Come forse sapete già, il 22 giugno i Rolling Stones suoneranno al Circo Massimo di Roma. I biglietti sono spariti nel giro di poche ore, anche se non si può escludere che qualche tagliando venga rimesso in circolazione nei punti vendita da qui a qualche settimana. Sarà un grande evento, un ritorno che troverà spazio in tv, sui social network, sui giornali, alla radio. Neppure la morte di L’Wren Scott, la compagna di Mick Jagger, ha cancellato il tour. Insomma, c’è da scommettere che saranno giorni di stonesmania vera e propria.
Io al concertone non ci sarò, nonostante un conflitto interiore che mi ha tenuto sulle spine nei giorni precedenti all’apertura della prevendita. Da un lato c’erano tutti quelli (tra cui una parte di me) che mi dicevano: “Ma non ti sembrano tristi, soprattutto Mick Jagger, che saltella e fa i versacci come se avesse vent’anni e non i settantuno che si ritrova sul groppone?”. Dall’altro lato però c’erano le immagini e i suoni del live a Hyde Park del 2013 che ho visto in tv, e che mostravano quattro vecchietti in gran forma e un rock and roll tutt’altro che bollito. Alla fine non escludo che a fare la differenza riguardo alla mia decisione sia stato l’esborso necessario per la trasferta, ma sono ancora qui che rifletto e mi chiedo se rimpiangerò questa scelta in futuro, perché non li ho mai visti dal vivo e ogni volta che gli Stones vanno in tour c’è sempre la possibilità, per ragioni biochimiche, che si tratti dell’ultima volta.
O forse la quintultima, perché in realtà la storia di questa incredibile band è affascinante anche perché una continua sfida al tempo e alla logica. E’ chiaro che stiamo parlando di professionisti, di una macchina da soldi, di un’esperienza sconfinata nel campo del marketing legato alla musica rock e dello sfruttamento delle risorse oltre ogni limite immaginabile. Sono perlomeno trent’anni, solo per fare un piccolo esempio, che il logo della lingua di Mick viene immediatamente associato a un prodotto, e che è diventato a sua volta un prodotto con il merchandising. Eppure basta vedere un paio di puntate del Ronnie Wood Show, che in Italia è trasmesso da Sky, per capire che quasi certamente questi pazzi si divertono ancora a fare musica. Chi non si divertiva più e si sentiva addosso gli anni che aveva, come Bill Wyman, se n’è andato già da un ventennio, anche se - come spiega il diretto interessato - non se n’è accorto nessuno e tutti danno per scontato che sia ancora il bassista degli Stones.
E non è l’unico malinteso a cui questo gruppo straordinario è condannato da decenni. L’altro, assai più clamoroso, è la sopravvivenza del confronto con i Beatles, che probabilmente resiste soprattutto in Italia per via della ben nota canzone ra-ta-ta-tattà. Allora, facciamo chiarezza: come si fa a paragonare una band che è durata otto anni, che ha suonato dal vivo in pubblico per quattro di questi, e che ha dato alla luce tredici album (almeno nove imperdibili), con un’altra che festeggia il mezzo secolo di carriera, ha sfornato ventisette album ed è ancora oggi sui palchi di mezzo mondo a replicare la storia di un’intera vita? E’ un mistero, in effetti, ma probabilmente ancora oggi la sopravvivenza di quel forzato “dualismo” porta pubblico e interesse attorno a Keith Richards e compagni. I Beatles non esistono più, non si può andare a vederli, ma ci si può catapultare il quel mondo ascoltando dal vivo i loro “rivali”.
Siamo al limite dell’immortalità del successo, nonostante che, se parliamo di dischi, il loro ultimo capolavoro (a mio sindacabile parere) risalga al 1972, cioè a quando avevo un anno, e s’intitoli Exile on Main Street. A quello sono seguiti buoni e ottimi (Some Girls per esempio) lavori, ma nessuna pietra miliare. E se è vero che le ultime uscite non sono tutte da buttare, è innegabile che ciò che avevano da dire dal punto di vista creativo, i Rolling Stones lo hanno detto svariati decenni fa. Eppure, se avete già i biglietti in tasca, un po’ vi invidio. Magari qualcuno di voi sarà deluso dal constatare che l’anagrafe non sbaglia, magari la logistica del Circo Massimo sarà scomoda, magari l’audio sarà così e così, ma penso che la maggior parte di voi tornerà a casa felice, e una buona parte sarà entusiasta per il solo fatto di essere stato presente. Il rock and roll è così, ha anche una forte componente psicologica legata alla condivisione di un momento storico, all’erotica soddisfazione di poter dire: quel giorno io c’ero. In vita mia non ho sentito nessuno dire: “Il Live Aid è stato il concerto più bello della mia vita”, oppure “Come hanno suonato bene i Pink Floyd a Venezia!”. Ho sentito solo: “Io c’ero”.
Forse, se potessi scegliere, per esserci preferirei una versione degli Stones meno pachidermica, nello stile del Ronnie Wood Show: quattro vecchi (di sicuro) amici (forse) che si ritrovano su un palco, si divertono, suonano, improvvisano, con un po’ meno saltelli, un po’ meno effetti speciali e magari proprio per questo un po’ meno pubblico. Ma è probabile che non ci sia scelta: la macchina Rolling Stones o si muove con questa ingombrante e a tratti discutibile dimensione, oppure si ferma. E al momento, di fermarsi, mi pare che non ci sia neppure una vaga idea; c’è da capirlo, se spariscono cinquantamila biglietti da 80 euro nel giro di due ore. E in fondo non c’è neppure da augurarselo: che io mi ricordi, non è mai esistito un mondo senza gli Stones.