Sembra ormai lontana anni luce quell’epoca in cui la Formula 1 risultava essere solamente un prodotto di nicchia, amata follemente dai suoi fan più fedeli ma, al contempo, poco considerata dal resto della platea sportivo-televisiva.
Da quando la statunitense Liberty Media ha acquistato, nel 2016, i diritti televisivi della competizione motoristica, potendone così controllare, di fatto, la quasi totalità degli aspetti organizzativi, la popolarità del brand è cresciuta a dismisura. Basti guardare un qualsiasi Gran Premio per potersi rendere conto dei cambiamenti: i paddock, infatti, sono sempre più ricchi di celebrità provenienti da ogni campo, felici di apparire all’interno di una kermesse ormai divenuta popolare ed assolutamente mainstream.
Ciò ha portato anche il colosso Netflix a realizzare, dal 2018 in poi, una serie incentrata proprio sul circus motoristico: Drive to Survive. La scansione antologica del prodotto, perfettamente aderente allo sviluppo su base annuale della competizione sportiva, ha permesso di offrire al pubblico della piattaforma una visione in cui, ad ogni stagione, viene fatto corrispondere uno specifico mondiale.
Sorvolando sulle licenze poetiche e sui forzati elementi di fiction inseriti nel prodotto, col fine ultimo di alimentare alcune rivalità fino al parossismo e di incontrare i gusti di una platea nuova e non abituata alla Formula 1, Drive to Survive ha avuto il merito di sfruttare la rinnovata fama della competizione per generare una serie assolutamente originale.
Certo, il cinema era giunto prima di tutti sulla materia: oltre al meraviglioso Rush (Ron Howard, 2013), incentrato sulla rivalità Hunt-Lauda, era arrivata già nei ’60 una pellicola iconica come Grand Prix (John Frankenheimer, 1966), passaggio fondamentale nella storia della disciplina sportiva: fu proprio in tale occasione che, infatti, vennero posizionate per la prima volta delle innovative macchine da presa sulle monoposto, inaugurando una modalità di visione che – passando attraverso tecnologie più efficienti e meno ingombranti – gode tuttora di ampia considerazione.
Quest’ultima pellicola fu protagonista di un incredibile testa a testa con Day of the Champion, il lungometraggio che Steve McQueen volle realizzare ad ogni costo ma che, per varie e sfortunate coincidenze, non riuscì mai a vedere la luce. Il recente documentario Steve McQueen: Il film perduto (Alex Rodger, 2016), oltre a raccontarne gli sviluppi, ha avuto il merito di riproporre, a distanza di mezzo secolo, alcune sequenze ritenute ormai perdute per sempre.
L’attore americano riuscì a riscattarsi parzialmente con Le 24 Ore di Le Mans (Lee H. Katzin, 1971), pellicola nella quale alcune macchine da presa vennero installate su di una Porsche 908 presente nell’edizione del 1970 della celebre corsa; inoltre, dopo aver noleggiato per vari mesi il circuito de la Sarthe, McQueen poté guidare una Porsche 917, completando così le scene mancanti del lungometraggio assieme a numerosi piloti professionisti, ingaggiati a peso d’oro per l’occasione.
Nel corso degli anni, anche il mondo degli anime ha deciso di cimentarsi con i motori grazie ad alcuni spokon: Superauto Mach 5 (1967), della Tatsunoko Productions, è stato forse il primo esperimento in tale senso, tornato a nuova vita con il remake del 1997, ai più noto come Speed Racer X. Il prodotto, tra l’altro, è stato traposto anche su pellicola, dalle sorelle Wachowski, nel 2008.
Ma anche la Toei Animation, con Grand Prix e il campionissimo (1977), decise di dedicare un anime al mondo della Formula 1; lo stesso studio di animazione, però, con Falco il super bolide (1976) esplorò anche altre realtà, come rally ed endurance. Supercar Gattiger (1977), invece, mostrò un tentativo diverso da parte della Mako Productions, che provò ad esplorare mondi diversi ideando un’auto-frankenstein ed immettendo i protagonisti in una dura lotta contro un’organizzazione criminale mondiale, creando una commistione di generi con il mecha.
Tutti prodotti creati a stretto giro, seguiti dopo qualche anno da F – Motori in pista (1985): il manga di Noboru Rokuda, poi trasposto anche in versione anime nel 1988 dallo Studio Deen, è probabilmente lo spokon più popolare mai dedicato alla Formula 1, oltre che al mondo dei motori in generale. Infine, il più recente Capeta (2003): ideato da Masahito Soda e poi reso anime dallo Studio Comet nel 2005, ha legato il proprio nome al mondo dei go-kart.
