Pochi miti come quello del West resistono alla corrosiva azione del nostro tempo così cinico e disincantato e la California è sempre stata il cuore di tale narrazione. Anche io, come tanti spiriti nomadi, ho spesso pensato di visitarla ma ho sempre rimandato il mio pellegrinaggio per una serie di motivi che si possono riassumere proprio in una eccessiva mitizzazione che, poi, nell’ impatto con la realtà, spesso delude le aspettative.
Troppo epos, troppi sogni, troppi film e soprattutto troppa gente laggiù. E la natura di quei luoghi, così smisurata da renderne giocoforza visibile solo una minima parte a chi, come me, abbia un tempo limitato per esplorarla, lasciando alla fine un senso di frustrazione e di incompiutezza. Quest’anno, però, ho voluto vincere i miei pregiudizi e sono partito per quelle terre così’ lontane eppure, in un certo senso, così note da farmele sentire quasi troppo vicine.
La mia California ha iniziato a concretizzarsi ad aprile con la prenotazione dei voli e subito ha cominciato a presentare le prime difficoltà ed incongruenze rispetto all’ idea che mi ero fatto di lei, consolidata nel tempo da innumerevoli resoconti di affidabili viaggiatori. Innanzitutto il West, la Nuova Frontiera, va raggiunta dalla strada, vivendo la strada e viaggiando appunto "on the road” meglio se in automobile, dormendo nei famosi Motel disseminati lungo il percorso, dove si trovava sempre una camera libera e notoriamente a buon mercato.
Purtroppo non è più così. I Motel in California si sono rivelati molto meno frequenti di quanto immaginassi, quasi sempre raggrumati alla periferia dei centri abitati e soprattutto inesorabilmente costosissimi rispetto allo standard offerto. E anche il prezzo del carburante, una volta quasi irrisorio, è diventata una voce non trascurabile nel budget del viaggio.
Altro aspetto assai sgradevole è la necessità di stipulare una robusta assicurazione sanitaria poiché qualsiasi banale incidente che richieda assistenza medica costerebbe una fortuna al povero viaggiatore, figuriamoci un'evenienza seria che richiedesse un ricovero in ospedale o un intervento chirurgico! Ecco, sono partito in agosto con la sgradevole sensazione di essere una specie di paria in un luogo spietato ed ipertrofico dove ogni errore può essere pagato a caro prezzo.
Essendo l’ ambiente naturale il mio interesse primario ho impostato l’ itinerario di viaggio in modo da poter visitare i principali parchi naturali della California, compatibilmente con il tempo a disposizione e la stagione estiva che precludeva alcuni luoghi famosi come i deserti e la Death Valley. Il primo a nord di Los Angeles è il Sequoia National Park facilmente raggiungibile dalla megalopoli con qualche ora di auto.
Situato in montagna il parco fa parte di un comprensorio vastissimo che comprende il Kings Canyon e il Sequoia National park. Ovviamente il viaggiatore di passaggio può visitarne una minima parte sufficiente però a farsi un'idea della magnificenza dell’ indiscussa protagonista della scena: la Sequoia gigante, che con i 117 metri di Hyperion, esemplare recentemente scoperto da due ricercatori in una zona impervia del Redwood National Park in California è l’ albero più alto del mondo.
Questo essere incredibile cresce lungo tutta la fascia costiera del Pacifico dall’ Oregon fino ai contrafforti meridionali della Sierra Nevada, ad una altitudine che oscilla dai 300 ai 1000 metri nella ristretta zona che risente delle fresche brezze che dall’ oceano, cariche di umida nebbia, spirano verso est per poi esaurirsi lasciando arido e deserto il versante orientale delle Montagne Rocciose, la grande dorsale montuosa del Nordamerica che si estende per 3000 miglia, dall’ Alaska alla California La scala dimensionale delle sequoie è sovrumana, inimmaginabile, la fantasia o le foto non rendono il senso di maestà e di riverente ammirazione che incute la loro silenziosa immanente presenza. Questi boschi colossali hanno qualcosa di preistorico, sembrano appartenere ad un altro tempo quando la vita, nella primavera del mondo, sperimentava ancora la sua potenza creativa generando stupefacenti creature smisurate come queste o come i grandi dinosauri e non aveva ancora dovuto, o voluto, calibrare la sua forza generatrice riportandola alla modesta misura degli uomini.
