Se c’è una cosa che fa emergere, in tutta la sua drammaticità, come si sia persa la capacità di ragionare e confrontarsi, cercando di superare gli steccati del pregiudizio, è forse la questione delle migrazioni - un problema con cui (non) ci confrontiamo da molti anni, e che negli ultimissimi tempi, per quanto riguarda l’Italia, è tornato ad essere di grande attualità. E la drammaticità non risiede solo nelle storie di disperazione e di morte, che a questa si accompagnano, ma anche - appunto - nel fatto che la si riduca a pretesto per polemiche di bassissimo profilo, sia relativamente alla politica interna del Paese, sia a quella europea. Eppure, comunque la si guardi, quanto meno si dovrebbe unanimemente convenire sulla necessità di affrontare il problema in modo serio e ragionevole, visto che decenni di polemiche non hanno spostato di una virgola i termini della questione.
Questione che, per sua natura, è estremamente complessa, e proprio perciò ogni tentativo di ridurla ad un confronto binario, bianco/nero, si risolve nel perderne di vista gli aspetti più profondi e quindi più cogenti, allontanandosi dalla possibilità di individuare soluzioni. Che, peraltro, proprio in virtù della complessità della questione non possono essere né facili né veloci. Ma considerando il tempo perso sinora, forse sarebbe giunto il momento di affrontarla senza fretta, e senza pregiudizi ‘ideologici’. E forse sarebbe anche il caso, tanto per cominciare, di inquadrare il tutto in una prospettiva più ampia, sia storica che culturale.
Dunque, si cominci col rammentare che le migrazioni hanno sempre caratterizzato la storia dell’umanità. È grazie ad esse che l’homo sapiens si è diffuso su tutto il globo e, in termini più storici, che si sono formati popoli e poi nazioni. La differenza sostanziale - e decisamente non da poco - è che per gran parte della Storia le migrazioni di massa sono avvenute attraverso le guerre. Popoli che si spostavano in cerca di nuove terre, migliori di quelle da cui provenivano, o che abbisognavano di nuovi spazi per accogliere la propria crescita demografica. Da queste ‘migrazioni armate’ non è mai venuta la cancellazione delle popolazioni originarie (con alcune, orribili eccezioni: ciò che fecero, in tempi più recenti, i coloni europei in Nord America, ad esempio), ma quasi sempre la mescolanza. Una lezione storica che, più di ogni altro, dovrebbe ben conoscere proprio il nostro Paese...
In modi e misure diverse, l’incontro e lo scontro tra popolazioni portatrici di un diverso bagaglio genetico ha dato vita, a sua volta, a nuove popolazioni ‘meticce’, che si sono poi stabilizzate culturalmente, una volta che l’epoca delle grandi migrazioni di massa si è conclusa. In tempi più moderni, si è poi universalmente riconosciuto il diritto individuale a spostarsi da un luogo ad un altro, fatte salve ovviamente alcune regole e limitazioni.
La questione delle moderne migrazioni, dunque, non può che porsi in questa prospettiva più ampia, per poi però analizzarne non tanto le cause profonde (fondamentalmente guerre e povertà), che sono ben note, quanto piuttosto quelle contingenti, nonché le dinamiche che sovraintendono a quello che si mostra chiaramente come un fenomeno che - pur con andamenti alterni - appare essere tutt’altro che episodico. Analisi che deve necessariamente guardare ai due capi del filo, quello di partenza e quello di arrivo, per poter comprendere e, possibilmente, risolvere.
L’Europa ha conosciuto, soprattutto dopo la fine della Seconda guerra mondiale, una prima, significativa ondata migratoria, che ha interessato soprattutto i Paesi che avevano un vasto impero coloniale. Si trattava per la gran parte, appunto, di abitanti delle vecchie colonie che si trasferivano nel territorio della potenza coloniale, conoscendone generalmente la lingua ed il ‘sistema’, e che venivano favorevolmente accolti in quanto forza lavoro a basso costo, utile in una fase di crescita economica. La seconda ondata, quella in cui siamo ancora coinvolti, è invece innanzitutto caratterizzata da una provenienza più ampia e non più lungo un asse ‘coloniale’, ed arriva in una Europa che non sta più vivendo una tumultuosa fase di crescita economica - anzi, che da alcuni anni, e con un ritmo sempre crescente, sta attraversandone una di stasi, se non di vera e propria decrescita.
I flussi migratori partono dall’Asia (Afghanistan, Pakistan, Bangladesh, Sri Lanka), dal Medio Oriente (Siria, Egitto, Iraq), dall’Africa. Per ovvie ragioni geografiche (ah, quanto poco è considerata la geografia, che invece conta moltissimo!), questi flussi si indirizzano verso il vecchio continente attraverso due ‘rotte’: quella turco-balcanica, e quella nord-africana. E ciò, di conseguenza, attribuisce un ruolo chiave ad alcuni Paesi, che su queste rotte si trovano in posizione rilevante, veri e propri ‘rubinetti’. Che, in quanto tali, possono aprirsi o chiudersi ai flussi, o semplicemente ‘regolarli’. Ovviamente, tale possibilità fa di questi Paesi i destinatari privilegiati delle attenzioni europee. E, quindi, dei soldi europei. Che però oggi, tra i crescenti costi del sostegno all’Ucraina, quelli della spinta al riarmo voluta dalla NATO, e quelli dell’energia, cominciano a scarseggiare.
