Non è mai semplice descrivere la carriera di un regista cinematografico, sia quando questa risulta costituita da decine e decine di titoli da cui attingere per poter affrescare un ritratto privo di lacune significative, sia quando questa si lega, diversamente, a una filmografia poco più che decennale ma, al contempo, già ricca di importanti affermazioni.
Rodrigo Sorogoyen rientra certamente in quest’ultima categoria. Il classe 1981 nativo di Madrid, infatti, ha intrapreso un percorso decisamente ascendente e ricco di soddisfazioni, culminato col grande riconoscimento internazionale di critica e pubblico per le opere realizzate in appena due lustri.
Anziché partire dal principio, però, risulta forse più stimolante muoversi a ritroso nella sua parabola, partendo da quel As Bestas – La terra della discordia (2022) che ha permesso al regista iberico di conseguire un incredibile risultato durante l’edizione numero 37 dei Premi Goya, i più importanti riconoscimenti cinematografici di Spagna; un po’ come i nostri David di Donatello, con i quali condividono un evidente richiamo ad un altro ramo artistico.
Tornando alla pellicola, l’ultima attualmente realizzata da Sorogoyen, basti pensare al numero di awards conseguiti in una singola sera: 9 a fronte di 17 nominations. Un risultato straordinario, che ha collocato definitivamente il cineasta tra i grandi nomi del cinema spagnolo. Soltanto quattro film, infatti, hanno ottenuto più candidature nella storia dei Goya e soltanto sei sono stati in grado di vincere più premi – tra i quali, il recentissimo La società della neve (Juan Antonio Bayona, 2023), capace di trovare posto anche in due categorie dei Premi Oscar 2024.
As Bestas ha dimostrato la capacità di sublimare una serie di istanze, a partire dall’intelligenza di Sorogoyen nel circondarsi di figure artisticamente affini, compatibili e complementari. Basti pensare a Isabel Peña, cosceneggiatrice di tutti i film realizzati da Stockholm (2013) in poi; analogo trattamento è stato conferito anche ad Alberto del Campo, tecnico del montaggio, al compositore Olivier Arson e ad Alejandro de Pablo, direttore della fotografia.
Ciò mostra, ancor prima delle pellicole stesse, come Rodrigo Sorogoyen abbia saputo trovare un impianto estremamente solido e proficuo sul piano artistico proprio a partire dalle maestranze di cui si è circondato, elemento fondamentale per il successo di ogni regista.
Il secondo ingrediente che Sorogoyen ha saputo inserire nella propria ricetta per il successo è il grande potere delle storie raccontate, in alcuni casi elaborate a partire da casi di cronaca. Come As Bestas, forse la pellicola di maggior impatto in tale senso, trattando del desiderio di libertà e distacco dal mondo cosmopolita di una coppia parigina di mezza età, che decide di trasferirsi in una comunità estremamente remota dei monti galiziani alla ricerca di un ritmo ormai perduto, ben consapevoli dell’enorme cambiamento che tutto questo avrebbe portato nelle proprie vite.
La trama, però, vira rapidamente in direzione di un affannoso e complesso tentativo di trovare un’armonia con contadini ed allevatori del posto, sconvolti dall’offerta di una società norvegese che, in cambio della cessione di vari ettari di terreno – funzionali per l’installazione di pale eoliche – avrebbe offerto un’importante liquidazione a tutti gli abitanti della piccola comunità. Una proposta inaspettata, capace di generare un orizzonte di aspettative decisamente roseo per gli abitanti, bloccati da un tenore di vita privo di benessere o di qualsiasi possibilità di aspirare ad un miglior collocamento nella società.
Tale sviluppo è stato ad ogni modo negato, in una cornice temporale antecedente ai fatti filmici, dalla decisione della nuova coppia di votare a sfavore di questa trattativa, bloccandola in una situazione di stallo che, in breve tempo, fa sfumare tutti i possibili introiti per i locali. La pellicola affonda le proprie radici proprio nel confronto sempre più duro e barbaro che viene a verificarsi tra parte della comunità ed i coniugi Denis (Antoine e Olga, assemblati sulle figure di Denis Ménochet e Marina Foïs), al punto da sfociare in un contrasto ferale ed assolutamente bestiale.
Madre (2019), la pellicola precedente, è invece la naturale prosecuzione del cortometraggio omonimo realizzato nel 2017, quest’ultimo incentrato sulla scomparsa del piccolo Iván. La storia rappresentata nel lungometraggio segue proprio tale evento nefasto, con l’enorme dolore della sparizione che, dopo i dieci anni intercorsi nella diegesi filmica, ha lasciato ferite impossibili da rimarginare nella memoria, nello spirito e nella vita della madre, Elena (Marta Nieto).
