Da molti anni in Italia è vivo il dibattito sulle cause dei mali che affliggono la giustizia, e non soltanto tra gli addetti ai lavori.
Il problema è tornato prepotentemente d’attualità da quando l’Unione Europea ha subordinato l’erogazione dei fondi del PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza), fra i tanti adempimenti, anche alla riforma della Giustizia.
In effetti è intollerabile per l’Unione Europea, per gli eventuali investitori e, soprattutto per i cittadini, che in Italia i processi civili e quelli penali abbiano una durata indeterminata e indeterminabile, al punto che una quota parte degli imputati viene assolto grazie alla prescrizione, mentre nel civile si assiste alla rinuncia dei cittadini a fare valere i propri diritti in giudizio, anche se sono sempre più numerosi gli imprenditori che ricorrono alla giustizia privata, attraverso gli arbitrati.
Per questa situazione fallimentare del sistema italiano della giustizia, sarebbe troppo facile, perfino superficiale, attribuire tutte le responsabilità alla nostra classe politica, che sicuramente non ha brillato, né in lungimiranza, né in capacità organizzativa.
Il problema della giustizia italiana, a mio parere, nasce subito dopo le grandi riforme degli anni Settanta; quelle che hanno spianato la strada al riconoscimento delle attribuzioni dei diritti costituzionalmente garantiti ai cittadini italiani, e alla conseguente loro rivendicazione in giudizio.
La classe politica italiana degli anni Ottanta, quella del decennio successivo al riconoscimento dei più importanti diritti costituzionali, non è stata all’altezza della situazione. Forse era ancora sotto shock per l’uccisione dello statista Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse, avvenuta nel 1978 e, probabilmente, sentendosi in pericolo si è barricata nel Palazzo, pensando a salvare la propria pelle dalle minacce terroristiche e l’ultimo dei suoi pensieri era l’organizzazione e il funzionamento della giustizia. Sicuramente per combattere il terrorismo, la classe politica ha preferito abdicare a certe garanzie costituzionali, attraverso l’emanazione di leggi speciali. Senza dubbio non era un’epoca ideale per le migliori riforme da intraprendersi in materia di giustizia.
E poi, mi pare che quelli fossero gli anni “della Milano da bere” o sbaglio? La classe politica era in tutt’altre faccende affaccendate.
Negli anni Novanta, quel poco di classe politica ancora valida, sopravvissuta a Moro (in questo le B.R. sono state chirurgicamente precise, uccidendo il migliore tra i democristiani, l’unico politico italiano che avrebbe potuto rilanciare l’Italia nel mondo del terzo millennio), è stata spazzata via da “Mani Pulite”.
Occorre rileggere tutta la nostra storia, dal maggio 1978 (o se vogliamo, anche solo dal 1992) in poi, prima di mettere ancora mani alla giustizia.
Si tratta in realtà di riformare tutto lo Stato, a cominciare dai rapporti, ormai inclini alla conflittualità più accesa, tra la magistratura e la politica.
Questa contrapposizione, che si è riacutizzata dopo il ciclone di Mani Pulite, è stata da sempre latente, quantomeno in epoca repubblicana.
I rapporti tra questi poteri dello stato, infatti, nacquero invero sotto una cattiva stella. Basti qui richiamare alla memoria un importante episodio.
Agli albori dell’era repubblicana, otto giorni dopo il referendum che si svolse in Italia per la scelta della forma di stato, esattamente in data 10 giungo 1946, la Cassazione nel proclamare i risultati elettorali, che vedevano la forma repubblicana prevalere sulla monarchia, con oltre due milioni di voti di vantaggio, chiudeva il verbale con una formula ambigua, che rinviava al 18 giugno la proclamazione definitiva del risultato, poiché i dati venivano considerati non completi.
Tuttavia il potere politico, impersonato in quei frangenti storici da De Gasperi, Nenni e Togliatti (per citare tre personaggi tra i più rappresentativi del Comitato di Liberazione Nazionale che si era opposto al Fascismo, risultandone vincitore), preoccupato dei disordini che erano scoppiati nel Paese in favore della Monarchia (a Napoli ci furono perfino dei morti nelle rivolte del 12 e del 13 giugno), si affrettò a nominare De Gasperi Capo provvisorio dello Stato, creando di fatto la Repubblica.
Questo fatto fece gridare allo scandalo e ci fu chi addirittura chi parlò di colpo di stato. Fra questi uno dei giudici della Cassazione, Giuseppe Pagano, che era evidentemente tra i sette magistrati della Cassazione che votarono contro la proclamazione della repubblica il 18 giugno (ma ben dodici votarono a favore), nel 1960 confermò la sua opinione che si fosse trattato di un colpo di stato del potere politico (anche se nell’intervista che rilasciò al Tempo, correttamente ammise che anche conteggiando gli astenuti e i voti nulli in favore della monarchia, quest’ultima non avrebbe vinto la competizione elettorale referendaria).
