Sono sempre più diffusi i siti online di abbigliamento low cost. I colossi dell’abbigliamento a basso prezzo hanno fondato il proprio business sui principi del fast fashion, ovvero la creazione e la messa in produzione di grandi quantità di prodotti tessili a costi concorrenziali, creando intere collezioni ispirate e molto spesso copiate alle passerelle dell’alta moda. Un modello di business reso possibile riducendo la qualità della materia prima e anche tristemente quello del costo del lavoro, commissionato maggiormente ai paesi esteri meno sviluppati.
Questo nuovo concetto di produzione nasce a cavallo tra gli anni ’70-’80 negli Stati Uniti con l’idea di democratizzare l’accesso ai capi d’abbigliamento, dando la possibilità inizialmente alla classe operaia di accedere a una tipologia di indumenti fatti in serie ed economicamente accessibili, mentre i capi sartoriali e le boutique rimanevano ad appannaggio esclusivo delle classi più abbienti.
Con il rapido cambiamento sociale e degli stili di vita, negli anni ’90 questo nuovo modo di fare moda favorirà la nascita di grandi aziende monobrand che seguono i criteri di quello che ad oggi indichiamo come fast fashion. Un termine coniato nel 1989 dal quotidiano New York Times, il quale indica il modello di business che concede di immettere sul mercato in tempi brevissimi sempre nuovi capi, facendo leva su un nuovo processo di ideazione, creazione e distribuzione. Ad oggi la moda veloce è cresciuta in maniera esponenziale grazie anche alla nascita dell’e-commerce. Un mercato che dai dati emersi da una ricerca della giornalista Cristina Gennari realizzata per Lab24h, vale 120 miliardi di dollari a livello globale e che arriverà a 184 miliardi entro il 2027.
In quale società prende piede la moda veloce
Dopo gli anni 2000 questo modello di acquisto si espande anche grazie alla nascita di moltissimi marketplace che in tempi altrettanto brevi ed economici, soddisfano il nostro bisogno di comprare. Un impulso irrefrenabile di possedere capi di tendenza che emulano il design dei capi di lusso ma a costi molto più accessibili. Così, il piacere di cambiare e di sfoggiare sempre nuovi look sui social, insieme alla crisi economica attraversata negli ultimi anni, hanno dato modo di sviluppare stili di vita a stretto giro, che concedono così al cliente finale di potersi permettere vari look, più economici, ma sempre diversi e che possibilmente verranno cestinati con la stessa velocità. Modalità che impatta in maniera seria su diversi settori, tra questi: l’ambiente, i diritti dei lavoratori e l’industria tessile di alta gamma.
Per andare incontro ai bisogni di questa tipologia di clienti, i player (aziende o gruppi di distribuzione di abbigliamento) immettono sul mercato dai 3.000 ai 6.000 capi al giorno, con un prezzo medio di 7 euro al pezzo. I capi non seguono delle stagioni di uscita, in alcuni casi nemmeno delle vere e proprie collezioni. Il concetto di Primavera/Estate e Autunno/Inverno è nettamente superato, mentre ogni due settimane è possibile trovare nuove collezioni nei negozi e sempre nuovi modelli disponibili negli store online.
Si deve precisare però che anche il mercato della moda di lusso sbarca sui siti online, ma con un leggero distacco temporale vista l’iniziale poca affidabilità dei siti web, affinata invece negli ultimi decenni. Il mercato legato a questo tipo di prodotto segue ancora una stagionalità e criteri ben diversi che si fondano proprio sul posizionamento del brand sul mercato a partire dal prezzo. Argomento a cui dedicherò presto un approfondimento.
Da dove vengono i vestiti che indossiamo
Milioni di vestiti, accessori e oggetti di vario tipo vengono prodotti ogni giorno in tutto il globo, spesso e volentieri senza un vero controllo sulla sostenibilità nel processo di produzione, né sulle condizioni di salute e sicurezza di chi lavora.
Cina e India sembrano giocare un ruolo centrale nella produzione e nell’esportazione di prodotti concorrenziali che passate le dogane verranno venduti nei nostri negozi a prezzi troppo accessibili per poter concepire un ritorno economico congruo ai componenti della filiera.
A destare preoccupazione non è solo la tipologia di produzione e l’arco di vita breve dei capi che finiscono per costituire un’alta percentuale dei nostri rifiuti (non riciclabili), ma anche l’ampio utilizzo di plastica impiegato sia nella composizione dei capi con alte percentuali di Nylon, Poliestere, Elastan e Poliuretano, che gli involucri in cui ci vengono recapitati e che hanno purtroppo una funzione usa e getta.
Paradossalmente il tessuto più ad alto impatto inquinante è invece una fibra naturale come il cotone, la cui coltivazione impiega un maggior utilizzo di sostanze tossiche nei paesi orientali, veleni ed antiparassitari ad utilizzo incontrollato che hanno procurato danni alla salute di intere popolazioni e l’avvelenamento delle falde acquifere, snaturando un prodotto in origine autoctona che ad oggi viene coltivato a ritmi sempre meno sostenibili per accontentare proprio l’industria della moda veloce.
I dati
Una ricerca pubblicata sul sito del Parlamento Europeo, dimostra alcune ricadute non indifferenti che la produzione tessile ha sul nostro pianeta, tra queste: il consumo in eccesso di risorse naturali, l’inquinamento idrico e l’emissione di gas effetto serra.
Secondo quanto dimostrato dall’AEA - Agenzia europea dell’ambiente, la produzione tessile è quasi raddoppiata nell’arco degli ultimi 20 anni passando da un valore di 58 milioni di tonnellate nel 2000 a 109 milioni di tonnellate nel 2020. Purtroppo, un numero che sembra destinato a crescere rapidamente poiché si stima che nel 2030 la produzione arriverà a 145 milioni di tonnellate. Un dato che fa riflettere sui nostri consumi e sull’effettiva urgenza di ideare nuovi metodi e direttive per regolamentare in maniera più sostenibile la produzione e la diffusione dei prodotti tessili.