L’amore comincia con una metafora
(Milan Kundera, L’insostenibile leggerezza dell’essere)

Giovani donne, corpi in torsione e distensione, farfalle, tucani, ritratti storici, scimmie, muscoli scolpiti, corpi eterei e carnali, quintessenziali e onirici: non c’è visione che non si dia nel corpo e nei corpi quali epifanie ritmiche, oscillatorie, frattaliche. Incubano nella mente, pulsano fra i tendini, fremono negli organi. Sono i corpi sognanti, le forme formanti, i corpi pensati che indicano come segni senza farsi segni-ficare. Possiedono la forza talismanica del rito e la pragmaticità corale della festa.

Un’arte che possiamo apprezzare quale massima cura a tutte le sindrome post-sireniche. Ogni movimento dei corpi creati da Giovanni è movimento curvo e interno. Non spezza, non opprime, non riduce. Crea il proprio tempo quale realtà, principio ordinatore ma non irrigidente. Opera immersiva e mitogonicamente poietica quella di Giovanni Manzoni, in quanto tanto immediatamente narrativa quanto fisicamente dinamica.

Ci apre alla mente una vera e propria fenomenologia linguistica di una nuova cinematica lucida, trasparente a cui l’occhio è chiamato a lasciarsi iniziare. Non si può apprezzare ab aestrinseco ma occorre pazientare in più soste contemplative di piena amplessiva adesione. Noi siamo corpo, ce lo ricorda Giovanni sulla fertile scia di Carmelo Bene. Dentro quest’immersività ricca di potenzialità liriche e relazionalità espressive interne ciascuno può cogliere il senso della grazia, l’essenza dello stile quale effimero della postura perfetta, declinazione di un tessuto connettivo in perenne movimento. Occorre usare verbi riflessivi e impersonali per captare i carismi estetici che Giovanni offre alla fruizione fra le pieghe deleuziane dei suoi tratti leggeri ma decisi. Sono cuciture o cicatrici della mente? L’ordito resta salda ma lascia ampia etericità.

Lo spazio benianamente quale silente musica e la luce è carne. Un bianconero splendente quello di Giovanni. Vera potenza polisemico-cromatica latente ma appena affiorante, come l’anima a fior di pelle della Teresa di Kundera. Qui la levità ontologica dei corpi appare prodigiosamente sostenibile in quanto musicale, connettiva, incessante. Il vortice e la vertigine appare centripeta e già in atto all’apparire dell’immagine, anzi di immaginari in corso di dis-piegamento. Un vortice dolce ma potente che ruota attorno ad un asse monadico invisibile, indicibile.

I - Ri-tratti

L’autorevolezza di una sacralità diffusa di corpi in continua emersione sorgiva. Ecco l’eco essenziale michelangiolesco che sentiamo fisicamente vicino e intimo, necessario. Corpi di grazia, cioè liberi aionicamente da pesi e direzioni anche quando appaiono solitari nella spazialità anomica. Corpi autocelebranti la propria dynamis ma prodigiosamente liberi da qualsivoglia retorica o sovrastruttura. Bastano a se stessi in una loro parusicità non rappresentativa ma pre-sentativa quale pura percettibilità d’entelechia. Senz’azione pura, cioè totale sensibilità biunivoca. Movimento ma non azione. Spettacolo totale ma non recita. Tesla che si autodefinisce in macchie di caffè e pochi tratti essenziallizzanti, forme formanti.

Ri-tratti in quanto cogliamo il ritorno della potenza plastica e connettiva-proiettiva di ogni singolo tratto. Estensione minima ma atomo magnetico fondamentale, vicino ai paradossi filosofici del punto, già indagati da Umberto Eco nel suo esoterico Pendolo. Un’estensione non misurabile ma curvamente aperta all’a-peiron dell’inter-tratteggio. Anche quando il segno si fa postura come nel giovane che eleva la donna-calice il gesto resta autogenerato, bastevole in quanto non piegato al consumo e alla recita.

I suoi singoli ri-tratti posseggono l’ampiezza fluida degli immaginari. Mai si sente solo l’occhio così felicemente coinvolto a passo di sogno. Che dire del Saturno paterno, dolce e angelico che regge la falce e la clessidra? Immagine di tempo, di fatalità e di morte che Giovanni transvaluta e trasfigura in un nuovo felice immaginario affettivo e unitivo. Un Kronos-Mosè diseguale, unicizzante, cifromatico. Ecco emergere la potenza arbitraria e sovrana del tratto. La sua fatale plasticità discriminante. È un ritratto? Sì e no. Figura sola e unica ma possiede e irradia l’ampiezza di un mondo immaginifico, la successione vitale di un percorso ampio e profondo.

Così è per tutti i corpi sapientemente messi in scena e reinventati da Giovanni come la bellissima scimmia orientale tutta tesa in un’attenzione lucida e ipnotica. Una scimmia “tutto sguardo” per una metafisica immanente del tratto. Così è per la celebrazione sottile della riconoscibilità del volto di Tesla realizzata con il minimo essenziale di tratti necessari. Traccia di tracce, aure persistenti. I corpi: ecco i veri volti, mai ri-volti. Non c’è più Io né persona ma solo una soggettività diffusa, immersiva. La soggettività nuda, radicale propria del sub-jectum che l’effimero e il casuale regge e veicola trasfigurandolo. Dove il tratto torna e insiste, strutturando la sua tessitura.