Dal punto di vista dei Paesi europei, un flusso migratorio controllato, e preferibilmente temporaneo, risponde effettivamente ed esigenze dell’economia di alcuni Paesi. Al tempo stesso, spesso i partiti di governo sono riusciti a vincere le elezioni proprio agitando lo spauracchio dell’immigrazione ‘selvaggia’ - perché da sempre la paura è un’ottima leva. C’è poi da considerare che alcuni di questi Paesi hanno una componente di popolazione immigrata che, nonostante vi risieda da decenni, è in realtà solo parzialmente integrata, quando non decisamente quasi segregata. La questione, quindi, si trova in bilico tra interessi macroeconomici e spinte emotive politicamente gestite, senza che se ne riesca mai a venire a capo, trovando un punto di sintesi. E questo è in effetti l’atteggiamento predominante nei governi europei, che oscillano costantemente tra aperture e chiusure.
Oltre l’instabilità delle scelte europee (e quindi l’incapacità di fare progetti di lungo respiro), nelle società del vecchio continente si diffonde una irragionevole polarizzazione, tra chi mette indiscutibilmente al primo posto il diritto umano a cercare una vita migliore (senza spesso alcuna seria considerazione sull’impatto che ciò può avere sia sulle società di arrivo, sia sulla vita stessa dei migranti), e chi al contrario lo nega in linea di principio (convinto magari che vi sia persino un disegno di distruzione dell'identità culturale). In Italia, ci dicono i dati, vivono circa 5 milioni di immigrati, quindi quasi il 10% della popolazione. Eppure, nessuno può seriamente pensare che ciò abbia prodotto un mutamento della nostra “identità”. D’altra parte, è evidente che una parte di questi 5 milioni resta marginale rispetto alla società, con tutte le conseguenze e le ‘frizioni’ che derivano da una tale condizione.
Se, quindi, in termini generali non ha molto senso né invocare e/o lamentare la ‘solidarietà europea’, né tanto meno cianciare slogan come “aiutiamoli a casa loro”, è evidente che occorre un approccio diverso alla questione. A partire dalla consapevolezza che invece l’approccio tenuto sinora non solo non ha risolto nulla, ma ha anzi alimentato il meccanismo. Le questioni fondamentali sono pertanto a monte ed a valle. Innanzi tutto, è necessario cambiare radicalmente la natura dei rapporti che molti Paesi europei intrattengono con i Paesi africani e mediorientali. Bisogna dismettere l’atteggiamento paternalistico, e soprattutto le pratiche neocoloniali. Il che, detto brutalmente, significa smettere di sostenere oligarchie corrotte che garantiscono lo sfruttamento delle risorse, smettere di alimentare guerriglie per accaparrarsele, smettere di usare gli aiuti internazionali per ricattare i Paesi destinatari, smettere di sostenere occultamente gruppi terroristici per giustificare la presenza di truppe europee. È tantissimo, ma se non si avvia un processo che affronta i nodi a monte di tutto, non se ne esce.
Bisogna guardare in faccia la realtà delle politiche di controllo, e quindi il ruolo ricoperto dai Paesi-chiave sulle rotte migratorie. La Turchia, ad esempio, che ha svolto il ruolo di ‘tappo’ sulla rotta balcanica in cambio di ricchi finanziamenti europei, sarebbe un Paese ‘amico’, membro della NATO e sempre sul punto di entrare nell’Unione Europea (promessa che Bruxelles ha usato come una carota, ma che oggi è sempre meno appetibile per Ankara). Per il governo turco, però, questo ruolo strategico è stato un modo di giocarsi carte geopolitiche, e domani potrebbero essere altri interessi, piuttosto che quelli economici, a prevalere.
Un discorso simile potrebbe farsi per il nord-Africa. Quello che nessuno dice esplicitamente, non è soltanto che - dopo la guerra della NATO che ha spazzato via Gheddafi - la Libia è divenuta un crocevia di bande armate e di traffici di esseri umani. La verità ‘completa’ è che la Libia è divisa in due, una parte ad est ed una ad ovest; senza entrare nel merito di tale divisione, che ci porterebbe ‘fuori rotta’, non si può non sottolineare che è la parte occidentale quella in cui imperversano bande armate di clan tribali e di trafficanti, è da qui che partono le rotte dei gommoni, è qui che si registra un patto tacito tra guardia costiera e clan, è qui che si torturano, si sequestrano e si sfruttano i migranti provenienti dal sud. Ed è il pezzo di Libia che viene appoggiato, finanziato ed armato dall’Occidente, Italia in primis.
La verità è che l’altra base di partenza delle rotte migratorie è la Tunisia, un altro Paese saldamente ‘amico’ dell’Europa e dell’Occidente, che necessita dei soldi e dell’appoggio politico occidentale per reggersi. La verità è che non ci sono né partenze né trafficanti in Egitto, nell’altra parte della Libia, nell’Algeria. E guarda caso sono Paesi con cui l’Europa tratta più per necessità che per amicizia, perché non gradisce molto la loro collocazione internazionale. Il senso di tutto ciò è che abbiamo ‘aperto’ le rotte precipitando il nord-Africa nel caos, e pur di tenere a bada quelle rotte alimentiamo coloro che le gestiscono. Finché baseremo tutto su questo scambio, denaro in cambio della chiusura del rubinetto, resteremo eternamente ostaggio di coloro che lo controllano. Tutto il resto è vuota demagogia.