Mi chiedo cosa direbbe mio padre se oggi vedesse la sua scrivania trasformata in dispensa. Quel mobile antico, con la ribaltina e la sua raffinata serie di cassettini interni, rappresentò per lungo tempo il suo mondo segreto. E prima ancora fu quello di suo padre, il mitico nonno Anselmo. Se la memoria non m’inganna, quello scrittoio troneggiava all’entrata dell’alloggio dei nonni a Riborgo, unico pezzo di pregio della mobilia di famiglia salvata dalla furia distruttrice dei partigiani titini e trasportato rocambolescamente in una notte drammatica da Fiume a Trieste, una storia che a tavola, coi parenti, non mancava mai, come lo strudel di mele, quando arrivava l’autunno. Nonno e padre me li ricordo entrambi, corpulenti e solenni davanti al loro mobile austero, sempre indaffarati, sempre alla ricerca di qualcosa che però non si capiva mai bene cosa, a volte assorti, come a cercare di riprendersi una boccata di gioventù.
Ora gli odori sono cambiati, il profumo di cera d’api mescolato a tabacco da pipa e cancelleria varia ha lasciato il posto a un pungente odore di croste di formaggio avvolte in panni umidi, al fetore della frutta ammuffita stipata alla bell’e meglio, ai pacchi di sale, al caffè e ai pezzi di lardo irrancidito. Si tratta, è vero, di una situazione di emergenza, hanno detto che le cose presto torneranno come prima, ma in questo momento è così, dobbiamo adeguarci, anche perché non sapremmo come salvarci altrimenti dai topi, soprattutto ora che è ritornato il freddo e quelle bestiacce in casa la fanno da padrone.
Ricordo l’incredulità dei primi giorni, quando ancora non si sapeva nulla, le voci concitate provenienti dalla strada, le lunghe code di auto in fuga verso la campagna, la paura. Mi fa quasi tenerezza ripensare oggi a quella candida preoccupazione per le cose, a quell’impulso che ci prese tutti di salvare il salvabile, o almeno di cercare di proteggere gli oggetti cari. Saremmo stati in grado – la domanda era sempre la stessa - di fare ciò che già i nostri antenati avevano fatto durante le guerre passate? Dopo una settimana, con gli stessi pensieri e le stesse domande, ci apprestavamo a bruciare i primi libri. Poi è stata la volta delle sedie e dei piccoli tavoli. Da allora non ci siamo più fermati. I militari ci hanno però subito ammoniti, niente fuochi durante il giorno, motivi di sicurezza.. Come faremo? Il freddo comincia a farsi sentire. Avremo abbastanza coperte? Ogni giorno sorgono gli interrogativi più strani.
Questa notte ci sono stati nuovi bombardamenti, fortunatamente non è stato colpito il nostro quartiere ma la zona sud della città, verso l’aeroporto. Da casa si potevano udire i rombi delle esplosioni, come tuoni in lontananza. Quei suoni tenebrosi hanno subito attizzato i miei ricordi, riportandomi al tempo in cui noi fratelli, terrorizzati dai frastuoni dei temporali estivi, ci intrufolavamo nel letto di nonna, e lei, che di guerre ne aveva vissute due, ci accoglieva sorridendo, confortandoci con una leggerezza che a noi pareva coraggio.
Il comandante Alzen, con quei suoi occhi scuri che conosco dai tempi in cui era un ragazzo, è passato questa sera portando con sé un pacchetto di biscotti alle noci – che Dio lo benedica – Anche questa volta mi ha intimato di restare in casa, anche se parlare di casa è ridicolo perché dell’edificio originario resta ben poco, ma almeno un soffitto sopra la testa c’è e pazienza se i muri intorno sono tutti sbrecciati. Alzen ha colto l’occasione per esprimere il suo disappunto riguardo alla mia presenza in città – sei ormai l’ultimo abitante in questo inferno mi ripete ogni volta con insistenza – Ma io so che lui può capire bene la mia testardaggine. Quando mi rintano nel letto alla sera e guardo su, verso la parte di soffitto ancora intatto, per un attimo ho l’illusione che tutto ciò che sta accadendo intorno a me sia solo un brutto sogno e la vista della sagoma dello scrittoio, illuminata dai lampi delle esplosioni, la riprova che non ci sia nulla da temere. Il segno rassicurante della presenza di mio padre.
