la Donna mostra un possibile riferimento al Cantico dei cantici nelle tracce purpuree della sua chioma. L’altrettanto misteriosa e lunga asta che regge appare nella sua cima sovrapporsi a foglie curiosamente e innaturalmente luminescenti, come dorate. Questo segno di perfezione ignea trasformativa ci ricorda gli alberi vicini al Tempio, nella parte alta dello stesso lato della scena, probabile allusione alla meta gloriosa dell’Opera.
A livello archetipico l’asta richiama il fulmine, è un fulmine “rallentato”, congelato. Non solo, l’asta richiama anche la misurazione quale operazione sacra e apocalittica, come nella scena nell’Apocalisse dell’angelo misuratore e di Giovanni stesso che riceve la “canna” d’oro per misurare e dividere il Tempio dall’atrio dei gentili. Non è quindi un caso che l’asta sia così perfettamente dritta. Si può trattare di un regolo, altra immagine cara all’arte alchemica, o di un misuratore della profondità dell’acqua, o dello stagno nero, oppure delle stesse colonne, magari in vista di una ricostruzione. Un Mercurio architetto o pescatore; più che guardiano un vigilante, recante un bastone trasformativo quindi, commutatorio, come lo è quello di Mosè e di Hermes stesso. La direzione dello sguardo è parallela e vicina rispetto alla base marmorea delle due colonne la quale a sua volta punta verso il petto della Donna. Se ritorniamo sul rapporto di corrispondenza fra le colonne e Mercurio notiamo ora che una colonna, quella più piccola, è in ombra, più scura, e questo innaturalmente perché risulta invece posta verso il fulmine che dovrebbe illuminarla. Colonne chiaroscurali, come il gioco dialettico dei due colori nelle vesti di Mercurio. Colonne che, insieme con il loro basamento, sembrano un tau rovesciato e formano una croce con il ponte e con il Tempio. Anche qui abbiamo una corrispondenza con il reticolo delle brache di Mercurio.
Un'altra duplicità della rovina è data dalla fatiscenza del muretto rossiccio a fronte della nettezza del bianco basamento, lucente come la camicia di Mercurio. Le colonne quindi possono riassumersi in connessione con Mercurio quale ribaltata prosecuzione del medesimo meccanismo trasmutatorio. Se il vermiglio domina sul Mercurio maschio, possibile allusione al cinabro e alla testa di corvo o di morto nel capo del nostro amico, nella tappa delle colonne è il bianco, un bianco “decapitato”, che domina su di un rosso in rovina, in “sbiancamento”. Ebbene queste dinamiche possono trovare piena corrispondenza nei temi dell’immaginario alchemico quali lo “sbiancamento”, la “decapitazione”, l’inversione del fuoco verso il basso, cioè l’accensione del fuoco filosofico, antinaturale. Le colonne con il basamento infatti sembrano quasi “schiacciare” i mattoni sottostanti, sbriciolandoli. La rovina si compone di quattro elementi, come i sostegni del ponte con cui incrocia: un segnale verso il Tempio. La duplicità non mai del tutto equilibrata ma sempre colta in fase di dinamica mutazione sembra trovare uno status di superiore evoluzione ed equilibrio nella terza tappa simbolicizzata dal muro con la salamandra, o lucertola, e la curiosa decorazione dipinta sopra. Il muro è verdolino, similmente alla vegetazione, e la decorazione mostra un Y, tipo caduceo, con due sfere quasi identiche, in quanto quella di destra è leggermente consumata, come una luna in eclisse. Se leggiamo bene il simbolo ne evidenziamo il triangolo rovesciato che delimita nel mezzo e le due fasce chiare orizzontali. Il primo schema corrisponde … il secondo…
L’asta di Mercurio tange la luna quasi piena disegnata allusivamente dai due alberi del fondo. L’albero di destra mima una falce di luna dimidiale che ribalta verso sinistra il movimento dell’arco di destra della decorazione del muro, mentre se visto insieme all’altro albero mima una falce di luna quasi conclusa, tendente al pieno. L’Y con vicina la salamandra, segno di umidità, può corrispondere all’emblema della fontana mercuriale, mentre l’albero della luna è segno connesso alla stessa fontana, oppure a sua volta visualizzazione ermetica quale unione di sole e di luna, se lo contempliamo in sinergia con la solarità del Duomo della roccia. Sole e Luna ermetici stanno sorgendo per le nozze regali. L’asta e la salamandra indicano la direzione di sviluppo del processo trasformativo. L’"umido" presente in Mercurio, nello stagno nero e nella vegetazione, si dissecca nell’immagine della lucertola fissa e nel muro sbiadito. Anche questo processo ermetico per figuras presenta, come quello “edificale” della sponda destra del fiume, un alternanza fra “solve” e fra “coagula. Ci resta ora da sottolineare i rapporti fra i due lati della scena e da descrivere il tema del fiume e i segni “aerei” per verificare se “tutto si tiene” e se sia possibile una visione simbolica unitaria. I due lati della rappresentazione presentano numerosi nessi di corrispondenza o relazione.
In primo luogo abbiamo già visto come i due protagonisti mostrino elementi complementari e invertiti in merito alla simbolicità dei colori utilizzati. In Mercurio domina il vermiglio e un bianco lucente prende il petto della figura, mentre nella misteriosa Donna è al contrario il “bianco” a dominare mentre il vermiglio/porpora compare quale accenno nelle chiome che si intravedono. Lo sguardo di Mercurio conduce verso la Donna, mentre il piede destro della Donna conduce verso l’edificio su cui poggiamo le colonne spezzate. Entrambe le figure sono divise da un enigmatico stagno nero a loro vicino, ed entrambe sono immerse nel verde; la Donna compare con un albero e degli arbusti a lei vicini e Mercurio anch’esso giace appena davanti ad altri arbusti e con un muro verdolino di sfondo. Il dialogo fra i due non può certo ridursi ad un dialogo che risponde a funzioni/ruoli naturali o discorsivi ma deve riportarsi a ruoli allegorici ed emblematici. Se analizziamo più in profondità il dipinto ci accorgiamo di altri sottili “fili” che intessono relazioni fra le due metà. Il tetto triangolare spezzato ha lo spiovente esterno la cui linea conduce al ventre di Mercurio, mentre il Tempio alla fine della riva destra, per chi guarda, appare vicino all’albero “lunare” che svetta sopra Mercurio.
