Kindu, Nassiriya, oblio: sono i vertici di un triangolo che, tristemente, segna una inveterata abitudine degli italiani, quella di celebrare, sino al parossismo, i successi, i momenti esaltanti, ma di fare cadere, colpevolmente, la polvere della dolosa cancellazione dalla memoria collettiva su episodi tristi, da dimenticare per farci stare meglio.
Il nostro Paese ha sempre vissuto, con occhio strabico, i momenti di eroismi, facendosi condizionare, oltre ogni ragionevolezza, dal considerare la celebrazione dell'eroismo come ad una offesa del ''cinismo nazionale'', lo stesso che oggi ha come conseguenza quella di non ricordare chi ha sacrificato la propria vita per l'onore dell'Italia, soprattutto in terre lontane. Come se questo potesse giustificare un mancato tributo a chi vestiva una divisa italiana o, comunque, rappresentava il Paese, anche a rischio della propria esistenza.
Oggi solo chi è avanti negli anni ricorda quel che accadde a Kindu, nel novembre del 1961, quando tredici aviatori italiani, equipaggi di due aerei inquadrati nella missione di pace per il Congo, allora dilaniato da una guerra civile che è eufemistico definire sanguinosa, furono massacrati da ribelli secessionisti, che fecero scempio dei loro corpi. L'evento scosse l'Italia, perché i particolari di quelle uccisioni efferate riempirono le pagine dei media, riportando il Paese ad una realtà da cui sperava, finita la guerra, di essere definitivamente fuori.
Fu quello forse il primo tassello dell'immagine dell'Italia come del Paese capofila dei peacekeeper, quelli veri, quelli che vanno in giro per il mondo a sostenere la pace o, forse, solo la democrazia, che spesso è un processo, difficile, lungo e non sempre immune da distorsioni. Ma, il passare degli anni e nuove occasioni per autocelebrazioni, hanno lasciato indietro, nei ricordi, quello di tredici giovani italiani che, convinti di portare la pace, andarono incontro ad una morte che, terribile come tutte le morti, lo fu di più perché non c'é una tomba vera su cui piangerne il ricordo, ma solo un memoriale in un incrocio stradale davanti all'aeroporto Leonardo Da Vinci che, mestamente, mostra i segni dell'irriconoscenza, quasi abbandonato.
Il processo di rimozione di ciò che ci ripropone il dolore collettivo è tornato in occasione della strage di Nassiriya, a noi molto più vicina (era il 2003), ma anch'essa oggetto di un accantonamento in un angolo della coscienza nazionale, quasi che quel sacrificio (in cui furono coinvolti militari e civili) debba essere dimenticato, sacrificato sull'altare della lettura ideologica che sembra contraddistinguere ogni nostro gesto. Certo, le due tragedie sono diverse, perché maturate in contesti non assimilabili se non dietro quel concetto abbastanza labile che è la pace; una parola che trova declinazioni diverse a seconda di chi la pronuncia. Ma quelle morti sono assimilabili ad un martirio, di cui però, come Paese, fatichiamo a fregiarci, quasi che la Morte assuma profili diversi a seconda di chi vince la gara ad accreditarsene i meriti o, per converso, a puntarvici addosso un dito accusatorio.
È difficile non fare paragoni su come, in altri Paesi, il ricordo di chi è caduto per la madrepatria sia celebrato, così come il rispetto per chi veste una divisa, confondendo il proprio credo politico con il riconoscimento di chi quotidianamente - almeno chi è chiamato a questo compito - può rischiare la vita per l'Italia. Non è questione di ideologie, che alla fine si riducono ad un continuo battibecco sul tema ''io sono migliore di te''.
Ma, per chi ha a cuore non le sorti politiche dell'Italia, ma il suo futuro (che dipende dal nostro passato), forse basta l'esempio di come nel Regno Unito, proprio di recente, siano stati ricordati i morti in guerra, tutti i morti, di tutte le guerre. E negli stadi, che mettono insieme il meglio e il peggio della società britannica, quando un solitario trombettiere ha suonato le note dolenti di un ‘silenzio' diverso da quello di casa nostra, tutte le bocche sono rimaste cucite, senza che un solo grido distonico si levasse. Perché i morti per la Patria sono uguali.