Il giorno che Angela nacque, suo padre piantò un seme di Fico Domestico. Fece un buco con la zappa proprio accanto a un Fico Selvatico che stava crescendo nella loro terra. Era primavera inoltrata, gli uccelli popolavano i rami cinguettando alla vita e i fiori dipingevano i prati di giallo, rosso, azzurro e viola con i petali distesi verso i raggi del sole. Il Fico Selvatico aveva appena compiuto un anno ed era carico di germogli sui suoi rami ancora gracili e tremolanti. Nel campo c’erano anche parecchie piante d’ulivo e una splendida vigna d’uva bianca disposta in filari alti e regolari. L’asinello grigio ragliava contento e si preparava a portare un canestro di frutta sulla groppa.
Passarono gli anni prima che i due alberi diventassero adulti e fossero in grado di produrre frutti. Però quella parte di giardino era spesso frequentata dalla bambina. Il padre, infatti, aveva costruito un’altalena legandola ai rami più resistenti delle piante e la piccola giocava dondolandosi su e giù sotto le foglie di Fico. Si era abituata a guardare attraverso quel fogliame ruvido, a osservare il sole tra le foglie nell’ora verticale, a godere del tramonto mentre il vento sfiorava le gote rosse per lo sforzo della spinta. Le piaceva la corteccia grigia, accarezzare il corpo liscio dell’albero, disegnare sopra di esso il numero dei suoi anni, stando attenta a non nuocere alla pianta.
Quando gli alberelli crebbero, l’altalena venne spostata sul Fico Domestico mentre sul Fico Selvatico fu fissato una specie di trapezio come quelli del circo. Angela adorava dondolare sul trapezio a testa in giù e guardare il mondo al contrario. Vedeva la chioma verde delle piante, i tronchi che si facevano sempre più robusti, i rami sempre più forti e resistenti. Rimaneva con le gambe allacciate, sospesa in aria, sognante e pensierosa. Ogni tanto si metteva di nuovo diritta e sceglieva di dondolare sull’altra altalena. Ora che era più grande poteva lanciarsi con forza verso l’alto, sfiorare le foglie con le mani, accarezzarle o spostarle per guardare oltre. Spesso al contatto con quelle superfici rugose si ritraeva infastidita, a volte strappava i frutti acerbi per impiastricciarsi le dita con il latte bianco che colava. Talvolta tagliava qualche foglia, la sminuzzava dentro a un secchiello e fingeva di preparare un minestrone nella sua cucina immaginaria. Girava il liquido dentro il recipiente con un mestolo ricavato da un rametto di legno. A fine cottura condiva il brodo con il latte bianco dei fichi o delle foglie.
Per anni gli alberi non produssero frutti finché un giorno non comparve un fico nero, grande, morbido e pieno d’aperture verticali sulla pelle. Il padre di Angela lo staccò dal ramo e glielo fece assaggiare: era gonfio e colmo di filamenti rossi tenerissimi. Angela lo assaporò con gusto e così fece con gli altri frutti maturi che staccava direttamente dai rami. Osservò che la pianta più giovane produceva frutti mentre, nella pianta più grande, i fichi rimanevano sempre acerbi. Suo padre le spiegò che il Fico Domestico, detto anche Ficus Carica, era una femmina, quindi in grado di fruttificare. Mentre il Fico Selvatico, detto anche Ficus Caprificus, era un maschio e, in quanto tale, capace di produrre il polline per fecondare la femmina. Per questo li aveva piantati uno accanto all’altro: senza il maschio nemmeno la femmina avrebbe prodotto frutti succosi. La cosa simpatica è che l’impollinazione della femmina era possibile solo grazie a un minuscolo insetto. Una vespetta, piccola come un moscerino, prendeva il polline dal Fico maschio e lo portava al Fico femmina.
Quando Angela conobbe questa storia, prese una lente d’ingrandimento per osservare gli insetti ronzanti intorno ai Fichi: era curiosa di vedere la vespetta blastofaga del polline. La notte la sognava con le antenne lunghissime, il vestito giallo e nero, il colletto rosso e la coda appuntita color azzurrino. Era graziosa e amabile e portava un sacchetto rosa colmo di polline. Chissà poi cos’era il polline: forse quei granellini gialli di cui era piena la campagna a primavera. Aveva anche battezzato l’animaletto con il nome di Sonia. Talvolta la cercava tra i lobi delle foglie quando dondolava a testa in giù nell’altalena e faceva lunghissime chiacchierate. Si era così invaghita di Sonia che, per il suo settimo compleanno, il padre le costruì la vespetta con un pezzo di legno. La dipinse con i colori immaginari impressi nella mente della bambina e la legò su un ramo accanto all’altalena. Angela fu felicissima di possedere la vespetta, la immaginava con la sacca piena di minuscoli fichi che si potevano tramutare in desideri. Angela realizzò che, ogni volta che avrebbe voluto esprimere un desiderio, poteva chiedere alla vespetta. Al solo pensiero di tale scoperta si sentì straordinariamente ricca e piena di gioia. Angela sognava una fattoria piena di animali e desiderò una nuova bestiola ogni volta che sul Fico fosse maturato il primo frutto della stagione.
Pensate con quale trepidazione la bimba si aspettasse la maturazione dei fichi. Restava in attesa per giorni e settimane, da quando vedeva le prime infiorescenze, a quando comparivano i frutti acerbi, fino a che un frutto non cominciava a colorarsi di scuro. Erano prospettive gioiose, piene di giochi, di vocalizzi che sfidavano i canti degli uccelli, di minestroni di verdure per nutrire il primo coniglietto, poi la volpina, la capretta, il gattino, il cavallino… Chissà perché gli animali giungevano davvero ogni volta che il primo succulento fico della stagione era pronto. Quando giunse il cavallo si costruì la stalla e Angela ebbe il compito di nutrire l’animale. Nel frattempo le piante di Fico sono diventate adulte, i rami si sono avvicinati, le foglie si sono mischiate, le chiome si sono abbracciate fino a creare una grande ombra. Anche oggi, dopo una bella cavalcata, Angela si riposa sempre sotto l’abbraccio dei Fichi, si stende su un letto di foglie e si assopisce al fresco della loro ombra materna.
Quando nel Capro va la vespetta
e coglie il polline in tutta fretta
nel Fico vero poi nasce un fiore
come germoglio del primo amore.
Se la Natura poi fa il suo corso
dopo che il giusto tempo è trascorso
dal fiore nasce un frutto succoso
morbido, gonfio, fresco e polposo.