Nevica. Ho messo una vecchia tenda di velluto pesante al posto della finestra grande, quella che dava sulla strada. La finestra non esiste più da quel mercoledì maledetto. E poco è rimasto della parete che ci stava intorno. Quel giorno – ma quanto tempo è passato? Una settimana? Un mese? - la mia amata Elda era sul balcone e da lì aveva preso a chiamarmi dicendo Dario, Dario, vieni a vedere ci sono le strade piene di soldati.. poi improvvisamente c’è stato un boato tremendo e la nostra vita è cambiata. Non ha avuto neppure il tempo di urlare la mia Elda, l’intera parete della casa le si è come sbriciolata addosso e tutto è andato giù, scomparendo in una pioggia di schegge di vetro, di polvere e fuoco. La mia Elda si è dissolta così. Lei che amava le magie avrebbe sorriso per quell’uscita di scena! Da quel giorno le ho promesso che non avrei mai più lasciato la nostra casa. Considerati gli ultimi, drammatici avvenimenti, si tratta di una decisione folle, me ne rendo conto. Il buon Alzen dice che è un suicidio. Ma anche lui è vissuto in questo quartiere, per questo credo che mi capisca. E anche lui voleva bene a Elda.
Ho salvato poche cose dal giorno dell’esplosione, una manciata di fotografie, un vecchio binocolo – potrebbe tornare utile ho pensato - e un piccolo tavolo che necessiterebbe di qualche cura anche se sembra decisamente finito il tempo per questo genere di preoccupazioni, temo farà la fine di quegli altri due mobiletti che ieri sera ho trasformato in legna da ardere. Ha ragione Rilke, sopravvivere è tutto. Nel frattempo raccolgo ciò che è rimasto di Elda. Tutte le volte che mi spingo in fondo alla casa – e lo faccio varie volte a giorno perché questo è il mio pellegrinaggio della memoria - trovo qualcosa. Laggiù ho organizzato una specie di altare, alla sera accendo una candela e resto a guardare ciò che resta di Elda, una coppia di bottoni della sua camicetta a fiori, una ciocca di capelli, i resti lacerati di una pantofola. Darei qualunque cosa pur di trovare un brandello della sua carne, ci sono giorni in cui prego di poter recuperare una delle sue belle mani o anche solo un dito, si lo so, è terribile anche solo da dire, ma chi non ha provato una tragedia simile non può capire come si diventa ossessivi, morbosi, pazzi pur di avere qualcosa a cui aggrapparsi, qualcosa da cullare o da baciare.
La monotonia dei giorni scorsi ieri è stata spezzata da una nuova visita di Alzen che questa volta si è presentato con una coppia di civili con un neonato, dicendomi di averli trovati nascosti sotto alle macerie ma di non sapere esattamente chi siano. Senza giri di parole mi ha poi chiesto di ospitarli, almeno fino allo scemare della minaccia di un nuovo attacco e credo che in fondo lo abbia fatto per me anche se ha parlato di sostegno reciproco. Sicuramente la donna e il piccolo ne trarrebbero beneficio – ho subito pensato - le strade della città pullulano di gruppi di uomini sbandati dediti allo sciacallaggio, senza un rifugio per loro due sarebbe la fine. Così ho detto sì e li ho fatti entrare dimenticandomi di non avere più una vera casa ma una specie di rudere con gli spazi occupati da macerie, tappeti e tendoni tesi a mò di capanne di fortuna sopra ciò che resta dei letti. Loro fortunatamente non si sono formalizzati e hanno trovato subito il modo di accamparsi. Più tardi ho scoperto che il giovane si chiama Bruno e che più che di un uomo si tratta di un ragazzo, probabilmente un soldato traumatizzato dalle bombe ma questa è una mia congettura perché lui non dice una parola, per il momento comunichiamo con piccoli messaggi in inglese scritti su strappi di carta di giornale. Inoltre Bruno non c’entra nulla con la donna che si chiama Angelika, ora è chiaro non sono una coppia. Anche con lei è difficile comunicare, continua a ripetere “Dag! Dag!” indicando col dito qualcosa in lontananza ma fatico a capire. In compenso il piccolino, che si chiama Reto, è un vivace bebè di pochi mesi e Angelika lo allatta con impegno, senza nascondersi e questa è una buona cosa.
