Non è uno spazio definito quello nel quale mi addentro; è uno spazio stretto ma che pure non stringe, non opprime, è avvolgente, ha a che fare con terra, foglie, odori; ci sto bene, sembra quasi che sia lo spazio a muoversi con me; è protettivo; c’è tepore, c’è fluidità. È la scoperta di un luogo ancora in gran parte inesplorato, che suscita meraviglia, timore e desiderio di inoltrarsi nelle sconfinate regioni del nostro sé, del nostro vedere oltre il visibile con la speranza di riscoprire una nostra consonanza con il sentimento del Bene.
Qui la parola è indulgente, incline a perdonare e a compatire, è parola innocente, che non può nuocere perché non ha esperienza del male, non lo conosce. Qui la parola è parola mistica e, come tale, per sua intima etimologia, è parola che contiene mistero, parola che non si dà nell’immediatezza ma che chiede devozione e perseveranza per avere accesso alla visione della sua magica potenza.
Non è parola facile eppure non è parola per pochi: è parola per tutti coloro che accettano di risalire alla sorgente del nome antenato, di viaggiare sulle rotte del sacro per ritrovare le proprie radici di divina umanità. Lì si incontrano le parole che tradiscono il non dicibile ovvero lo "trasmettono", lo ‘mettono a disposizione’ come accadeva prima che il tradimento del Cristo da parte di Giuda ricoprisse con la sagoma scura della delazione il primo significato del verbo latino tradere che era il consegnare, il passare di mano in mano in un gesto di offerta che era anche narrazione.
Qui si può ritrovare la parola che sa farsi materia pulsante, alimento e farmaco così da toccare i cuori che hanno perduto il calore dell’ascolto e della generosità e sono divenuti algidi, incapaci di riscaldarsi attraverso la forza sublime della compassione. E allora bisogna essere pronti a partire per andare là dove la Parola, antica Madre, ha avuto inizio, per ritrovare l’invocazione, la preghiera, per incontrare la benevolenza del suo sguardo, per non dimenticare la natura divina di questa Parola che attiene al sacro nella sua capacità di essere trina allorché sa contenere e generare ad un tempo l’emozione, la sapienza e la memoria.
È la Parola attraverso la quale l’angelo annuncia la vita, prepara la nascita nello spirito. È la Parola che si spoglia della sua veste mondana per tornare ad essere colloquio intimo capace di placare con una carezza la mente che si erge a giudice, che non ammette debolezza e fragilità. È la parola capace di esercitare il suo magico tocco che dischiude le porte serrate del dolore, del disprezzo, dell’indifferenza, della rabbia, un sentimento che ci accomuna agli altri esseri ma che solo l’uomo sa organizzare attraverso l’intelletto fino a farne pensiero di distruzione, ipotesi di guerra.
Non ho paura di inoltrarmi nel luogo dove tutto ha inizio, di cercare la sorgente del verbo primigenio. Inseguire la parola originaria in quei territori è accettare lo smarrimento, il disagio, talora il fastidio di intraprendere il viaggio per arrivare alla sorgente che custodisce la salvezza, la soteria dei Greci che aveva a che fare con la salute del corpo, con la sua bellezza oltre che con la salvazione dell’anima ed era anche una techne alypias, un mezzo, un’arte capace di aiutare a sopportare il dolore, a scioglierlo. Mai come ora abbiamo bisogno di ritrovare questa sanità nella bellezza.
Mi tornano in mente i versi sapienziali del poeta persiano Nezami:
La madre del fiato creatore, fin dall’inizio della creazione, non generò figlio più bello che la Parola. La Parola che è come lo spirito, immacolata, è la tesoriera dello scrigno del mondo, essa conosce storie mai udite, essa legge libri mai scritti, guarda bene e vedrai che di tutto ciò che Iddio ha creato nulla resta saldo se non la Parola, ciò che resta in ricordo dei figli degli uomini non è che la Parola. Tutto il resto non è che vento.
L’ascesa comincia con un viale fiancheggiato da alberi giganti, con mostri di pietra che guardano la via a regolari intervalli. D’un tratto si erge davanti a me una scalinata che, addentrata nel cupo verde, conduce ad una terrazza ombreggiata da altri alberi, e poi altri gradini conducono ad altre terrazze, tutte nell’ombra. Ho dovuto salire, salire, salire finché, quando la speranza andava perdendosi, è apparsa come in una visione, in un sogno, la casa ai piedi della cascata.
Sulla soglia della grande porta una figura di donna, ieratica e luminosa, coperta da un ampio mantello color amaranto tenuto dalle sue braccia come per accogliere e proteggere: un’immagine antica, evocativa e potente, con uno sguardo compassionevole. So che Lei mi riconosce e io conosco Lei più di ogni altra parola, Lei che non si è mai dissolta nel vortice del tempo. Tante altre parole lo hanno fatto, eppure erano care al mio cuore. Le rendo omaggio e le parlo:
Non ti ho mai dimenticata ed ho voluto tornare ad incontrarti là dove un giorno tu mi hai concesso di ascoltarti. Mi hai fatto conoscere i sacerdoti egizi che mi hanno insegnato a cantare le lodi degli dèi attraverso il suono delle sette vocali, mi hai affidato le parole magiche che stanno a guardia della soglia perché i nomi dati alle cose non siano violati dalla follia, dal disprezzo, dall’indifferenza e dalla mediocrità.
