Ho avuto la fortuna di nascere, e vivere, in uno dei territori maggiormente vocati alla produzione vitivinicola del mondo, la Puglia e nello specifico il Salento. Sono stato iniziato al mondo enologico fin da piccolo. Un carissimo zio lavorava in una grande cantina nel brindisino, allora punto di riferimento nella zona, in località Restinco, nome che, ai brindisini, suscita tanti ricordi. Quella fiorente azienda, circondata da vigneti a perdita d’occhio, tanto importante da aver persino una stazioncina ferroviaria dedicata, sarebbe scomparsa in pochi anni, con i vigneti sostituiti da altre coltivazioni.

Ai tempi dello zio, la cantina era diventata fornitore ufficiale della mia famiglia. Dopo averla visitata più volte, con mio padre, arrivò il momento di assaggiare il prodotto. È stato un ottimo Negroamaro a darmi il benvenuto nel mondo del vino. Da lì è iniziato il mio viaggio enologico, che continua tuttora e riesce ancora a riservarmi piacevoli sorprese. Specialmente di produzione locale, pur non avendo mai rinunciato ad assaggi in tutti i posti dove mi sono trovato.

Sono, comunque, un convinto assertore, forse l’unico, della superiorità dei vini di Puglia, specialmente in questo momento storico nel quale la regione gode di un successo senza precedenti, tanto che anche personaggi famosi cominciano a dimorare in Puglia, come Helen Mirren, non disdegnando di partecipare alle produzioni locali, come Bruno Vespa, recente proprietario di una masseria con vigneti e produttore di vino. Ma non è sempre stato così.

In principio era il vino da taglio, una marea rossa che esondava dai confini regionali, per raggiungere le terre del Nord, in una specie di missione di soccorso di vini che non ce l’avrebbero fatta senza aiuto, vini che, poi si ergevano a protagonisti dei mercati. Insomma, una trasfusione, legale ed autorizzata, che era possibile grazie alla resa eccezionale delle colture viticole principali: Primitivo e Negroamaro davano luogo a produzioni di vino esagerate e di qualità tale da poter essere utilizzate per migliorare i vini altrui.

Molti produttori del Nord, anche già molto affermati e famosi, entrarono direttamente in campo, anzi in vigna, per assicurarsi la produzione necessaria, pilotando la produzione stessa verso colture più confacenti alle esigenze, spesso sacrificando colture storicamente insediate nei territori, con il risultato di far quasi scomparire alcuni vitigni tradizionali, a vantaggio della quantità di uva prodotta.

La produzione di quantità era anche favorita dalla grande frammentazione terriera, successiva alla grande riforma agraria del 1950, che aveva eliminato il latifondismo, creando tanti proprietari di piccoli appezzamenti. Qui si lavorava la vigna solo in base alle “buone pratiche”, ereditate dalla tradizione, che spingevano ad arrivare alle vendemmie con la maggiore quantità di uva possibile. Si avevano, quindi, grandi quantità di vino e solo pochissimi pensavano ad imbottigliare, veri pionieri, mentre venderlo per tagliare gli altri vini era una facile soluzione commerciale.

Il vantaggio era di assicurare la vendita del prodotto, privilegiando la quantità. Lo svantaggio era rinunciare ad una parte dell’identità locale, penalizzando la qualità. Qualità che si raggiunge compiendo scelte coraggiose, per esempio privilegiando, già in vigna, una crescita di grappoli inferiore per pianta, che darà un prodotto migliore.

La svolta ci fu negli anni ’90, anche con la spinta del vento di novità, arrivato a soffiare impetuoso dopo la crisi di tutto il comparto, dovuta allo “scandalo del metanolo”. Si cominciò a lavorare con sistemi più moderni, tutte le cantine si dotarono di specialisti, sia in fase di produzione del vino che nella stessa vigna, passando da quella gestione “amatoriale”, dei piccoli proprietari di vigne ad una gestione “professionale”, con un utilizzo intensivo di agronomi ed enologhi.