II - Incidere gli dei

Uno dei carismi più incisivi dell’opera di Giovanni sta nel cogliere e dilatare al massimo il momento fugace e dinamico fra spostamento e stasi. Si realizza un equilibrio fluido e alchemico fra lo sciogliere dello slancio e il contrarre del segno. L’opera dove una donna dal volto coperto dalle sue chiome cavalca sciamanicamente uno squalo anticipata da un uccello convinto di se stesso ci sintetizza chiaramente questo senso del “farsi” della narrazione visiva quale processualità colta nel suo ritmo strutturante.

Qui l’incompiuto sta nel retro della scena, a destra, mentre la freccia temporale appare invertita verso un movimento deciso di sempre maggiore definizione. Questo carisma michelangiolesco qui è voluto per darci il senso dell’emersione katafanica delle forme dall’abisso luminescente della spazialità potenziale. Non c’è gusto dell’effimero né retorica del sogno ma pura presenzialità in movimento. Un “divenire divenuto” che permane tramite il segno connettivo nella propria fluida sorgività centripeta.

L’arte ci costringe a mutare linguaggio, in sua risonanza metamorfica. Potremmo parlare allora di un’estetica di-vergente nel senso nuovo quanto latino-ancestrale di: vergare gli dei, incidere photofanicamente nell’a-peiron al fine di ascrivere alla soma-cinematica un senso di sacrale e leggiadra fatalità urgente, incalcante. Un presenta totale ma gravido di imminenza numinosa.

La luce della materia bianca, colore non colore d’omogenea dispersione: è lei la dea incisa nei riti segni di Giovanni o sono i suoi processi figurazionali che incidono il senso mnestico del tempo quale continuum fenomenico? Il de-siderio torna con quest’opera traboccante in-siderio, cioè stellazione, moltiplicazione di relazioni paritarie. Qui la grazia della vita è sostenibile, indipendentemente dal tema dell’amore. Siamo nella pre-condizione della radice dell’amore: l’esuberanza vitale, l’unità di vita, l’indifferenziato felice fra coscienza ed esistenza. Le anime tornano ciò che anima i corpi: il midollo interno stimolante.

III - Olos

Lo sguardo-movimento s’irradia sempre dall’interno verso un altro interno, forse nostro. Volti di lato, di tre quarti, glutei, schiene, intrecci, sfioramenti visivi e noetici. Il dettaglio è la risultante portante. L’eterno ritorno del dis-eguale. Giovanni resta fedele alla precisione anti-egualitaria nietzchiana mentre tutti gli altri banalizzano l’estrema e paradossale idea quale semplice normale ciclo. Qui il “ciclo” appare sempre ellittico, mai chiuso del tutto, differenziante. Un cerchio, un olos che “tiene” il grande chaos diveniente cioè lo s-rotolarsi del mondo, la radice onirico-musicale dell’accadere. La stessa grazia che cogliamo in certe scene sospese di Stardust Memories e di Manhattan di Woody Allen dove la contrazione tiepolesca dello spaziotempo intensifica il senso effimero dell’indicibile che ci sfiora.

Corpi mai eteronormati: pur intrecciati restano dolcemente intransitivi. Quel disco di donne, curvature, orchidee pulsa della potenza magica dell’equilibrio fra movimento complementari. Un disco sciamanico da cui non si esce ma in cui ci si può solo immergere, varcare. Un disco terapeutico e iatromantico che ci aiuta a sciogliere ogni cristalizzazione riportando il nostro occhio ad una feconda passività di ascolto totale. In ogni sua opera si può appercepire la presenza sinestetica sia di Saturno che dell’Orchidea, cioè: sia della stasi ontica parmenidea-necessitante, urgenza misterica di forme, che l’arco curvo ed ellittico del femminile aionico, elasticità visionaria, pelle amiotica, dispiegarsi ricapitolante ad libitum.

Saturno stabilizza ed equilibria i rapporti di forza, permettendo il versare l’intraducibile, il trapassarlo. L’Orchidea da parte sua garantisce la passività ancestrale e buia dove l’eco precede l’atto e la nostra voce viene dall’Altro. E’ l’orecchio di Dioniso, l’ombelico di Telete. L’occhio artefice è mano disinvolta e attenta, pupilla ossessiva, pensiero fulmineo.

È il mulino di Amleto, sia dentro che fuori il teatro del mondo. Giovanni satura saturninamente quanto meldhessonianamente il linguaggio, nuovo Oberon, liberandolo dalla sovrastruttura metaforizzante quanto dall’ansia di prestazione. I movimenti dei corpi sognati dalla mano di Giovanni vanno ascoltati. È come all’inizio della solare Apocalisse di Giovanni: là la Voce viene “vista”, qui il segno ritmico e connettivo chiama l’ascolto contemplativo e mitogonico.