Il nostro primo giorno insieme è passato così, guardandoci a vicenda, a volte sorridendo, aiutandoci nel cercare di isolare gli spazi, utilizzando tutto ciò che si trova a portata di mano all’interno dell’appartamento bombardato Oggi, a distanza di settimane dall’arrivo di Bruno, posso dire che senza di lui non ce l’avrei mai fatta. Inutile negarlo, alla mia età e per le mie condizioni fisiche io dipendo quasi completamente da lui. Se Bruno ogni giorno non rischiasse la vita andando in giro in città alla ricerca di cibo, io non potrei sopravvivere. Gli siamo tutti riconoscenti per questo. Non parliamo la stessa lingua ma ci scambiamo spesso delle occhiate piene di complicità. Ieri è tornato con un cane morto, non gli ho chiesto se l’ha trovato o se l’ha ammazzato con le sue mani ma gli ho subito detto no, non riesco a mangiare un cane. Mi ha sorriso, ha messo l’animale in un grosso secchio di plastica e si è ritirato a dormire sul divano. Quando è ritornata sera l’ho visto accendere il braciere – solo alla sera è permesso accendere fuochi - con i resti di una vecchia sedia e armeggiare con la tanica dell’acqua e una pentola mai vista prima e poi mi ha detto vieni, ho fatto una minestra ed io nella semioscurità ho preso dalle sue mani una ciotola bella calda, nella quale schiumeggiava un liquido ricco e profumato di spezie che ho immediatamente avvicinato alla bocca scoprendo galleggiare sulla superficie grossi bocconi di carne, eh si, era carne di cane, la fame di tre giorni ha però subito fugato ogni dubbio sulla scelta da fare, mentre Bruno mi guardava e ridacchiava da dietro i suoi baffetti radi adolescenziali. Di solito mangiavamo in silenzio. Capitava a volte che Angelika, senza preavviso si mettesse a piangere, altre volte ci pensava il piccolo Reto, iniziando una nenia di singhiozzi e piagnistei che ci accompagnava per tutta la notte e allora era sempre Bruno che cercava una coperta o una sciarpa, qualcosa insomma da metterle sulle spalle e la prendeva amorevolmente sottobraccio, accompagnandola verso il suo letto.
Bisognerebbe sempre avere uno specchio di scorta. Perché in tempo di pace diamo tutti per scontato che di specchi sia pieno il mondo, poi le cose cambiano, arriva una guerra e di colpo tutti gli specchi scompaiono e solo allora si capisce quanto siano importanti. Provate a stare un mese senza confrontarvi con la vostra immagine, a mendicare un riflesso del vostro viso nella scheggia di una bottiglia, provate e sentirete la vostra identità sfilacciarsi inesorabilmente, giorno dopo giorno, e con lei perdere il senso della realtà intorno. La mancanza del riferimento quotidiano con il proprio volto fa danni nel profondo, aliena il pensiero fino a farlo scomparire.
Grazie a Dio mi sono ricordato di un piccolo specchio in peltro appartenuto a mia madre, che Elda conservava in un cassetto e che ora maneggio come una reliquia, tirandolo fuori dal suo nascondiglio solo di tanto in tanto. Devo ammettere che la prima volta che mi sono rispecchiato sono rimasto scioccato dal mio volto aguzzo e pallido. Chi è costui? Mi sono chiesto. Pensare che questo specchio è legato a stagioni così gioiose della nostra famiglia, alle innumerevoli volte in cui, da bambino, mi sono fermato ad osservare mia madre intenta ad imbellettarsi nella sua camera. E quanto avrei voluto carpirne i segreti, perché sì gli specchi vecchi, come questo, si dice abbiano una vita propria, una memoria. E se in questi tempi grami non è piacevole specchiare il proprio pallore malsano è invece di immenso conforto ritrovare in quel magico ovale tracce intatte della vita passata. Ecco il volto sorridente di mamma giovane, donna piena di sogni, ecco il riflesso del sole nella stanza, i nostri sberleffi di bambini, papà magro ancora con molti capelli in testa...ecco... devo fare in modo che questo specchio non cada in mani nemiche.
Non posso credere che mani sudice e grassocce possano un giorno anche solo sfiorare questo sacro oggetto né che volti barbuti dal ghigno sadico si frappongano nella sua magica memoria ai sorrisi adorabili dei miei cari, no, questo non potrei sopportarlo. Troverò un buon nascondiglio per lui. Ma se è il caso, intendo il caso estremo, sono pronto a distruggerlo, insieme a tutti gli altri oggetti.