Un lavoro continuo, che già dopo soli pochi anni, ebbe la rivincita su un passato che si era chiuso in maniera ingloriosa: su tutto il territorio si era diffusa una vera e propria epidemia di espianto. I vigneti, anche quelli storici, come quelli della cara Restinco, vennero espiantati e tristemente sostituiti da altre coltivazioni, alcune tipiche come i carciofi o angurie e meloni, altre del tutto aliene, come i girasoli. Me lo ricordo come un brutto sogno, quel periodo. Era cambiato il paesaggio, in certi punti e sembrava di stare in un paese nordico, con tutti quei girasoli lasciati ad appassire nei campi.

Per fortuna, la rivincita è stata totale e, su quasi tutti quei campi, la vite è tornata ad essere protagonista rigogliosa e si è creata la situazione opposta, con sempre nuovi appezzamenti dedicati alla vigna, spesso con la riproposizione di vitigni locali che si erano quasi perduti, come il Susumaniello, tipico del Brindisino o il Fiano Minutolo, diffuso in Salento e Valle d’Itria. In tal modo, da giugno in poi, il panorama è dominato dal verde dei vigneti che si stendono a perdita d’occhio e che, ai tanto decantati paesaggi del Prosecco, hanno da invidiare solo la mancanza dei declivi delle alture.

Per quanto riguarda la varietà dei vini, quelli pugliesi non hanno, invece, niente da invidiare a nessuno. A trainare sono soprattutto i grandi vini rossi Negroamaro, Primitivo e Nero di Troia, per i quali si può dividere la Puglie in tre zone vinicole, all’interno delle quali c’ è, comunque, una tale varietà di altre produzioni, che diventa difficile anche una semplice elencazione, tanto alto è il rischio di dimenticare qualcuno.

La zona del Negroamaro racchiude il Salento, fra le provincie di Taranto, Lecce e Brindisi. Qui il mio vino di riferimento è il Tacco Barocco della cantina Sanpietrana, che si distingue per un eccezionale rapporto qualità prezzo, mentre quello a cui sono legato di più è il Teresa Manara di Cantele. Oltre al vino che identifica questa zona, è da rimarcare la sostanziosa produzione di vino rosso da Malvasia nera, che si trova sia in purezza che in aggiunta ad altri vitigni, come lo stesso Negroamaro.

Da segnalare, in questa zona, una sottozona, un “triangolo benedetto del gusto”, che ha i vertici nelle città di Salice Salentino, Campi Salentina e Guagnano, caratterizzato da una cospicua presenza di aziende di livello, tra le quali spicca la cantina Leone De Castris, una delle più rinomate, che ha, fra l’altro anche il merito di aver inaugurato l’imbottigliamento del vino rosato con il famoso Five Roses. Chi si trovasse in Puglia, non dovrebbe mancare una vista in questi luoghi, carichi di storia, fascino e magia, come la Cantina Castello Monaci, dove il castello c’è davvero.

La seconda zona è quella di produzione del Primitivo, che va da Manduria, epicentro della produzione e città che dà il nome alla DOC, nel tarantino, a Gioia del Colle, nel barese. Il Primitivo deve il suo nome ad una caratteristica specifica del vitigno, che è quella di maturare prima degli altri vitigni ed è stato alla base di quella produzione destinata al taglio, per poi diventare uno dei principali ambasciatori di Puglia oltre i confini regionali e non solo, fino ad ottenere l’ambita denominazione d’origine controllata legata al territorio di Manduria. Questo grazie all’incessante lavoro di affinamento della produzione che procede ininterrottamente ormai da un trentennio.

Ai margini di questa zona c’è da segnalare una ulteriore sottozona, con vertici ideali nelle città di Martina Franca, Locorotondo e Ceglie Messapica, la valle d’Itria, che si distingue per la produzione di bianchi di altissimo livello ottenuti da uve Verdeca, Fiano, Bianco di Alessano, che insieme danno vita ad una delle principali Doc pugliesi: il Locorotondo Doc. Anche questa zona, anche per le spettacolari virtù paesaggistiche merita una visita approfondita. La mia cantina di riferimento per questa zona è Vetrère, con il mio numero uno dei bianchi il Crè ed un ottimo spumante l’Aureo rosè.

Particolarmente interessante è anche la produzione di vini con un blend dei due vini principi, esperimento assolutamente ben riuscito. Grazie al sapiente dosaggio di Negroamaro e Primitivo, si ha un vino eccellente, di grandissimo spessore e personalità. Il mio top assoluto è l’Amativo di Cantele, la prima, fortuna scoperta di questo allora promettente blend, che sta cominciando ad affermarsi e a diffondersi sempre di più.