Non di meno, al di là di questa evidente frattura tra la magistratura e il potere politico, sorta sin dal nascere della repubblica, occorre evidenziare da subito che due organi, facenti parte dello stesso corpo, non possono essere perennemente in conflitto.
Può forse una mano accecare l’occhio? O un piede andare a destra, e l’altro in direzione opposta? Possono forse il fegato oppure i reni decidere di svolgere una funzione contraria a quella per cui sono deputati?
È proprio quello che è successo con Mani Pulite. Una parte dello Stato, la magistratura, all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso, ha intrapreso l’opera di demolizione di un’altra parte dello Stato, la classe politica, colpendo senza pietà i vertici dello Stato.
I risultati sono sotto gli occhi di tutti.
Che sia chiaro: io non intendo assolvere i politici corrotti e condannare i giudici che li hanno sbugiardati e ridicolizzati, mostrando all’opinione pubblica le loro malefatte, la loro ingordigia, la loro protervia.
Nessuno mi ha costituito giudice per fare una cosa del genere.
Io cerco di fare semplicemente un’analisi corretta di ciò che è accaduto. Lo Stato è come un organismo, un corpus composto da tanti organi, che devono collaborare e coordinarsi, per il bene di tutti.
Questo corpus sociale e amministrativo, in senso lato, comprende anche i comizi elettorali, il popolo elettore, il corpo elettorale. E anche su quello avrei da fare importanti osservazioni. Per adesso chiederei alla magistratura di tornare a scrivere sentenze, interpretando correttamente le norme giuridiche.
Inoltre, direi basta ai riflettori e alle telecamere puntate sulla giustizia inquirente. Basta con i magistrati protagonisti in TV. I magistrati tornino nelle aule di giustizia e svolgano, diligentemente, il ruolo che gli assegna la Costituzione. Qui apro una piccola ma importante parentesi, per dire che l’opinione pubblica ormai confonde la magistratura inquirente con quella giudicante; per cui è sufficiente che un pubblico ministero apra un’inchiesta, e che i giornali ne diffondano la notizia, per far sì che la gente creda che sia stata già emessa una sentenza di condanna a carico degli indiziati, prima ancora che essi siano perfino semplici imputati.
Questa distorsione è dovuta a molteplici ragioni; qui non è la sede adatta per una disamina compiuta di queste ragioni. Mi limiterò a scrivere che una delle ragioni è costituita dall’eccessiva vicinanza e commistione che esiste tra magistrati giudicanti e magistrati inquirenti.
Ecco perché appare indispensabile la separazione della carriera in capo ai magistrati: gli inquirenti svolgano le indagini come avvocati dell’accusa e siano assimilati agli avvocati delle parti private, che invece curano la difesa; i magistrati giudicanti scrivano le sentenze e mantengano le distanze da tutte le altre parti del processo: sia dai pubblici ministeri accusatori, sia dagli avvocati difensori.
Ai politici chiederei delle altre cose. Gli ricorderei per esempio che la giustizia, come la scuola, la sanità, la viabilità, la sicurezza, sono altrettanti servizi da fornire ai cittadini e che essi vengono eletti per provvedere a far funzionare questi servizi.
Il dibattito sulla giustizia, soprattutto negli ultimi lustri, ha perso di vista il suo vero obiettivo: il miglior servizio da rendere al cittadino, sovrano nell’accezione più ampia di cui all’art. 1 della Costituzione.
Nei primi anni di applicazione della Carta Costituzionale ci si è persi, animati dalle migliori intenzioni, in fumose e teoriche disquisizioni sui massimi sistemi; in altri periodi hanno prevalso le lobbies degli avvocati o quelle dei magistrati.
Alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso è stata introdotta una riforma, seppure limitatamente al processo penale, sfociata nella sostituzione del codice della procedura, ma si è trattato di una riforma troppo ambiziosa e mal preparata, che non teneva conto del tessuto culturale in cui si andavano a innestare i nuovi istituti del codice Vassalli (dal nome del Guardasigilli dell’epoca, che capeggiò la riforma). Tanto ciò è vero che soltanto pochi anni dopo il suo varo, già si parlava della necessità di fare la riforma della riforma.
Ultimamente, poi, il discorso ha viaggiato sui falsi binari di una riforma pro o contro i magistrati; la classe politica, nell’arco dell’ultimo trentennio non è stata capace di avviare una seria opera riformatrice della giustizia.
Ma è davvero così difficile far funzionare la macchina giudiziaria?
Ebbene, non è certo facile; ma si può e si deve cercare di farlo.