Non capita tutti i giorni di bruciare un pianoforte. Il nostro era un Bösendorfer, un pregevole strumento. Pensare che pochi giorni prima dell’inizio della guerra avevo telefonato al maestro Jang, il nostro accordatore, un cinese molto rinomato in città per la sua professionalità. Ho provato a contattarlo subito dopo il primo attacco di missili sulla città, volevo rimandare il nostro appuntamento. Non mi ha mai più risposto. Comunque per un po' non avrò più bisogno di lui, il pianoforte non c’è più. Per lui, ahimè, non c’era più nulla da fare. L’intero soffitto della sala da pranzo gli è letteralmente crollato addosso, sconquassandolo. Se il maestro Jang fosse qui ora forse potrebbe aiutarmi a ridurre a pezzi a colpi di mazza le ultime parti dell’amato strumento. Li costruivano con grande cura i pianoforti alla Bösendorfer, l’ossatura interna è super solida, la mazza deve lasciare presto il posto ad una grossa sega da boscaiolo. Se avessi immaginato una scena così brutale anni addietro penso che avrei pianto, oggi, che la vivo realmente, riesco quasi a trovare un senso tragico – poetico in tutto questo, del quale subisco il fascino.
Ad ogni colpo riappaiono memorie dimenticate, gli interminabili pomeriggi a solfeggiare con la severa maestra Hofer, gli haus-konzert con le frizzanti allieve della scuola estiva e le loro gambe nude tutte da spiare sotto lo sgabello, mia madre che suona Brahms per l’ultima volta mentre mio padre agonizza sul divano...ecco, per tutte queste energie spese, questi sogni, queste emozioni ora c’è un un’unica nota, un crepitio secco tra una fiamma e l’altra. La magia della musica si rinnova anche così. Mentre nugoli di scintille lucenti cercano la fuga in alto verso il cielo attraverso le spaccature del soffitto. Amen.
Ho sentito dire da non so chi, forse ancora Alzen, che a sud, sulla costa, la guerra non è arrivata, che insomma laggiù fanno vita normale. Sembra veramente incredibile che qui noi si stia ormai da mesi in mezzo alle macerie e a poco meno di 500 km più giù la gente passeggi sul lungo mare. Pensare che da ragazzo ho sognato a lungo di vivere in una città di mare, di imbarcarmi, di avere una vita avventurosa. Anche l’incontro con Giada, il mio primo amore, che laggiù aveva famiglia.. mi aveva fatto immaginare una vita a quelle latitudini e tutto faceva pensare che quello fosse il mio destino ormai segnato. Se lo fosse stato veramente io oggi non mi troverei qui, accampato tra le macerie. Ma all’epoca ebbi paura di spiccare il volo, inventai delle scuse, non mi feci più trovare. Fui vile e quindi è giusto che ora me ne stia in questo girone infernale.
Da quanto tempo non piove? Abbiamo messo fuori dalla porta tutti i secchi e le latte disponibili solo così, alla prima pioggia, possiamo sperare di raccogliere qualcosa. Le riserve sono finite. Si può resistere senza mangiare, si può sopportare il freddo, ma vivere senza bere è impossibile. Lo sa bene il piccolo Reto, infatti sono già due giorni che piange quasi senza interruzioni e vedo nella faccia di Angelika tutta la disperazione di una madre. Io non mi posso muovere granché a causa della mia postura malferma ma Bruno non si risparmia. Anche questa mattina, non senza rischi, ha fatto un giro tra i ruderi del nostro quartiere alla ricerca di acqua, purtroppo senza successo. Se la carenza d’acqua non fosse drammatica ci sarebbe da ridere perché lo sgabuzzino della cucina è stipato di bottiglie di vino, lo ammetto bere era una mia grande passione, con gli amici non esitavo a stappare etichette pregiate, roba fina, italiana, francese. Ora tutte quelle bottiglie inutili appaiono per quello che sono, espressione della vanità di un tempo. Non ci si disseta con il vino, non ci si fa nulla con il vino, non ci si cucina la pasta, non si possono lavare i piatti né è possibile nettarsi il culo quando serve.
E se apparisse Gesù proprio qui ora di fronte a noi, non ho dubbi, lo implorerei di ripetere il miracolo degli sposi di Cana ma per una volta di farlo al contrario! Certo che quando ancora non c’era penuria d’acqua il vino un po ce lo siamo goduto, sì, un giorno c’abbiamo dato dentro e ci siamo ubriacati tutti, forse è stata la volta in cui siamo riusciti di più a comunicare..A suo modo è stato spassoso, ognuno ha calato le proprie maschere, Bruno poi, da muto che pareva, si è rivelato addirittura un provetto cantante. E dai suoi “Jodler” inaspettati abbiamo anche scoperto che è svizzero. Che cosa ci faccia uno svizzero qui ai confini del mondo resta comunque un mistero anche perché lui si è ben guardato dal rivelarlo. Che sia un mercenario? Angelika invece è turca, faceva la ballerina all’Excelsior, l’albergo più prestigioso della città, poi è rimasta incinta e l’hanno mandata via. Aveva trovato un altro lavoro, era operaia in una fabbrica ma la guerra ha distrutto i suoi sogni. Bruno mi ha lasciato un biglietto in cui dice che se anche oggi non dovesse piovere proverà a fare un giro intorno all’isolato portando con se il secchio per l’acqua. Una scelta disperata già tentata in passato che io personalmente non condivido e che è costata a tutti un attacco di dissenteria che ci ha debilitati per giorni.