Così grandi eppure così fragili, questi alberi esistono in virtù di un precario equilibrio climatico perché non sopportano climi troppi rigidi né una eccessiva siccità, e infatti sono una delle tante specie a rischio: il cambiamento climatico, che qui si fa sentire più che altrove, le minaccia con incendi devastanti, nuove malattie parassitarie e una siccità che le priva di quella fresca nebbia che risalendo dal Pacifico ne irrora le altissime chiome.
Lasciati questi giganti siamo tornati a sud, aggirando i bastioni meridionali della Sierra Nevada per risalire a nord lungo la route 395 che percorre l’ arida Owens Valley, stretta tra il versante orientale della Sierra e le White Mountains. Qui, all’ altezza di Big Pine, un picaresco paesino tagliato in due dalla autostrada su cui sfrecciano i caratteristici camion americani con il lungo muso cromato e i gli sfiatatoi delle marmitte alti sulla cabina di guida, abbiamo deviato a ovest attraversando il sinuoso letto del fiume Owens per inerpicarci lungo una strada semideserta che porta in Nevada. Ma la nostra meta è molto più vicina e si trova sulle creste delle Withe Mountains: la Ancient Bristlecone Pine Forest, la antichissima foresta dei pini setolosi, una chicca per botanici che pochi conoscono.
Dopo qualche decina di miglia attraverso un paesaggio spettacolare in cui domina il chaparral, la tipica bassa vegetazione arbustiva sempreverde della California, la strada comincia a salire e compare qualche pino, molto simile al nostro silvestre, il pinus aristata, poi, qua e là, tra queste conifere dall’ aspetto famigliare comincia a comparire un altra specie di pino, completamente diversa da ogni altro albero mai visto prima. Il tronco, nodoso e contorto, presenta una vistosa colorazione arancione striata di bianco e grigio, con ampie porzioni di chioma morte e calcinate dal sole e altre inequivocabilmente vive e forti. Dapprima solo qualche esemplare isolato nei vasti boschi di pinus aristata poi, man mano si sale, questa strana conifera prende il sopravvento e arriva a costituire rade foreste in cui è l’ unica specie arborea esistente.
Si tratta del pinus longaeva o pino dai coni setolosi, bristlecone Pine in inglese e se la sequoia e’ l’ albero più alto del mondo sicuramente questo e’ il più vecchio e qui, sulle Withe Mountains, in incognito perché gli scienziati non ne hanno reso nota l’ esatta ubicazione per evitare vandalismi, c’ e’ Matusalem, un esemplare di pinus longaeva cui, mediante cauti carotaggi, è’ stata attribuita un eta’ di 4855 anni. Questi giganti dai tronchi larghi e nodosi, martoriati da millenni di tempeste e tormente, a differenza delle fragili sequoie sono estremamente coriacei, nuclei inossidabili di resistenza che sembrano capaci di sfinire anche la morte stessa che alla fine pare essersi dimenticata di loro.
Crescono su terreni sassosi assai poveri dove nessun altro albero può crescere, esposti a un clima rigidissimo, distanti gli uni dagli altri cosicché un eventuale incendio non possa propagarsi, il loro legno è talmente denso e resinoso da essere virtualmente inattaccabile da muffe e parassiti e anche quando muoiono il loro tronco scultoreo rimane eretto per secoli a sfidare gli elementi. Ci siamo persi per alcuni giorni nell’ incanto di questa foresta fuori dal tempo che rimarrà forse il mio più bel ricordo di viaggio.
