και κλινας την κεφαλην παρεδωκεν το πνευμα
et, inclinato capite, tradidit spiritum
Gv 19,30
In occasione della recente inaugurazione della mostra Giovanni Bellini e la nascita della pittura devozionale umanistica, che possiamo ammirare fino a fine giugno alla Pinacoteca di Brera, torna di attualità un grandissimo maestro dell’arte di tutti i tempi e non è inutile tornare a soffermarsi di fronte ai capolavori del raffinatissimo e sensibilissimo pittore veneziano. I tesori dell’arte sembrano ermeneuticamente inesauribili, se vogliamo apprezzarne tutte le potenzialità semantiche e linguistiche.
La Pietà di Brera e l’Imbalsamazione di Cristo dei Musei Vaticani possono forse riassumere la geniale sensibilità di Bellini sul tema universale della deposizione. La grecità di Bellini si incentra in un’operazione tanto semplice quanto epocale: Bellini anticipa lo stesso Leonardo del Cenacolo (e nella croce bizantina della Madonna dei fusi) nell’“occidentalizzare”, fluidificando e naturalizzando, la lezione iconica bizantina. Non solo. Bellini torna al testo greco del Vangelo di Giovanni, sull’onda del generale revival grecista che connota il Quattrocento grazie anche al Concilio di Ferrara/Firenze, e mette al centro di questi due capolavori il concetto dell’“emissione” del respiro quale Spirito di Dio (Gv. 20.22). Paradidomi, tradere, commendere: ecco il significato che si fa performazione e diventa il protagonista di questi due capolavori di Bellini. Vi domina infatti l’assenza di ciò che è stato donato, cioè lo Spirito Santo, il respiro di Gesù che torna al Padre, che viene affidato al Padre e dal Padre custodito nei tre giorni in cui il Figlio di Dio si cela e si occulta come “il grande assente”nell’Alexandros di Giovanni Pascoli.
Maddalena, Nicodemo, Giovanni e Maria si rivelano in un atteggiamento di mistica mimesi del Corpo di Cristo nella loro assimilazione alla bocca socchiusa del Salvatore. La postura della bocca ci parla del mistero della croce e della morte di Cristo. Ci parla di un’Opera redentiva che si ferma in un “presente eterno”, che si raggruma in un Corpo che è gesto e sensibilità totale. La bocca socchiusa è segno eloquentissimo nella sua intima dolcezza della serenità perfetta del sacrificio cristico. Una postura composta, semplice, maestosa, sindonica. La bocca di Maria, di una Maria dal viso “popolare”, siculo secondo la lezione di Antonello da Messina, scolpita dal dolore, si accosta alla bocca di Gesù in una letteralizzazione iconica del termine “adorare” nella sua fisicità radicale di “appressarsi alla bocca” (ad-orare), cioè entrare nello Spirito, entrare nella contemplazione più viva e profonda, immergersi nella fisicità di una preghiera cosmica.
Maria si ostina con amorevolissima tenacia nel tenere alzato il braccio destro di Gesù, il braccio della misericordia, il prodigioso braccio destro di Dio che libera Israele dall’Egitto. I capelli di Gesù rosseggiano come le chiome porporine dell’Amato nella dolcezza del Cantico dei cantici (Ct. 5,11) che qui riemerge e ci sorprende dentro una scena di morte. Uno dei grandi meriti della raffinatissima mostra di Brera sulle deposizioni di Bellini sta nel suo aver ricordato la matrice iconica bizantina del tema della Madonna che sorregge il Cristo deposto, del modello di Maria che accosta il suo viso a quello adorato del Salvatore.
Il tema tradizionale del sepolcro quale fonte battesimale e quale sacro giaciglio viene anch’esso rispettato e prediletto da Bellini anche se nella Pietà di Brera il sepolcro-fonte appare ridotto all’essenza della sua orizzontalità, assumendo una condensazione quasi anamorfica per valorizzare la centralità di Cristo e dare anche un minimo respiro al paesaggio. Il “taglio” visivo orizzontale evidenzia la verticalità paradossale di un Cristo morto che domina la scena. Cristo cade “in piedi”; è l’eroe invitto anche nella sua morte, è l’axis mundi. In Cristo anche la morta diventa celebrazione, rito, elevazione. Il fiume alle spalle mostra un’analoga verticalità che sembra anch’essa cristica: quella di quell’albero che resiste alla corrente avversa e attorno al quale si forma come un gorgo, drammatico ma attrattivo.