Abbiamo accennato già inoltre al doppio chiasmo che incrocia tutto lo spazio del dipinto fra i due edifici rovinati e le due zone vegetative. Abbiamo poi due fattori di intenso scambio narrativo fra le due “sponde” della scena da individuarsi nel ponte con i suoi quattro piloni e nel mattone che chiude l’acqua del fiume davanti ai due protagonisti. Se il ponte indirizza univocamente verso destra assumendo la forma di un aculeo che penetra la porta scura, alta e stretta del “palazzo del carro”, a sua volta dialoga con il tempio e con le colonne disegnando un invisibile croce. La risultante è una croce greca attraversata da una croce di sant’Andrea a formare una stella ad otto punte. Altra concordanza fra l’immaginario mistico con quello alchemico. Il mattone, dettaglio apparentemente inutile, svolge invece un ruolo di narrazione simbolicizzante fondamentale in quanto divide e connette il tema del fiume con quello dei due personaggi ed entrambi con l’emblema dello stagno scuro. Se infatti Mercurio volesse avvicinarsi alla Donna dovrebbe passare sopra al mattone e viceversa si è detto come la linea della pianta del piede destro della Donna indichi il mattone stesso. Questo mattone chiude il fiume strozzandolo in un sottile rigagnolo che forma la densa pozza sottostante, come fosse il risultato di un setaccio, di un processo di filtraggio di scorie, frutto di una voluta decantazione.
Che vi sia connessione fra il fiume soprastante e lo stagno inferiore è dimostrato pittoricamente dalle piccole tracce di schiuma che sono tratteggiate nello stagno stesso, similmente alla più evidente schiuma che domina il tratto di mezzo del fiume, quello confinante con la “chiusa” del mattone. Questo elemento, così umile e silente, sembra invece porsi al centro dei processi trasformativi fra alto e basso e destra e sinistra della rappresentazione quale sua chiave di volta iniziatica. Questo si apprezza maggiormente se consideriamo l’intero fiume quale processo trasformativo discendente. La prima parte del fiume manifesta un colore intenso e particolare, fra l’indaco e il ceruleo. Il ponte attraversa questa zona del fiume e disegna la sua ombra sul fiume stesso. Ad un certo punto l’acqua del fiume diventa, oltre l’ombra del ponte, improvvisamente chiara e azzurrina. Certamente questo accade in quanto il fiume viene illuminato dal bagliore del superiore fulmine. Ma si rivela del tutto innaturale che il chiarore del fulmine illumini e chiarifichi solo una parte del fiume e non l’altra. Ma c’è di più: la parte chiara del fiume mostra nel mezzo un doppio vortice dove l’acqua schiuma e solleva residui di sabbiosa terra per poi sgocciolare nel laghetto di pece finale. Una non poca trasformazione in breve tratto!
Se vogliamo leggere ermeticamente il tutto non risulta difficile. Il primo colore, così intenso e cupo, può rinviare all’antimonio che dilava i quattro elementi sintetizzati dai quattro pali del ponte che, non a caso, “sottilizzandosi” esprime la purificazione ed unificazione della “terra filosofica”che diventa come una punta di lama, spigolosa e tagliente come il sale. Il doppio vortice orizzontale mescola gli elementi e indica il “caos dei filosofi” dove terra ( le impurità sabbiose), aria (nella schiuma), fuoco (la luce del fulmine), e acqua appaiono mescolate e confuse. Solo il linguaggio alchemico può risolvere l’ambiguità e anomalia di questo fiume che appare veramente ambiguo e “doppio”. Anche il fiume quindi può intendersi quale percorso mercuriale dove il mercurio “precipita” fino alla fase di “putrefactio” emblemizzata nel denso e fermo stagno di pece (citazione di Ariosto sul mercurio che precipita).
Proviamo ora a considerare tutti i segni aerei nel loro complesso e in relazione al resto. Abbiamo: la cicogna, la cometa e il fulmine. Che sia una cicogna lo indica il colore bianco e il suo calmo sostare sul tetto. Più difficile sostenere che si un ibis a meno di non soggiacere passivamente all’ “automatismo pseudoermeneutico” del tipo: Mercurio/Ibis o Iside/ibis. Più ragionevole la tesi che sia una cigogna, anche in considerazione di un possibile rapporto di corrispondenza simmetrica con la donna che allatta in atteggiamento di attesa. Che lastra sia una cometa e non una normale stella non mi sembra sia necessario dimostrarlo ma penso sia invece opportuno rinviare all’oculista chi sostiene altro. Un punto di luce bianca con una scia dorata multipla cosa può altro essere? Segno apocalittico e rivelativo, la cometa drammatizza la scena ma potrebbe conferirle invece al contrario un senso di maggiore speranza se connessa più semplicemente con il Natale di Cristo e, magari, con qualche evento storico positivo per Venezia accaduto in prossimità del Natale. Non vedo altre soluzioni in quanto non sono documentate stelle comete dopo il 1476 e prima del 1532, anche se l’assenza di documenti, nostro limite, non impedisce che possa esserci stato un analogo accadimento storico.