Se questa fosse una sera di marzo del 1965 e io mi trovassi al Carnegie Recital Hall di New York con una forbice in mano e a un passo dalla sua veste sfrangiata, sono certa che taglierei un brandello di stoffa proprio lì… in prossimità di quello che definisco lo zenit della femminilità: il seno. Le scoprirei i seni, uno dopo l’altro... e poi parte dello sterno. Così. Cautamente. E so che lei resterebbe immobile, con lo sguardo fisso su una qualche intimissima lontananza, o perso a rincorrere una qualche memoria liquida. Così, a braccia conserte e gambe incrociate. Felice di essere sbucciata. Felice di essere stanata. Perché si è più vivi quando si è esposti; si è più puri quando non si hanno difese.
“Sbucciami... Spogliami... Sfogliami...”
Cut Piece, la più celebre performance di Yoko Ono, fu un’azione comportamentale audace e catartica. Quella sera di marzo del 1965 – appena vent’anni dopo l’esplosione della bomba atomica –, la bambina che veniva dall’oceano e che, insieme alla propria famiglia, aveva vissuto gli orrori della guerra, decise di sfidare le ombre della paura celebrando la propria nudità. In silenzio, sedette al centro del palco, incrociò le gambe in posizione meditativa e lasciò che il primo spettatore le si avvicinasse. Gli porse dunque un paio di forbici, e lo invitò a tagliarle via l’abito-corazza. Dopo il primo arrivò il secondo, e poi il terzo e il quarto… e l’ennesimo. I primi spettatori sferrarono timide sforbiciate. Ma con i successivi il ritmo si fece più intenso. Anche chi tagliava perdeva frattaglie delle proprie paure e partecipava emotivamente all’azione. Lei era lì, senza orpelli e senza voce. Indossava null’altro che un lungo abito scuro. E da quell’abito chiedeva di essere liberata. Piano. Brandello dopo brandello. Sforbiciata dopo sforbiciata. Strati di inconsapevoli menzogne cadevano dal corpo, come lembi di un inutile vestito. E la bambina dell’oceano tornava a respirare.
Come scrisse lo storico dell’arte Edward Lucie-Smith, “l’artista non crea qualcosa di separato e chiuso, ma piuttosto fa qualcosa per rendere lo spettatore più aperto, più consapevole di se stesso e del suo ambiente”. Dunque, chi tagliava, diventava consapevole del valore di quell’atto. Sapeva che stava privando l’artista del suo involucro protettivo. Mentre perdeva la corazza, Yoko Ono non dava alcun segno di turbamento. Restava ferma, apparentemente distaccata. L’abito si sfogliava e la sua pelle sbocciava, come un fiore lunare. “Mentre lo facevo, guardavo fisso nel vuoto, mi sentivo un po’ come se stessi pregando. Io sacrificavo volentieri me stessa”. Cut Piece è stato un atto performativo di grande intensità; una sorta di inno all’autenticità. Il risultato di un percorso intimo e spirituale che portò Yoko Ono a riconoscere una volta per tutte la giusta direzione che la sua vita doveva prendere.
Figlia di un ricco banchiere giapponese e di una pianista che aveva sacrificato la propria creatività per lavorare in banca, Yoko Ono dovette strapparsi di dosso la camicia di forza di una educazione rigida e anaffettiva. I suoi genitori desideravano che frequentasse ricche e facoltose famiglie statunitensi. E lei, per tutta risposta, disubbidì. Prese a incontrare artisti, poeti, bohemienne e anticonformisti di ogni sorta. Si battè per i diritti umani. E creò. La ragazzina giapponese scampata allo shock dei bombardamenti divenne insofferente alle buone maniere e decise, infine, di sfidare la rigida e algida educazione famigliare. Il suo nome significa “bambina dell’oceano”, e la sua personalità fluida e ribelle ne fu un fedelissimo riflesso.
Nata Tokyo nel 1933 e presto trasferitasi negli Stati Uniti, Yoko Ono è ricordata dai più come la compagna del grande musicista e cantautore Jonh Lennon. Non tutti sanno, invece, che fu una straordinaria artista, precorritrice della Performing Art degli anni Settanta e tra le prime sperimentatrici di happening. Aderì sin da subito al movimento Fluxus, fondato dal lituano-americano George Maciunas con l'ambizione di miscelare, mediante fluide contaminazioni, arti visive, poesia, musica sperimentale e teatro.
Già sul finire degli anni Cinquanta iniziò a comporre quello che lei stessa definì "un manuale di istruzioni per l’arte e per la vita": Grapefruit. Il pensiero liquido, in linea con la storica poetica fluttuante giapponese, qui diventa immagine nella parola. Ogni pensiero è figlio di un giorno preciso o di una stagione, di un attimo fugace eternato dall’inchiostro. Ogni pensiero dona forma all’energia immaginifica. Secondo Yoko Ono l’immaginazione è il vero potere dell’essere umano. Può tutto. Può persino fornire strumenti per migliorare la realtà. Lo stesso Lennon confessò di aver preso spunto da alcuni di questi versi per scrivere quella che è divenuta la sua canzone più celebre: Imagine. Grapefruit è una raccolta di versi asciutti, memori della tradizione haiku. Apparentemente fondati sul paradosso e sul nonsense, e invece magici e fluidi. Profondissimi come l’oceano. Frammenti poetici a tal punto figurabili da poter essere azioni performative in linea con la ricerca Fluxus.
Frammento Pulsante:
“Ascoltatevi le pulsazioni l’un l’altro
mettendo l’orecchio uno sullo stomaco
dell’altro.”
(1963 Inverno)
Frammento dell’acqua:
“Ascolta il suono dell’acqua
sotterranea.”
(1963 Primavera)
Frammento di vento:
“Taglia un dipinto a pezzi e lascia che si perdano nel vento”
(1962 Estate)
Frammento dell’Ombra:
*“Metti insieme le tue ombre
finché diventano una sola”
(1963)
Brandelli di un’anima liquida. Quella di Yoko Ono. Fluxus-Haiku. Frammenti fluidi, che sfidano la plausibilità del reale. E che hanno permesso alla bambina dell’oceano di ascoltare la sua anima fluttuante.