recrudescènza s. f. [der. del lat. recrudescĕre «inasprirsi, ridivenire crudo» (der. di crudus «crudo»)].
- Il rincrudire, il crescere o l’aggravarsi di nuovo, riferito a mali fisici, o morali, o sociali (sinonimo più tecnico di rincrudimento): r. di un’epidemia, soprattutto con riferimento alla morbilità o alla mortalità, aggravatesi dopo una fase di stasi o di decrescenza. Più raramente, con riferimento a fenomeni o condizioni naturali (per cui è più comune rincrudimento): c’è stata una r. del freddo, del maltempo, della siccità. (fonte Treccani)
Niente. Le antenne segnano il cielo come spighe metalliche. Le auto passano gonfie delle vite degli altri. I bambini urlano sempre, i cani abbaiano sempre, le madri chiamano sempre, i padri tornano sempre dal lavoro. L'aria trascina tutti gli odori, come un treno invisibile su per le gallerie delle mie narici. Ogni casello del mio ricordo perde un passeggero. Si può sopravvivere all'assenza, perché l'assenza prevede un peso lì dove ora c'è una forma vuota.
Quando è arrivato l'inverno lo ha fatto dritto dritto dai miei bronchi. L'ho tossito fuori sui tetti delle case. Era ghiaccio e neve, come sempre. Ma la neve io non la vedo mai. Non ho mai fatto dei pupazzi, non ho mai piantato nasi di carote. Solo ho sentito il freddo, i suoi aghi sulle nocche. Quando è arrivata la primavera, invece, l'ha fatto dritta dritta dai tuoi occhi. L'hai stemprata di brina sui fiori rossi. Era polline e sole, come sempre. Ma il sole, io, non lo vedo mai. Non ho mai raccolto i denti di leone, rompendoli in ombrellini con il fiato. Solo ho sentito il caldo, le sue coperte sulle ossa.
Tutto si è sospeso. Che sembrava tutto guarito al tuo passaggio. Un Attila al contrario. Le strade senza buche, le caviglie sempre dritte, le finestre terse, gli uccelli in immensi stormi. Sapevano dove andare. I treni puntuali, le tovaglie pulite, le scuole chiuse, le chiese calde. Si poteva fare il bagno al mare, e le barche andavano senza remi. Tutte le strade portavano a casa, e le case portavano in volo, come la mia favola preferita, sai, quella che la casa di Dorothy si stacca e lei e il cane Toto poi conquistano finalmente il mondo. Tutto era leggero. L'affanno non bruciava il petto. Non avevo mai mal di pancia, non sognavo mai cose brutte. Non ero cresciuta. Non avevo i capelli bianchi. Tutto eri tu - e se ti specchi in me - tu eri Tutto.
Poi hai interrotto il passo. E a cosa serve farti l'elenco dei caduti, la lista dei feriti, dei dispersi. I cumuli di macerie, i piedi dei miei sogni sotto i muri. Non serve elencare quello che verrà scordato. Ma il mondo ricomincia sempre, sempre riprende a muoversi, a girare, a fare questa stupida piroetta inesistente. Sempre riprende a schiacciare, di gravità e di gravezza, sempre riprende a far fare figli a quelli che non sanno farli. Perché tu dimmi se davvero esiste un amore che non sia quello cocente dei nostri ventri, quello concentrato nei centimetri quadrati del nostro inguine, tra un osso del bacino e l'altro. Tutto concentrato lì, come il baricentro in pezzi funzionanti del mondo scemo che gira e gira ubriaco di vendetta, che stupido e cretino masso di fuoco spento.
Tu dimmi se esisteranno altri sorrisi conficcati nella notte, come la bandierina di Armstrong sulla luna, che poi è morto giovane come noi, anche se è morto a ottantadue anni, ma se tocchi la luna poi non puoi toccare la terra umida di Cincinnati restando vivo, restando vivo. Dimmi se esisteranno i fulmini dei primi baci, in quella serenità liquida che ci impongono di bere. Dimmi se c'è il morbo che ci ubriaca, che ci travolge come mille tempeste, che ci fa supereroi del niente. Non sai. Non sai dirlo mai. Nessuno saprà mai dirlo. Tu e il tuo passo interrotto, interruttore, anzi, di ogni colore. Che spegne, soltanto spegne, che spegne e spegne per sempre.
Eppure. Eppure. Eppure. Quello che mi fa non aver paura del buio è la certezza che questo girare infinito del mondo porta la luce lì, dall'altra parte.
E allora forse farai un altro passo, lì, su quel varco, tra buio e luce, a cui tutti i poeti del mondo hanno dedicato le loro parole.
(Le hanno dedicate anche al mondo, e all'amore, e a quelle cose che raccogli in ordine alfabetico tra le parole stupide da non dire. Io le ho dette, le dico, e me ne scuso.)
E allora farai quel passo, un altro solo, per fermarci, tutti. Per rimettere a posto i nidi caduti, per risanare le mie ginocchia anche se dico “brucia”, e darmi baci sui graffi e sugli occhi, che nello stesso modo sono stati aperti, con la violenza, e mi dirai: ssshhh che non è una parola. Ma è il suono con cui arriva il silenzio da lontano, come il cane Toto dall'altro mondo, quello bello. E mi dirai: ssshhh e poi i cerotti dei tuoi baci, ancora. E mi dirai: ssshhh che non è una parola, ma è il suono che fa il vento quando spazza i sogni brutti, quando mi ritorna dietro tutto (e poi perché quei sette anni?), mi ritorna tutto quello che non so, mi ritorna il libro bianco da riempire, e i compiti per le vacanze, e le gommine delle matite e i sandali di gomma rossi. Mi dirai ssshhh che io mai più saprò piangere di male, io, mai più. Mai più la paura di morire. Mai più. Mai più una guerra persa. Mai più. Che mi solleveranno in braccio, tutti i miei anni, mi daranno dolci da mangiare dalle tue dita. Farai un altro passo, uno solo, per salvarmi. Per ricominciarmi, come si ricomincia la vita, quando la lasci cadere in quella degli altri, e poi la perdi, o forse no. Forse no. Tu sai dove trovarmi.