Innanzitutto occorre fare una distinzione fra il processo penale ed il processo civile. Per semplicità tralascio sia il processo amministrativo, sia quello tributario che, per la ricaduta che essi hanno nella sfera economica e sociale dei privati, pesantemente invasa da organi amministrativi e finanziari dello Stato, meritano un discorso a parte, capace di prevedere per questi processi, una tutela efficace, celere e trasparente.
Con riguardo al processo penale occorre sottolineare che rispetto al vecchio codice Zanardelli, tutto incentrato sulla figura del magistrato inquirente, vero e assoluto padrone del processo, l’attuale codice di procedura penale, il già citato codice Vassalli, ha innovato in maniera radicale, tentando un salto culturale che non ha tenuto conto da un lato della cultura giuridica degli operatori nostrani del diritto (in primis gli avvocati); dall’altro non ha tenuto conto della fragilità e inadeguatezza delle strutture (soprattutto cancellerie e servizi di notificazione).
Così è naufragata una riforma il cui processo oggi premia i furbacchioni, i maestri forensi del cavillo facile e i farabutti, complice anche un legislatore schizofrenico e insicuro, strattonato di qua e di là, confuso tra il senso dello Stato e la pressione di poteri occulti, ben presenti nei suoi gangli vitali.
Qualcuno ha perfino proposto di assegnare a ciascuna Regione, mezzi e risorse per creare un modello processuale più consono alle esigenze locali (come avviene negli Stati Uniti d’America); ma la soluzione proposta sarebbe, a mio parere, peggiore del male stesso.
Occorre invece agire con cautela e nel lungo periodo; nell’immediato, una legge tampone potrebbe affidare l’ingente arretrato a dei magistrati onorari presi dai ruoli degli avvocati cassazionisti, depenalizzando nel contempo reati di scarso allarme sociale (anche se ottimi strumenti di propaganda), quali ad esempio l’immigrazione clandestina e il consumo di sostanze stupefacenti leggere.
Il processo civile, invece, segna il passo, come un elefante senza memoria, che vaga in una intricata foresta di sentieri che si incrociano ma non si incontrano mai.
Nella mia più che trentennale esperienza nella professione forense penso, a ragion veduta, di poter puntare il dito sul principale tra i mali che affliggono la giustizia civile: quel male si chiama formalismo.
Faccio subito un esempio, sperando di spiegarmi bene anche per i non addetti ai lavori.
Supponiamo che io faccia una causa di separazione in cui i coniugi separandi abbiano dei beni da dividere: la casa, delle somme di danaro, dei mobili, un’impresa commerciale ecc. ecc.
Ebbene, il bizantinismo imperante nel processo civile arriva ad imporre agli avvocati (e quindi agli utenti e destinatari finali del servizio), dopo avere avviato la causa di separazione, di avviare tante cause quanti sono i beni da dividere: una causa per l’impresa; una causa per l’abitazione; un’altra causa per i soldi; e così via.
Potrei fare cento altri esempi, ma penso di essere stato chiaro: il nostro sistema giudiziario è parcellizzato in una miriade di compartimenti a stagnazione separata, che non sono in comunicazione tra loro.
Sembra di essere ancora ai tempi del diritto romano classico, quando bastava sbagliare una formula, per perdere la causa.
Quali barbari dovremmo aspettare, per modificare il nostro sistema processuale?
Ma non basta: queste cause andranno avviate dopo che la sentenza sarà passata in giudicato (col giudizio di Cassazione o con giudizio di merito non impugnato nei termini di legge).
Per portare fuori la giustizia civile da un tale sistema ormai sclerotizzato, è dunque necessario farla finita con il formalismo. Ai magistrati occorre attribuire, attraverso un’appropriata preparazione, una mentalità elastica (partendo dalle università), che li renda capaci di giudicare, come si diceva un tempo ex aequo et bono, cioè in base all’equità, soprattutto in quelle cause minori.
Non sarebbe male, infine, che avvocati e magistrati cominciassero a collaborare; per esempio, imparando a discutere prima che venga intrapresa la causa, sulla sua solidità, facendo anche una previsione, in percentuale, sulle possibilità di accoglimento. In questo senso occorrerebbe che i magistrati e gli avvocati provenissero, oltre che da una medesima scuola, anche da carriere simili.
Insomma, se nel processo penale occorre separare le carriere tra magistrati inquirenti e magistrati giudicanti (avvicinando i primi agli avvocati e allontanandoli invece dai giudicanti), nel processo civile occorre che le barriere tra magistrati e avvocati vengano abbattute nell’interesse dei cittadini (che sono, in ultima analisi, i veri fruitori del servizio).
Lo so che non è facile. Ma spetta ai politici prendersi la responsabilità di cambiare. E lo facciano senza acredine, non per simpatia o per odio contro i magistrati. Agiscano invece nell’interesse esclusivo dei cittadini.