Dopo questo assaggio di eternità siamo ritornati sulla route 395 per dirigerci verso nord fino al lago Mono, da qui, fatto il pieno di carburante vista la incredibile scarsità di distributori di benzina nelle strade californiane, abbiamo imboccato la Tioga road, strada di alta montagna aperta solo d’ estate per arrivare, valicato il Tioga pass, nel famoso Yosemite national park.
Ovviamente il luogo è bellissimo ma il caldo soffocante e la marea di gente che in agosto si riversa nella porzione di parco visitabile agevolmente ci ha un po’ demotivati. Nei parchi californiani, almeno da quello che ho potuto constatare, ci sono fondamentalmente due modalità di approccio: una eccessivamente agevole e adatta veramente a chiunque, con comode passerelle sopraelevate su cui passeggiano famiglie con bambini a seguito, handicappati in sedia a rotelle o vecchi con deambulatori, oppure vaghi sentieri che si addentrano nelle smisurate vastità di queste foreste con pochissima segnaletica e con il rischio di perdersi con tragiche conseguenze, come e’ recentemente successo al celebre attore Julian Sands che, partito da solo per una escursione nelle montagne di San Bernardino, poco lontano da Los Angeles, ha fatto perdere le proprie tracce per essere poi faticosamente identificato da resti umani ritrovati in zona, mesi dopo.
Per questi motivi e per il poco tempo a disposizione ci siamo limitati a escursioni molto facili e quindi molto frequentate cosa, questa, che ne ha sicuramente limitato il fascino. Dopo un paio di giorni passati a gironzolare tra lo Half Dome e altri luoghi iconici, talmente belli da essere usati ed abusati come celebri save screen dai maggiori brand di computer, ci siamo avviati verso l’ oceano pacifico che abbiamo incontrato a Monterey.
Viaggiando per un paese come la California e, credo, per gran parte degli USA la prima cosa che salta agli occhi di un viaggiatore europeo è la onnipresenza di una natura primordiale che viene bruscamente interrotta da insediamenti e opere umane moderne. Manca completamente quell’ interfaccia paesaggistica, predominante in Europa e certamente in Italia, costituita da quei territori che secoli di convivenza tra l’ uomo e la natura hanno prodotto, creando il tipico paesaggio agricolo pastorale ed urbano a noi familiare e che, con i campi, i pascoli, i borghi e le antiche città si frappone tra la natura selvaggia e l’ impronta del nostro tempo. In California questa brutale contrapposizione spicca in maniera stridente e, almeno per me, piuttosto estraniante.
Anche la città di Monterey non fa eccezione e da magnifiche spiagge oceaniche deserte si passa bruscamente a squallidi quartieri comuni alle periferie di tutte le città per poi finire in un porto turistico infarcito dei più triti cliché di quel turismo di massa cosmopolita chiasssoso e volgare che caratterizza questi luoghi e forse, oramai, tutte le più famose mete turistiche del pianeta. Si passa poi per quartieri esclusivi, visitabili a pagamento, dove belle ma anonime ville si affacciano su candide spiagge accarezzate dall’ incessante respiro del Pacifico, come a Carmel by the sea. Purtroppo la A1, la strada costiera che costeggia l’ oceano passando per Big Sur fino a Los Angeles era chiusa per frane e quindi, dopo alcuni scorci di selvaggia bellezza, abbiamo dovuto a malincuore tornare a Monterey per poi raggiungere Los Angeles attraverso una anonima autostrada dell’interno.
Alla fine del viaggio quindi, siamo tornati da dove eravamo partiti, a Los Angeles, la brulicante, suppurante megalopoli dell’ovest dove si concentrano tutte le macroscopiche contraddizioni che stanno portando, per la prima volta nella sua storia, ad un esodo dalla California verso altri stati americani, meno belli, meno prosperi, meno tolleranti, meno colti e meno ossessivamente “politically correct” ma molto più vivibili. La prima cosa che ci colpisce è l’ abbondanza di straccioni e vagabondi in pessime condizioni, così malmessi che neppure chiedono la elemosina e che giacciono accampati alla meno peggio, in ripari di cartone, negli angoli più improbabili della città, tra sontuosi e magniloquenti centri commerciali e hamburger store dove, come abbiamo avuto modo di constatare, un panino ed una coca possono costare più di venti dollari.