La terza zona vinicola copre il nord della regione e vede la predominanza del Nero di Troia, base per un’altra Doc tipica, il Cacc’e Mitte di Lucera. Anche questo vitigno ha visto nel suo passato l’utilizzo come vino da taglio, ma, negli anni le tecniche di vinificazione hanno permesso di ottenere un vino di pregio. Anche in questa zona si trovano altri importanti vitigni, splendide basi per vini in purezza o in accompagnamento ad altri vitigni, come il Bombino nero e bianco. In questa zona sono particolarmente legato alla cantina Grifo, di Ruvo di Puglia, che si distingue per la continua corsa all’innovazione, come dimostra l’ingresso deciso nel mondo della spumantizzazione, con le etichette Gryfus.

Tutte le zone produttive sono caratterizzate anche da massiccia produzione di rosati, che i stanno affermando sempre di più, ottenuti dagli stessi vitigni rossi, con una lavorazione diversa, che prevede un minore tempo di contatto del mosto con le bucce. Sono le bucce, infatti che contengono i polifenoli che danno la colorazione al vino. Per cui abbiamo grandi rosati da Primitivo, da Negroamaro, da Nero di Troia, da Malvasia nera, da Bombino, con una varietà produttiva che non ha pari in altri territori nazionali e no. Tanta strada da quando, nel 1943 Leone De Castris imbottigliò il primo rosato in Italia.

Quella dei rosati è una produzione in costante crescita, favorita da un continuo aumento della richiesta. I rosati di Puglia sono vini di grande gusto, grazie ai nobili vitigni rossi da cui provengono, ma hanno una freschezza e una bevibilità, che i rossi non hanno, essendo comunque vini impegnativi per gusto complessivo, ma anche per una componente alcoolica importante, tanto che nel Salento del passato il vino rosso, in riferimento soprattutto a Negroamaro e Primitivo, veniva definito “lu mieru delli masculi”, cioè il vino per gli uomini. I rosati vanno felicemente incontro a tutte le esigenze ed il mercato premia sempre più il gran lavoro dii ricerca effettuato dalle aziende produttrici.

La stessa strada che si sta percorrendo con i vini bianchi, riscoprendo spesso vitigni autoctoni come il Fiano Minutolo, la Verdeca e il Bombino bianco. Anche qui si trova la stessa varietà dei rosati, accumunata da una qualità sempre crescente, che si spinge sempre più sulla strada della spumantizzazione.

Proprio questo settore vinicolo rappresenta, a mio parere, la vera sfida per il futuro. Ormai quasi tutte le principali cantine si sono cimentate nella produzione delle “bollicine”, seguendo una richiesta di mercato che sembra non aver fine, basti pensare al successo sempre mondiale del Prosecco. Siamo già arrivati a produzioni di spumante metodo classico, quello dello champagne, per intendersi, metodo produttivo molto impegnativo, che richiede grandi disponibilità in termini di tempo e di spazi, dato che il vino va affinato per mesi in bottiglia e, chiaramente, non tutti hanno la possibilità di immobilizzare per lunghi periodi la produzione di diverse vendemmie.

Alcune realtà che si sono impegnate in questa ulteriore novità hanno già raggiunto livelli eccelsi, dimostrando a tutto il settore come sia possibile ottenere risultati rimarchevoli. Salvo queste poche, mirabili eccezioni, però, nonostante l’ammirevole impegno (di cui le succitate etichette Gryfus sono un valido esempio) bisogna continuare a lavorare con costanza, magari migliorando la qualità dei lieviti utilizzati e affinando ancora di più i processi produttivi.

Fatto ciò, si potrà guardare al futuro con fiducia sempre crescente, certi del fatto di avere a disposizione una gamma quasi sconfinata di combinazioni, grazie alla varietà che questa terra mette generosamente a disposizione e che non ha pari altrove. Se si pensa a cosa sono riusciti a fare in Veneto, in pochi anni, sfruttando un solo vitigno, la glera, viene facile immaginare quali margini di sviluppo ci siano per la viticultura pugliese che ha, nei suoi vini in rosso, in rosato, in bianco, ma anche negli spumanti presenti e prossimi venturi, il proprio oro tricolore.