Il regista britannico, arrivato a quasi novanta candeline, ha dichiarato in una recente intervista come The Old Oak costituisca il punto d’arrivo della sua lunga carriera cinematografica. Cresciuto all’interno del crogiuolo filmico-artistico-sociale noto con il nome di Free Cinema, il nativo di Nuneaton ha da sempre cercato di ritrarre le condizioni di vita degli ultimi, degli sfrattati, degli operai, dei manovali, dei reietti della società e, in generale, di tutti coloro che vivono un’esistenza complicata.
La sua ultima pellicola, presentata meno di dodici mesi fa al Festival di Cannes, ha offerto l’ennesima occasione per ribadire i concetti espressi in lungo ed in largo nella propria filmografia; anche in questo caso, infatti, viene generata una prospettiva utile per evidenziare la relazione tra una comunità ormai disgregata ed alcune nuove figure giunte da poco in città.
Il profondo nord-est inglese, rappresentato nello specifico dalla contea di Durham, offre un particolare tipo di cornice al racconto: in tale area, difatti, molti anni prima era presente una intensa attività mineraria, capace di cementare un sentimento di fratellanza e di sostegno reciproco che, con la chiusura della principale fonte di lavoro, è venuto a mancare. L’adesione ad un destino quasi obbligato aveva spinto un intero paese, fino a quel momento, a lottare in prima linea per i propri diritti, con scioperi, lotte sindacali ed una grande tenacia; argomenti che Loach, nel corso degli anni, ha saputo illustrare meglio di chiunque altro.
Tutto ciò, unito ad un welfare state sempre più vacillante nel Regno Unito a partire dagli ultimi due decenni del ‘900, ha creato i perfetti presupposti per una società alienata, a tratti rabbiosa e sempre meno capace di guardare al prossimo senza risentimenti o pregiudizi. Ed è proprio in tale contesto che gli abitanti di questo piccolo paese entrano in contatto con alcuni rifugiati siriani, giunti in cerca di fortuna dopo essere riusciti a fuggire da un conflitto armato estenuante e terribile.
Il primo approccio, ben lontano dal concetto di ospitalità, viene segnato dallo scontro tra Yara (Ebla Mari) ed un uomo locale, la cui maglia del Newcastle United FC rappresenta un importante indizio di unione con il territorio e di adesione alla sua storia; questi, insulta rapidamente i nuovi arrivati e danneggia la macchina fotografica della ragazza, mostrando un lato xenofobo che, purtroppo, è sempre più manifesto in molte nazioni europee.
Il pessimo avvio è però propedeutico all’incontro tra Yara e TJ Ballantyne (Dave Turner), barista del luogo e proprietario del fatiscente The Old Oak, punto di ritrovo immancabile di molte persone. La giovane siriana, infatti, si reca nel pub per cercare di venire a conoscenza dell’identità dell’uomo colpevole di averle rovinato il prezioso strumento fotografico, unico punto di contatto rimastole col padre; TJ, inizialmente reticente, si dimostra però disponibile ed amichevole nei suoi confronti, avendo in dote un sincero e vivo desiderio di aiutare il prossimo.
Il rapporto genera non pochi malcontenti negli habitués, che iniziano a nutrire un rancore sempre più intenso nei confronti dei nuovi vicini di casa. La scelta di riaprire eccezionalmente una vecchia stanza posta nel retro del locale, così da poter offrire un pasto ai bisognosi, costituisce il punto chiave dell’opera, che tocca un nervo scoperto della nazione ed esplora il delicato equilibrio di una comunità indebolita, non più compatta come un tempo.
Il titolo, lungi dal voler offrire una morale stantia, si mantiene però ben distante da qualsivoglia intento retorico, cercando invece di porre lo spettatore a contatto con una realtà tutt’altro che distante, trasmettendogli sentimenti, impulsi, gesti e moti interiori difficili da trascrivere, ma che grazie alla visualità tipica del medium cinematografico riescono, invece, ad impattare sulla coscienza di chi osserva e metabolizza. Una fruizione attiva, fatta di letture e di riflessioni sui diversi punti di vista in gioco, costituisce indubbiamente lo scopo ultimo di un cinema così impegnato ed intenso, che non vuole fornire una risposta ma, anzi, porre all’ordine del giorno un dibattito vivo e concreto.
Uno degli aspetti più interessanti del lungometraggio è costituito dall’uso topografico dei sentimenti e, viceversa, dall’uso sentimentale dei luoghi. La già citata stanza sul retro dell’Old Oak rappresenta senza dubbio un punto centrale della pellicola per la sua capacità di rievocare tutta una serie di vecchie istanze e, contestualmente, di far riemergere un senso di comunione e di solidarietà – non di carità – rimasto sepolto nelle profondità delle miniere.
Le fredde coste bagnate dal Mare del Nord, a loro volta, diventano un sinonimo di rinascita e di cambiamento, con le onde a inscenare, in maniera quasi espressionista, i tormenti interiori dei personaggi; in particolar modo quelli di TJ, il cui passato riemerge costantemente, come sospinto da un principio fisico situato nelle profondità della mente e dell’inconscio.
The Old Oak, in definitiva, rappresenta il capitolo conclusivo di una filmografia sempre votata all’impegno sociale e politico, notoriamente dei punti fermi dell’autore britannico e di Paul Laverty, sceneggiatore nonché fido scudiero in questa crociata. Ken Loach ha già deciso, in passato, di tornare sui propri passi quando l’avanzata conservatrice ridestò il suo desiderio di dare voce ai più deboli, con Io, Daniel Blake (2016) e Sorry We Missed You (2019) quali primi due elementi di una trilogia conclusa nel 2023.
I prossimi mesi, con uno scenario politico in costante divenire nel Regno Unito ed in Europa, potrebbero fornire nuovi spunti al regista britannico, che di fronte alle ingiustizie di un mondo sempre più complesso non si è mai tirato indietro, cercando ogni volta di fornire il proprio apporto per dare voce agli strati più sofferenti della società.