La costruzione della protagonista, in particolar modo, testimonia l’attenta analisi e disamina di tutte le possibilità che lo spettro emotivo umano può generare in una circostanza così dolorosa ed intima, raffigurando attraverso l’interpretazione di Marta Nieto un arcobaleno di sensazioni e turbamenti che soltanto una scrittura estremamente curata e delicata può conferire. Un oceano stratificato e profondo – proprio come quello del Golfo di Biscaglia che bagna le coste delle location scelte – ricco di pensieri, rimorsi e dolore, ma anche speranza e volontà di trovare un appiglio con cui evadere da quel pericoloso mulinello scaturito da un’esistenza difficile.
Facendo tesoro di ogni possibilità legata ai principi teatrali della biomeccanica, ogni più piccolo muscolo, espressione o gesto permette di arricchire e di potenziare il paesaggio emotivo di Elena, mostrando tutte le possibilità che il corpo umano possiede in termini di comunicazione. E difatti l’impianto dell’opera è frutto di una perfetta crasi tra il mondo teatrale ed il mondo cinematografico, potendo sfruttare la grande capacità di fotografare i dettagli, insita nella Settima Arte, per immettere lo spettatore in una visione molto intensa della psiche umana.
Il regno (2018) torna nuovamente a prendere spunto da fatti di cronaca reale, in questo caso attinenti alla sfera politica spagnola, per tratteggiare una serie di volti legati da sete di potere, giochi nell’ombra e soprattutto corruzione, elemento centrale del dissesto iberico a cui viene fatto riferimento. Tale premessa diventa la chiave con cui aprire le stanze del potere, generando comunque una storia originale e che non identifica alcun soggetto tra quelli coinvolti nel terremoto governativo evocato.
Anche in questo caso, la teatralità – da intendere come elemento della vita quotidiana, che diventa un palcoscenico su cui interpretare al meglio il proprio ruolo per poter ottenere il successo ricercato – diviene assolutamente centrale nei personaggi, costretti però a reprimere ogni possibile lascito emotivo e a portare fino in fondo la propria recita al fine di non offrire il fianco a rivali e investigatori, oltre che alla terribile macchina del fango attivata a seguito delle accuse mosse nei confronti del protagonista, il vicesegretario regionale Manuel López-Vidal (Antonio de la Torre), e di alcune figure a lui molto vicine.
La spirale di eventi, però, spinge sempre più il politico al centro delle vicende a confrontarsi con un sistema che, di fronte ad un enorme pericolo, attiva tutti gli anticorpi a disposizione per rigettare gli organismi patogeni colpevoli di aver causato un errore potenzialmente critico, se non fatale, per la propria sopravvivenza.
Che Dio ci perdoni (2016) ed il già citato Stockholm – escludendo la trascurabile opera prima 8 Dates (2008), codiretta con Peris Romano – completano idealmente questo percorso a ritroso. Il primo è un thriller poliziesco, dai tratti horror, ambientato nella Madrid del 2011, con la crisi economica, le contestazioni e l’imminente visita di Papa Benedetto XVI sullo sfondo; i due agenti coinvolti, Luis Velarde (Antonio de la Torre) e Javier Alfaro (Roberto Álamo), hanno il compito di individuare e catturare, il più in fretta possibile, un serial killer che potrebbe gettare la città ancora più nello scompiglio.
Stockholm, infine, è un titolo che apre su di un corteggiamento itinerante tra Bartolo (Javier Pereira) ed una ragazza (Aura Garrido), capace di richiamare con forza scenari affini a Prima dell’alba (Richard Linklater, 1995). Cionondimeno, gli sviluppi sono decisamente diversi e guidano lo spettatore verso un epilogo inaspettato.
Questa rapida panoramica su Rodrigo Sorogoyen costituisce ovviamente solo uno sguardo superficiale sul grande lavoro del regista, pur lasciando intravedere quali elementi siano stati posti sotto la lente d’ingrandimento volta per volta.
Ciò che risulta maggiormente interessante è notare come la filmografia abbia sempre saputo contraddistinguersi per una qualità assoluta, a partire senza dubbio dalla brillante sceneggiatura espressa nelle varie occasioni, sostenuta alla perfezione da fotografia e montaggio, comparti tecnici che hanno trovato una sempre maggior centralità di pellicola in pellicola.
Non resta che attendere il prossimo capitolo di una carriera che, fino a questo momento, ha individuato la formula vincente ad ogni occasione, unendo magistralmente il consenso della critica e del pubblico.