Ricordo benissimo la mia prima volta al Pistoia Blues. Nel 1988 avevo diciassette anni, la patente era ancora un sogno, e la città del festival era a dodici chilometri di autostrada da casa mia. Serviva un passaggio in macchina, e così nel tardo pomeriggio un mio amico e collega DJ (era l’epoca in cui c’era una radio privata ad ogni angolo di strada) passò a prendermi per accompagnarmi in questo Bengodi della musica. Era un’edizione stratosferica, e all’epoca il festival, che si chiamava Bluesin, non sgarrava sulla purezza di genere. Al massimo si poteva lambire il confine del soul, e dell’R&B, ma più in là non si andava. E allora via con Johnny Winter, Otis Rush, John Lee Hooker, Lousiana Red, Rufus Thomas, Stevie Ray Vaughan, tanto per citare i primi nomi che mi vengono a memoria, tutti presenti in quello stesso anno.
Ormai la patente l’ho presa da un po’. Di anni, da quel luglio caliente, ne sono passati ventisei, e nonostante il global warming, il festival 2014 è stato all’insegna del fresco e del rischio pioggia. L’entusiasmo di chi ha inventato la kermesse è sempre lo stesso, lo spirito purista non c’è più. Questo fa storcere la bocca a qualcuno, ma io, se a dieci minuti da casa in otto giorni trovo sul palco Mark Lanegan, Robert Plant, Morcheeba, Lee Scratch Perry, Bombino, Jack Johnson, Lumineers, Suzanne Vega, Joan As Police Woman e Arctic Monkeys, tutto posso fare fuorché lamentarmi. Anzi, questa edizione me la sono vissuta integralmente (lavorando) salvo l’ultima serata, per via di un concerto segreto di Glen Hansard.
Anche se i byte del web sono infiniti (in senso lato) non posso dilungarmi nella cronaca dettagliata di tutti concerti, e allora ne scelgo tre che si sono tenuti nelle prime quattro giornate e che sono abbastanza diversi fra loro per poter dare un’idea dell’eclettismo e della qualità generale.
L’apertura era affidata a un Mark Lanegan quasi unplugged al teatro Manzoni, una location alternativa rispetto alla splendida piazza Duomo, in cui in contemporanea si esibivano i Negramaro che, con tutto il rispetto, non sono pane per i miei denti. Accompagnato soltanto dalla chitarra elettrica di Jeff Fielder, l’ex cantante degli Screaming Trees ha portato sul palco, oltre a un’aria mite degna di un topo di biblioteca (non fosse per la geografia di tatuaggi e il passato turbolento), una versione intima del proprio canzoniere, diviso tra pezzi originali e cover, un po’ come fa da tempo anche su disco, alternando i lavori della Lanegan Band a quelli dedicati all’esecuzione di pezzi altrui, fino alle mille collaborazioni che lo hanno visto protagonista negli ultimi due decenni. Anche a Pistoia è passato da standard come “Autumn Leaves” a citazioni colte come “Mack the knife”, da ballate irresistibili come “Don’t forget me” a canzoni più ruvide come “Gravedigger song”, tratta dall’ultimo disco in studio con il gruppo, “Blues Funeral”. E’ stato un concerto breve, come da aspettative, e curiosamente Lanegan subito dopo ha “doppiato” il suo tempo di permanenza a teatro mettendosi tranquillo dietro un tavolino a firmare autografi e posare per gli immancabili selfie per quasi un’ora. A un certo punto, ripensando agli Screaming Trees, ai Nirvana e a Seattle, ho quasi sperato che desse in escandescenza e maltrattasse qualche fan. Non quando è toccato a me, naturalmente.
La serata seguente è stata la volta di Robert Plant. Il cantante dei Led Zeppelin, che naturalmente non esistono più, si è appena affacciato alla soglia dei settanta, e nonostante questo conserva una voce ancora più che dignitosa, capace di arrampicarsi nei momenti più in salita di “Babe I’m gonna leave you” o di spingere accompagnando il riff di “Whole lotta love”, tanto per citare un paio di classici della band messi accanto, tra gli altri, a “Rock and roll”, “Black Dog” e “Going to California”. C’è stato tempo anche per tre canzoni che finiranno nel disco in uscita all’inizio di settembre, e soprattutto per la ricerca di sonorità che andassero oltre l’hard rock blues che un po’ tutti si aspettano quando si morde un frutto caduto dall’albero dei Led Zep. Da questo punto di vista Plant rischia più di Jimmy Page, probabilmente: stavolta con i Sensational Space Shifters si sposta continuamente dal folk al blues al rock, filtrando tutto attraverso arrangiamenti che sfruttano strumenti della tradizione africana, che in qualche modo caratterizzano questa fase della sua carriera con sonorità inconsuete. Non tutti alla fine erano entusiasti, ma alla minoranza poco convinta mi verrebbe da dire che di Robert Plant va apprezzato il coraggio con cui va oltre l’archeologia zeppeliniana, anche al netto dei risultati, che in questo caso (e non sempre in passato) a me sembrano egregi.
Dopo la consultazione di una pagina dell’enciclopedia del rock, bisogna trovare anche il tempo per divertirsi, saltellare e mandare a quel paese l’inizio di luglio più freddo dall’era glaciale in qua. L’occasione è stata offerta dai Morcheeba, arrivati nella quarta serata, quella in cui mezza Italia tifava l’Argentina e l’altra mezza gufava la Germania. Tranne noi che eravamo in piazza. E non dev’essere un caso che il concerto sia cominciato con quasi un’ora di ritardo: si narra che la band britannica fosse dietro le quinte davanti a uno schermo, aspettando il gol di Messi che, come si sa, non è mai arrivato. Ad ogni modo quando Skye Edwards si è presentata al nostro cospetto, qualsiasi lamentela per l’orario sballato si è sublimata nel nulla. Avvolta in un vestito ricoperto di piume bianche (“Vi piace? L’ho fatto da sola”) l’elegante vocalist ha guidato il resto del gruppo in un’esibizione divertentissima e sempre pronta a solleticare il desiderio dei fan. D’altra parte l’impresa viene più facile quando disponi di tormentoni come “The sea”, “Rome wasn’t built in a day”, “Blindfold”, “Part of the process” o “Overview”, o torni indietro fino a “Trigger Hippie”, o fai cantare il pubblico (“Siete molto meglio dei francesi di ieri!”) su “Gimme your love”.
Che poi quando Skye Edwards ti canta “Gimme your love”, tu obbedisci e basta.