Rendo onore a te che sei la misericordia, al tuo cuore che sente pietà, che si volge alla comprensione e al perdono, che nutre e alimenta l’animo di chi è nella sofferenza.
La misericordia è parola prima e ultima, è parola di libertà perché, nuda di ogni maschera o travestimento, è ciò che resta quando si guarda l’altro senza giudizio, senza richieste. L’incontro con la misericordia fa ritrovare e placare memorie ed emozioni aggrappate al nostro cuore fino a togliergli il respiro: grazie a lei possiamo purificarci da vecchi risentimenti fino a rivivere il piacere di avvolgere ed essere avvolti dal manto caldo, morbido e indulgente della compassione, in una confidenza, una pienezza d’amore di cui patiamo la mancanza.
Quando ciò accade il nostro pensiero si apre a dimensioni benefiche, colme di sentire materno che tocca il cuore, che mette a riposo la mente che pensa, e induce l’animo ad una sorta di purezza. Torniamo a percepire il tessuto vivo del nostro sapere antenato, della nostra appartenenza; possiamo accedere ad uno spazio interiore che è fonte di guarigione, che è in rapporto alla capacità tutta femminile del prendersi cura, in un diverso modo di comunicare ed anche di conoscere che si trasmette nella forma egualitaria del cerchio anziché in quella severa e autoritaria della piramide.
È uno scambio, un bisogno di condividere e di raccontare il proprio essere nelle cose, di incontrare e di accudire attraverso la vicinanza, il contatto, è il gesto ancor prima della parola: avvolgere, abbracciare, accarezzare, contenere, accogliere, percorrere il corpo con lo sguardo sono tutte espressioni del sacro alfabeto della benevolenza. È forte il bisogno di immergersi nella profondità di una visione che è al tempo stesso mistica e intensamente corporea, in equilibrio fra il desiderio di abbandonarsi, di perdersi nel vuoto della mente e il richiamo a tornare nel mondo con pienezza. Esplodono emozioni intense che risuonano nel respiro originario.
Come sospinti da una irresistibile forza si è costretti ad andare là dove si è fermato il dolore, dove si è raggrumata la nostalgia, a stare là dove il corpo grida con una voce che non è odio ma pianto per l’umana ingiustizia. Attingere alla fonte potente e lieve della Parola-Madre fa sentire il bisogno di vedere in ogni cosa la bellezza ed è con la forza di questo desiderio che possiamo incunearci nella sofferenza delle esistenze per creare punti d’armonia, spazi consolatori nei quali ritrovare il piacere di scambiare parole divine.
L’enunciazione della parola acquista il valore di un atto simbolico. Attraverso la parola andiamo a cercare l’altra parte della tessera che ci permette di far combaciare il nostro sentire con quello dell’altro. Senza questa coincidenza la parola fatica a respirare, si appesantisce e non ha abbastanza forza per toccare le corde dell’anima. Entrare nella casa della Parola-Madre è approfondire la conoscenza del nostro sé, è prendersi cura delle nostre zone più oscure ed è grazie a questa esperienza che possiamo risalire all’origine delle nostre paure, allentare gli stretti nodi del nostro dolore antico, ma anche frequentare il perdono e vederne la forza.
Dall’oscurità profonda emergiamo dopo un paziente e minuzioso lavoro di ricucitura di emozioni e sentimenti che vagavano come forme irrequiete, talora poco riconoscibili e non definite con chiarezza. Ricalchiamo le nostre impronte originarie e ritroviamo la nostra capacità di nutrire attraverso la gentilezza.
È un dono quello che mi accompagna sulla via del ritorno:
Invocazione, preghiera, benevolenza, perdono, misericordia, perseveranza, devozione, pietà, salvezza, indulgenza, innocenza, gentilezza.
Sono parole che scorrono fluide come rosolio versato da una bottiglia di cristallo. Ne sono presa per incantamento ed entro nella loro sonorità come nella voce avvolgente e mirabile di antiche campane tibetane. Le porto con me e le verso nel terreno umido e scuro dell’l’inverno perché possano nutrirsi e tornare a nascere.
Sono tempi nei quali un’ombra cupa sembra attraversare gli animi che si sentono smarriti e incapaci di comprendere il silenzio del Bene. Ed è proprio quando più forte sentiamo prevalere la paura, che dobbiamo avere il coraggio di andare a ritrovare la Parola-Seme, la parola iniziatica, di ritornare in quella dimensione ancestrale nella quale ancora albergano la pazienza, l’accoglienza, l’amorevolezza.