Era, quindi, solo una questione di tempo prima che nascesse un nuovo prodotto, soprattutto alla luce della rinnovata popolarità acquisita dalla Formula 1 nell’ultimo decennio. Ma se la citata serialità di Drive to Survive offre un quadro pseudo-documentaristico della massima competizione motoristica al mondo, ben diverso è l’apporto di Overtake, scritto da Ayumi Sekine e prodotto dallo studio nipponico Troyca.
Anzitutto, si parla di uno spokon ambientato nella Formula 4 giapponese, territorio mai esplorato in passato da anime e manga; in secondo luogo, monoposto e personaggi mantengono una diffusa componente di originalità, fornendo un’importante caratterizzazione ai protagonisti e cercando di creare una trama multistrato, evitando di rendere il prodotto soltanto una mera (e vuota) rappresentazione di gare automobilistiche.
A partire da Haruka e Kouya, i due pilastri del racconto: il primo, è un giovane in rampa di lancio nella Formula 4 giapponese, figlio di un ex pilota che rapidamente scopriremo essere scomparso anni addietro a causa di un incidente di gara; il secondo, è un fotoreporter freelance che si appassiona alla disciplina, imparando a conoscerne tecnicismi e nozioni assieme allo spettatore.
Le due figure evolvono e mutano nel corso della stagione, mostrando gioie, timori, ripensamenti e un’ampia gamma di emozioni umane, portando lo spettatore ad affezionarsi alle sorti della Komaki Motors, una piccola scuderia a conduzione familiare capeggiata da Futoshi e da suo figlio Kotarou, unico meccanico del team in cui troviamo anche Haruka in qualità di primo, nonché unico, pilota. Questi, inoltre, a causa del triste destino del padre, è cresciuto all’interno della famiglia Komaki, che lo ha sostanzialmente formato come persona, oltre che come pilota.
I principali antagonisti, per così dire, sono costituiti dal team Belsorriso – difficile non cogliere il riferimento alla Scuderia Ferrari, anche soltanto per l’inconfondibile colore rosso che risalta sulle vetture. Un vero e proprio colosso della competizione, essendo dotato di un budget immenso e di un comparto tecnico-meccanico ampio e preparato, sommato ai due piloti Satsuki e Toshiki: il primo, da buon ammiratore di James Hunt, si muove con una fitta schiera di ragazze al seguito, tutte alla ricerca di un autografo o di una foto da scattare con il proprio idolo; l’altro, invece, è il secondo pilota della scuderia, molto più serio e pacato nei comportamenti ma, al contempo, bramoso di conquistare il primo sedile del team ai danni di Satsuki.
Completano il quadro Saeko, figura di rilievo di un importante magazine giapponese nonché ex-moglie di Kouya, Alice, grid girl della Belsorriso e amica d’infanzia di Kotarou, e Kyosuke, il boss della Belsorriso.
Tutti i personaggi principali, nel corso dell’unica stagione prevista dallo studio Troyca, mutano la propria condizione e la propria percezione del mondo, incrociando i rispettivi destini con quelli della competizione e di altri fattori esterni. Come scopriremo nel corso delle puntate, Kouya cela dentro di sé un enorme dolore legato al grande maremoto del 2011, che colpì con violenza proprio il Giappone. Lo stesso Satsuki, dietro la sua apparenza frivola e leggera, mostrerà tanta forza e determinazione, fattori decisivi per poter essere il primo pilota di una scuderia – come scoprirà, a proprie spese, Toshiki. Per non parlare di Haruka, la cui amicizia con Kouya permetterà a entrambi di crescere e superare i dolori del passato. L’anime riesce a condensare molti avvenimenti in 12 puntate, creando un orizzonte di prospettive decisamente più ampio delle gare motoristiche. È probabilmente questo il merito più grande di Overtake, che sceglie consapevolmente di usare il mondo delle corse automobilistiche come mezzo, e non come fine, per raccontare più storie intriganti ed avvolgenti.
Il grande balzo in avanti, forse, risiede proprio nell’aver preso coscienza della disciplina e, contando su un pubblico più esperto in materia, di aver deciso di esplorare la componente umana attorno alle monoposto, creando una serialità orizzontale – pur se legata ad una sola stagione – capace di muoversi tra storie, sentimenti e sviluppo dei personaggi, senza sfruttare esclusivamente le belle animazioni o dei facili richiami alla storia del motorsport.
In definitiva, un nuovo step nel rapporto tra automobilismo e fiction, nella speranza che il futuro riservi ancora altre piacevoli sorprese come quella realizzata da Ayumi Sekine e dallo studio Troyca per Overtake.