Che Gesù è quello della Pietà di Brera? Un Gesù dalla barba semitica, sacerdotale, con i due tipici corni “alla Mosè”, come pure in Giovanni. Gesù quale Sommo Sacerdote del suo stesso sacrificio. Un Gesù anch’egli dal viso popolare, forte, dal naso prominente, simile all’opera più fiamminga di Bellini: il Cristo benedicente. La corona di spine, oro e piombo mescolati, ci offre un verismo drammatizzante tanto più espressionista se apprezzato insieme all’asprezza dei tratti degli zigomi dei volti e agli occhi scavati dal lungo pianto. Le spine, lunghe e per nulla idealizzate, quasi anch’esse irrigidite dall’immensità abissale della morte di Cristo, per poco non colpiscono il capo della Madre e i giunchi mostrano un’orribile vitalità serpentina.
Maria e Giovanni non hanno più respiro. Respirano del respiro del Figlio di Dio la cui sacralità diventa sia icona che reliquia nella fissità dell’emissione dell’ultimo divino respiro. La theoria dei colori appare perfetta: il nero del manto di Maria, il colore della sua veste che sembra aver assorbito tutto il sangue sparso da Cristo, il ritorno del nero nella tunica di Giovanni, agitata e impreziosita da auree volute come nel manto di Maria, e il ceruleo del manto di Giovanni, che apre alle nuvole del cielo. Sullo sfondo le “prime luci del Sabato”, di quel Sabato che darà senza tramonto perché continuerà nel “nuovo giorno” della Resurrezione. Se sul fondo del paesaggio il tramonto appare un’alba rasserenante dopo la cupezza della croce, secondo la tradizionale temporalizzazione israelitica, la Luce non ha mai smesso di permanere in Gesù e in Giovanni e Bellini ce lo ricorda con i numerosi filamenti cromatici aurei con cui intesse la barba e la capigliatura di Gesù e le chiome dolci di Giovanni.
Riguardo Maria Bellini sembra volerci dire che la Madre del Signore ha voluto lasciarsi “adombrare” anche durante la deposizione, come era stata sotto la croce sul Calvario. Il viso di Maria è tutto per Gesù, è tutto rivolto a Gesù e ne riceve un’ombra mistica che ricorda l’ombra feconda di un'altra primavera: quella dell’Annunciazione (Luc. 1,35; Ct.2,3). Mentre la mano sinistra di Gesù si pietrifica chiudendosi sopra il bordo di un sepolcro che diventa anche trono, balaustra, palcoscenico e altare, un rivolo sottile di sangue cola ancora sul bordo dello stesso braccio e un altro rivolo si condensa sul margine fra ventre e panno sindonico. L’altra mano sembra quasi mostrare una maggior vivezza, sostenuta con amorevole ostinazione dalla Madre in piena mimesi di “quasi movimento”. La mano di Maria e quella di Giovanni indicano il divino numero tre. Il sei è il numero edenico e giovanneo dell’Uomo. Cristo è il “Settimo”, è la nuova e apocalittica Menorah (Mc 2,27.28; Ap.1,20,11,2-3;13,5). Bellini ci regala un Giovanni con persino le narici dilatate, insieme al suo cuore straziato.
Un'allusione al tema mistico e paolino del “profumo di Cristo” (Ef. 5,2; 2Cor,14.15; Fil. 4,18; Ap. 8,4), ma anche un ulteriore rinvio alla grecità, questa volta dell’Apocalisse, nel tema, assai ebraico, del profumo quale sacrificio. Un Giovanni che si regge in piedi grazie al contatto quasi rabdomantico e magnetizzato della propria mano con il corpo di Cristo. Un Giovanni in ascolto durante il Cenacolo. Il chiasmo è perfetto: una Maria mascolina, virile che quasi sta per “strappare” la Resurrezione da Gesù, anticipandola, e un Giovanni delicatissimo, diafano, eco di se stesso. L’intimità fisica e gestuale di Giovanni e di Maria rispetto a Gesù comunica una geniale e intima meditazione e interiorizzazione di una relazionalità già pienamente eucaristica.
Nell’Imbalsamazione di Cristo similmente troviamo una Maddalena che svolge un simile ruolo di identificazione cristica che da un lato manifesta e incarna il mistero della deposizione e dall’altro rivela il sorgere eucaristico della Chiesa quale “rito di famiglia” attorno al Corpo di Cristo. Una Maddalena innovativa, mai vista, con una tunica umile ma dignitosa, color terra, e una gestualità dall’affettività meravigliosamente dolce e commovente. Maddalena riempie di unguento le piaghe di Cristo, propiziando e anticipando quel “rientro” dalla kenosis che è la Resurrezione e la sua manifestazione del “corpo di gloria” del Cristo. Il gesto di Maddalena valorizza la carnalità della redenzione di Cristo, massima nell’’insegnamento di Tertulliano.