Ancora scontri, pochi minuti fa si sono udite urla provenire dalla strada proprio qui sotto e raffiche di mitra sono rimbalzate sui muri della casa. Sembra proprio che i combattimenti riguardino ora il nostro quartiere. Angelika, forse a causa di questa minaccia, questa notte ha pensato bene di infilarsi nel mio letto, l’ha fatto così, con naturalezza e senza preavviso e la cosa mi ha colto di sorpresa al punto che mi sono dimenticato di chiederle dove aveva lasciato il piccolo Reto, lei da parte sua non ha detto una parola, si è rannicchiata di schiena contro il mio petto e dopo avermi preso la mano mi ha fatto cenno di abbracciarla e di tenerla stretta. Io ho subito ubbidito, intenerito e curioso al tempo stesso. Mentre affondavo il mio viso nella massa scura e affumicata dei suoi capelli ho provato una fitta al cuore, ripensando a quante volte ho patito la mancanza di un contatto fisico in questi mesi di guerra. In tempo di pace era tutto diverso, non c’era notte nella quale con Elda non ci addormentassimo con il rituale della conchiglia – così lo chiamavamo - abbracciati di schiena, in silenzio, morbidamente incastrati uno nell’altro. Certo Elda aveva curve e rotondità più rassicuranti, il corpo di Angelika risulta al contrario spigoloso e ossuto, ma quando si è in mancanza non si va per il sottile. Ma tu Elda che mi guardi dal cielo, mi perdonerai? Una esplosione ravvicinata ha fatto tremare la casa illuminando per un istante a giorno la camera da letto che tra tendaggi e coperte appese appare come una zattera di naufraghi in mezzo alla tempesta. Ho anche sentito Reto piangere nell’altra stanza, e temuto egoisticamente la fine dell’abbraccio con Angelika, ma non ho fatto nulla per trattenerla e lei si è scostata appena e con mia sorpresa, lo ha fatto unicamente per ritrovare una nuova posizione, ancora più ravvicinata. Un movimento che però ha sortito un effetto imprevisto, provocandomi una erezione che dapprima mi ha rallegrato per farmi sprofondare subito dopo in un profondo imbarazzo. Fortunatamente la stanchezza mi ha vinto e sono crollato in un sonno profondo, sognando come mai mi era successo prima. La città era tornata integra. Le strade erano piene di gente festosa, c’era la mia Elda con un vestito a fiori dalla scollatura generosa che lasciava intravvedere il petto ansimante mentre lei, tutta accaldata rideva, rideva senza smettere. La guerra era finita.
È morto! La voce di Angelika mi sveglia di soprassalto. In stato di semi-incoscienza la cerco dapprima nel letto e poi intorno e mi monta dentro un’angoscia pazzesca nel non riuscire a capire dove sia ...allora mi alzo, attraverso la stanza seminudo, schivando cumuli di immondizia ingentiliti dai raggi del sole e raggiungo il salotto. Il pavimento è tutto sporco di sangue. Mi trovo di fronte a una scena agghiacciante, Angelika immobile e pallida in piedi, di fronte a me, che tiene con una mano un fagotto insanguinato al petto e con l’altra indica il corpo di Bruno, riverso sul letto. È morto, è morto, ripete Angelika come un tragico mantra e io vedendo il piccolo Reto tutto insanguinato penso istintivamente a lui ma ecco il miracolo, nel silenzio, improvvisamente esplode il pianto salvifico del bambino.
Bruno deve averlo protetto, gli ha fatto da schermo. Cerca di spiegarmi in un sussurro la madre stremata. Avevamo fatto un patto, mi aveva detto che a Reto, per una notte avrebbe pensato lui...Ma non doveva andare così, no...Bruno. Non doveva andare così. La guerra è finita! La guerra è finita! Si odono voci di donna ridere e urlare e i suoni di musiche festose quasi dimenticate provenire dalla strada. Sopra la città sfrecciano due aerei supersonici che fanno tremare gli scheletri delle case. Noi tre, sopravvissuti, restiamo abbracciati in mezzo alla stanza, ascoltando la gioia e la disperazione rompere in un unico pianto.