“La notte mi siede attorno. Che silenzio. Riesco a sentirmi. Mi copro le orecchie con le mani e sento battere il cuore. Che silenzio. Sono io? Sto parlando o no? Come faccio a saperlo? Come faccio a saperle queste cose? Nessuno me le ha mai dette. Ho bisogno che mi si dicano le cose. Sembro vecchia. Sono vecchia? Nessuno me lo dice. Devo trovare qualcuno che queste cose me le dica”.
Queste cose ce le dice Harold Pinter in Silenzio, pièce breve, poco più di mezz’ora, ma dalla stesura lunga, a detta dell’autore “a causa della sua struttura piuttosto difficile”. Le dice a Helen, il personaggio femminile di un terzetto, formato anche da Rumsey e Bates, un terzetto che non dialoga, non partecipa a un intreccio, ma coabita sul palcoscenico e nell’inferno misterioso della vita pieno di solitudine, memorie che fuggono, impossibilità di scambio con gli altri, se non a frammenti situati in un tempo vago. Helen ha vent’anni e s’interroga sulla propria vetustà: “Non sono mai sicura se ciò che ricordo è di oggi, di ieri o di tanto tempo fa”. Rumsey è un quarantenne, Bates un trentacinquenne. Gli attori in scena sono molto più grandi, ed è giusto così, se fossero giovani sarebbe uguale, se fossero decrepiti andrebbe bene lo stesso: questo Pinter è proprio svincolato dalla contigenza.
“Silence si può considerare una rarità perché è inedito e quasi mai rappresentato - spiega Dario Marconcini che l’ha messo in scena al Teatro Francesco di Bartolo di Buti (Pisa) con se stesso nei panni di Bates, Emanuele Carucci Viterbi in quelli di Rumsey mentre Giovanna Daddi è Helen -.Qui i temi della memoria, della perdita della memoria, dell’amore e dell’assenza di amore, della solitudine, sono affrontati dai tre personaggi del dramma, ognuno chiuso in un proprio spazio, uniti solo dal paesaggio che li circonda e anche se hanno brevi incontri, essi sono in forma di epifania, evocati dai loro ricordi. Il flusso della memoria nel quale sono quasi perduti i tre, ma che è quello che li mantiene in vita, riaffiora nella loro mente pur confondendosi, così mentre il ricordo scolora e sbiadisce, le parole che dapprima con urgenza erano affiorate sulle loro labbra si riducono a poco a poco a una litania che viene ripetuta sempre più lontana, inutile e vuota e un cappio avvolge la loro mente impedendo loro di andare avanti, quasi soffocandoli, portandoli infine sull’orlo dell’afasia e del silenzio”. “Quando corro… quando corro… quando corro… sull’erba…” ripete Helen. “Fluttua… sotto di me - ripete Rumsey -. Lei fluttua… sotto di me”. “Quando corro…” ripete Helen. “Io ho avuto tutto - ripete Bates -. Ho tutto. Le ho detto”.
Sempre seduti, Helen su uno sgabello, dal quale mostra gambe slanciatissime, timide quando è sopraffatta dall’assurdo e dal tragico, seduttive quando si rianima, “ma sono ancora abbastanza carina, occhi belli, bella pelle”, e, su due seggiole, Bates, in abbigliamento anonimo, e Rumsey, con eleganti stivali inglesi da cavaliere protesi verso il pubblico, un proclama di censo e atteggiamento. Tre protagonisti, tre monologhi che di rado paiono una conversazione: sullo sfondo tre finestre che affacciano su una campagna invernale, di alberi spogli. Marconcini era impensierito da un Pinter ancor meno trattabile del solito, denso di significati e dalla costruzione complicata. Impensierito e attratto. Abituato ai lanci nell’ignoto, nella ricerca, nell’apparentemente scoraggiante, anche grazie alla fitta frequentazione di due cineasti elitari come Jean-Marie Straub e Danièle Huillet, è riuscito a volgere a proprio favore l’assenza di una “storia”, a catturare l’essenza delle parole e porgerle allo spettatore che invece di smarrirsi si identifica con i protagonisti che lo proiettano verso l’assoluto.
Lo affiancano nell’impresa due sue vecchie conoscenze, con lui molto applaudite: la moglie Giovanna Daddi ed Emanuele Carucci Viterbi, giudicato esaltante. La Daddi, anche lei militante da una vita nel teatro e nel cinema “scomodi”, è capace all’occorrenza di puntate assai mondane. Fu lei a ritirare il Leone speciale per l’insieme dell’opera, assegnato a Straub e Huillet dalla giuria presieduta dalla classica eppure sperimentale Catherine Deneuve. Indossava un abito di Marras, quel giorno sul tappeto rosso, la Daddi, e la seconda regina d’Inghilterra Helen Mirren le chiese di quale stilista fosse. Confessiamolo, pur fatue, sono soddisfazioni.