Maddalena ha gli occhi estremamente socchiusi, come a non reggere la santità che comunque promana da Cristo, seppur morto, come a non sopportare l’evidenza fisica dello “scandalo” della morte del Figlio di Dio, e così pure Nicodemo e Giuseppe di Arimatea mostrano con gli occhi questa grandezza di umiltà che è servizio a Cristo e misura della grandezza della loro fede. Occhi quasi chiusi di fronte all’immenso mistero dell’uccisione dell’Autore della vita. E bocca aperta. Anche qui segno di abbandono in Cristo, di morte misticamente vissuta da questi fedelissimi amici, di accettazione della morte che è ora divenuta via di vita, esempio di cammino verso la gloria. L’umile trasfigurazione del discepolo nella figura del suo maestro e Salvatore assume dinamiche di grande dolcezza e sapienza. Bellini è ancora una volta geniale nell’ideare la postura di Nicodemo, la cui barba si nasconde e confonde con quella di Cristo, nell’inventarsi la gestualità oculare e massimamente meditativa di Giuseppe di Arimatea il cui compito è reggere l’unguentario ma il cui sguardo unisce il proprio cuore a quello del Cristo.
Il vecchio Nicodemo e Giuseppe di Arimatea hanno il cranio senza capelli, come in un’allusione al Golgotha, e alla denudazione della Croce, che è la Croce. Maddalena ha lunghi capelli sciolti, anche se composti, Sciolti come quelli della donna che ha asciugato i piedi di Gesù con le sue chiome secondo il Vangelo. La posizione della bocca di Giuseppe sembra fermarsi in accoglienza del respiro divino di Gesù mentre quella di Maddalena è tutta concentrata verso la piaga della mano, altro varco redentivo, altra “bocca” che versa la divina misericordia come una nuova sorgente. Cristo è anche quì esaltato nella viva verticalità del suo corpo esangue. I colori sanguigni delle vesti di Nicodemo alludono alla conclusione del sacrificio. Il sangue è alla spalle.
Ora Gesù parla con la fissità del proprio corpo e con le sue nuove piaghe. Anche qui è il corpo di Cristo, morto ma incorrotto nella sua perfezione, che sorregge chi lo sorregge. L’abisso da vertigine della debolezza di Dio si fa vortice silenzioso di estasi. Il genio di Bellini ci sorprende ancora se ci fermiamo ad osservare il colore ambrato del busto del Salvatore, che assume un tono più scuro nel volto. Se il tema è l’imbalsamazione allora comprendiamo spiritualmente questa eccentrica connotazione cromatica traslando il discorso sulla dimensione nuziale e cosmica della misericordia. L’olio e l’unguento sono segni della misericordia divina e tutta la scena di questo capolavoro può ri-raccontarsi quale ritorno della misericordia divina dall’umanità al suo Salvatore, Colui che effonde la mirra (Ct.4,2.5;5,13) della purificante misericordia celeste, e questo avviene tramite la manifestazione della pietà devota dei suoi fedelissimi.
L’Imbalsamazione di Cristo è un’opera dai corpi termici, un’opera che rivela una specifica e unica temperatura. Ricchi di affetto e di sentimento sono i colori delle vesti di Giuseppe di Arimatea e di Maddalena e come un “olio” diffuso un'aura calda avvolge i corpi e l’aria della scena. Le nuvole rosate già preannunciano la gloria dell’ottavo giorno. L’incarnazione del Figlio di Dio ora ha toccato il fondo dell’universo e il mondo intero trattiene il respiro nello sciogliersi e rapprendersi del tempo e dello spazio di fronte all’inaudito di questa visione che è Vangelo, cioè novità assoluta. Un nuovo corpo appare, esangue e trafitto da piaghe. Un corpo che è ora trofeo, memoriale, nuovo Tempio teofanico, nuova porta, trasformativa per chi si accosta con attenzione.
La geniale sensibilità di Bellini riesce a visualizzare tutta la profondità del mistero della deposizione, che è anche cambio di tempi sacri, mutazione di ordini cosmici. Bellini riesce a far percepire il silenzio del Sabato Santo. Bellini sa dare corpo e visibilità all’aura della sottile tensione spirituale propria della deposizione e della relativa sacralizzazione rituale del corpo che ne consegue. Nella contemplazione delle spoglie esamini del Salvatore sorge una nuova “personalità del e nel corpo” che appare già trasfigurato quale oggetto di culto e di rito. Il silenzio di Dio tacita il mondo irradiando un nuovo tipo di sublimità. In entrambe le opere compare anche la classica indicazione cromatico-simbolica dell’avvenuta morte: la separazione del bianco dal rosso, la dialettica fra il rosseggiare delle vesti di Maria e il lumeggiare esangue della sindone di Gesù. Tanto “termico” ed essudante la pietà di Dio è il Gesù dell’Imbalsamazione quanto vitreo e freddo è il Salvatore della Pietà di Brera. Nel mezzo la nobiltà eccelsa di un pittore veneziano.