Sporcizia urbana da fare invidia alle nostre peggiori città ed un senso di insicurezza che deriva da un tasso di criminalità talmente alto da indurre le amministrazioni a pensare di depenalizzare il reato di furto per importi, se non sbaglio, inferiori di 950$. Risultato: un Eden spietato, riservato solo a facoltosi consumatori e ancor più facoltosi residenti che spiega come la California, che ha il 12% della popolazione degli USA, abbia il 25% dei senzatetto il 30% dei quali un lavoro lo ha, e persino ben pagato, ma non abbastanza per potersi permettere una casa che qui costa cifre astronomiche.
Infatti moltissimi di loro vivono in macchina e persino alcune celebri università hanno riservato aree di parcheggio a studenti che vivono nelle loro automobili non potendo permettersi un locale in affitto. Vengono in mente le parole di una magnifica ballata di Bruce Springsteen ispirata a “Furore”, il libro più americano del 900 dell’ autore più americano in assoluto, John Steinbeck: “Benvenuti nel nuovo ordine mondiale… insieme al fantasma del vecchio Tom Joad”. Per fortuna ci sono i musei e anche di bellissimi.
Io ho sempre amato i musei, soprattutto quelli di storia naturale, quei vecchi, polverosi edifici che, per quanto si cerchi di dare loro una parvenza di luccicante modernità con acciaio, vetro e una riverniciata di interattività - corbelleria oggi così di moda - rimangono sempre quei misteriosi, magici territori dell’altrove, del” C’ era una volta..” , dove uno come me può rifugiarsi riposando i sensi e la mente in una wunderkammer senza fine.
Abbiamo visitato il museo di Storia Naturale, uno dei più celebri al mondo, con le sue fantastiche collezioni e i celeberrimi scheletri fossili di dinosauri giurassici. La sala con la ricostruzione di un colossale tirannosauro che attacca un triceratopo cornuto mi ha commosso e meravigliato oltre ogni dire.
Associato a questo museo, poco lontano, si può visitare il La Brea Tar Pits, un singolare sito costruito attorno a micidiali pozze di bitume che, come laghi infernali, intrappolano da ere immemorabili nella loro viscida morsa ogni essere vivente che abbia la sventura di avvicinarsi, insetto o mastodonte che sia, imprigionandolo nel catrame per l’eternità.
Ogni giorno qui si scoprono nuovi fossili di mammut, tigri dai denti a sciabola, lupi mannari del Pleistocene e persino libellule o scarabei. Tirannosauri, triceratopi, argentinosauri, creature fantastiche che solo in luoghi come questi si possono vedere, sogni cristallizzati di un mondo primordiale, pre-umano, che con i loro muti bramiti ci urlano silenziosamente, come diceva Alfred Russell Wallace, esploratore e naturalista amico di Darwin, che “ gli esseri viventi non sono stati creati per l’ uomo, e molti di loro non hanno alcuna relazione con lui.
La loro felicità, la loro gioia, i loro amori e la loro lotta per l’ esistenza, le loro vite così vigorose…tutto questo sembra essere direttamente legato esclusivamente a nient’ altro che alla loro stessa vita”. Proprio così, noi abbiamo partecipato ben poco all’ incommensurabile palinsesto cosmico, forse siamo solo un’ insignificante incrostazione di salsedine dopo la mareggiata di ieri e che la tempesta di domani cancellerà, ma questa è già un'altra storia perché tra queste scure sale dove troneggiano sdegnosi gli scheletri di esseri antidiluviani si chiude il nostro breve viaggio in California.