Come un comodo grembo materno, le case scavate nel tufo calcareo della Cappadocia cullano e proteggono i personaggi del nuovo film di Nuri Bilge Ceylan, Winter Sleep, vincitore della Palma d’Oro al Festival di Cannes 2014.
Il regista torna nella terra del Sorgere del sole dopo C’era una volta in Anatolia, del 2011, ma il sole non illumina la scena nemmeno questa volta: la neve e la foschia immergono il paesaggio in una coltre stanca e oziosa. Aydin è il proprietario di un piccolo albergo solitario, l'Othello, ricavato nella roccia ocra; ma ancor prima è un attore di teatro, ormai anziano, ritiratosi entro quelle mura riposanti, in compagnia di sua sorella Necla da poco separatasi e della sua giovane bellissima moglie Nihal.
Le immagini accompagnano il ritmo lento di giornate trascorse in isolamento, tra inerzia e passatempi esasperati al fine di colmare il tempo; la luce, flebile e calda, accarezza i volti e gli oggetti senza disturbare, con discrezione silenziosa. Solo la parola, con la sua pesantezza e la sua importanza, sembra riuscire a saturare il dilatarsi della stasi: i lunghi dialoghi del film conducono quest’ultimo verso tonalità teatrali, diventando i veri protagonisti. Lentamente i personaggi riaffiorano dalla quiete invernale con i loro piccoli conflitti e miserie, con i loro caratteri a tratti pungenti che cercano invano di emergere, assopiti e smussati come il tufo levigato dal vento.
Ceylan trae ispirazione da Cechov e dalla sua pittura letteraria dell’animo umano: l’incomunicabilità, il fallimento, la frustrazione, l’errore. Il quadro rimane inconcluso, incompleto, in un frammentario ritratto di accuse e ammissioni; nessuna azione o parola sembra riuscire a placare questo inaspettato risveglio invernale, questa desta coscienza che si ribella al candore, che finalmente ammette la sua sofferenza. Il regista traduce l’animo dei personaggi in fitti dialoghi privi d’oggettività, in ritratti dai dettagli instabili di volti ancora alla ricerca delle proprie verità.
L’unico gesto vivido e sincero risiede nei primi minuti dell’opera, nella pietra tirata contro il vetro dell’auto di Aydin dal figlio dell’Imam, sotto sfratto dai locali di cui l’anziano ex attore è proprietario. Forse la purezza di un gesto tanto ardente e onesto scioglie attorno a sé la fermezza invernale che tutto assopisce: come in una reazione a catena i personaggi si destano inaspettatamente. Il castello innevato è da troppo tempo pervaso da futilità e inerzia e risponde stizzito, adombrato; i sentimenti e le verità sono già stanche, forse incapaci di affrontare una nuova primavera.
Ceylan costruisce un film denso, con un approccio maieutico nei confronti dei propri personaggi: attraverso gli incessanti dialoghi essi vengono spinti con forza nella propria interiorità, dove, spiazzati e confusi, si perdono nelle contraddizioni, alla ricerca dell’affermazione di sé.