Se il dualismo in cui si muove l’attuale sistema di conoscenze non avesse separato le antiche dottrine religiose dai nuovi postulati scientifici, aree del sapere armonicamente unite nell’enciclopedismo medievale, oggi comprenderemmo assai meglio le epifanie linguistiche e iconografiche del “corno”.
Tanto l’enigmatico “non capirci un corno” quanto l’esecrabile “fare le corna” hanno infatti avuto la loro origine nelle particolari letture che gli antichi tributavano all’anatomia e alla fisiologia del cranio-cervello e alle sue eventuali escrescenze.
Forte di una sua coerenza simbolica interna, ancora tutta da decifrare, la mitografia antica ha visto nei due corni ai lati del capo due funzioni che risultano opposte quanto all’effetto che producono, ma che dovevano essere animate da una stessa causa: la ricezione dell’energia.
Nella valenza positiva del numero binario troviamo quindi i due corni ricurvi, solari, spiralici della testa d’ariete che grazie alla propria circonvoluzione riescono a catalizzare una forza così compatta che avrebbe ispirato la celebre e omonima macchina ossidionale; oppure i due corni lunari del toro, antenne sottili che captano l’energia astrale per scaricare le forze impalpabili dell’atmosfera nella più compatta solidità della terra.
Dalla contrapposta valenza negativa, invece, è contrassegnata la galleria di figure bestiali o demoniache bicorni presenti soprattutto, ma non solo, alla simbologia cristiana la cui lettura va ricercata nel tentativo di attestare e quindi di stornare il pericolo del “due” ovvero la degradazione dell’energia che, secondo la fisiologia antica, passando per il cranio discende e si ferma nei sensi.
Le due “corna” – ci suggeriscono gli antichi – non appartengono infatti a chi ha subìto il tradimento ma a colui che l’ha compiuto. Il traditore, come vuole l’etimologia del verbo latino tradĕre, è colui che “si consegna” al richiamo dei sensi, colui che insomma di due non riesce a fare uno e cede all’immediatezza transitoria della sensazione che gli viene dall’esterno.
Ma quali altri sensi esisterebbero, si può obiettare, se non quei cinque che mettono l’uomo in connessione con il mondo al di fuori di lui? È sempre la mitografia a spiegarcelo insieme all’archeo-zoologia, catalogo quest’ultima di bestiari che pullulano di creature “monocere” tra cui su tutte spicca certamente l’unicorno, il mitico animale che secondo una lettura grossolana è il semplice depositario del simbolo fallico del corno, e che secondo l’enigmatica interpretazione opposta è simbolo, invece, di castità.
Una simile e apparente contraddizione può forse ricomporsi osservando con attenzione gli splendidi arazzi noti come “La dama e l’unicorno”, conservati a Parigi nel Musée national du Moyen Âge. Nelle prime cinque raffigurazioni la dama accompagnata da un leone e da un unicorno si dispone ad esemplificare rispettivamente i cinque sensi del gusto, dell’udito, della vista, dell’olfatto e del tatto. A seguire i cinque arazzi ce n’è però un sesto al cui centro si staglia una tenda circolare aperta, i cui lembi sono tenuti dai due animali e che reca l’enigmatica scritta À mon seul désir: “Al mio solo desiderio”.
Nella fisiologia antica, inscindibile dalle istanze religiose dettatele dalla ricerca spirituale, il corno, fisicamente inteso, era considerato un prodotto di intersezione tra i mondi: l’esterno e l’interno, il biologico e il sovra-biologico. Non a caso la sua sacralità veniva suggellata dagli usi più svariati e importanti, da quello classico della cornucopia o corno dell’abbondanza, che lo poneva in una posizione rovesciata, a quello successivo ma omologo del calice eucaristico cristiano; da quello che sfruttando le sue vibrazioni sonore ne ha fatto uno strumento di caccia a quello che di volta in volta gli ha attribuito valenze magiche e curative.
Come frutto sempre ricrescente dell’intersezione tra i mondi, l’unico corno che promana dalla fronte dell’animale sembra in realtà alludere a quella funzione arcaica e leggendaria che si narra abbiano avuto - e possano pur sempre avere - le possibilità percettive del cervello umano e che può essere definita come Sensorium Dei.
Nota forse ai più come l’espressione con cui Isaac Newton sigla ad un certo punto il concetto di “spazio”, il Sensorium Dei, teorizzato dai maestri della Kabala che ne hanno sondato le profondità, allude a quella che potremmo parafrasare come una sorta di sublimazione dei sensi, presi dal mondo come cinque e tradotti in un sesto più alto e raffinato per confluire nell’unità da cui discendono.
Non a caso per il celebre testo medievale del Physiologus l’unicorno è addirittura allegoria di Cristo e l’anonimo autore ci spiega - si fa per dire - il perché. L’unicorno infatti allude all’unità del Figlio con il Padre, al due che è diventato uno. Animale piccolo e umile, di fronte alla sottigliezza del male egli è reso invincibile dal fatto di essere acerrimus, molto “feroce”, come è appunto il suo unico corno che vince sulla fluidità inconsistente del nemico grazie alla proiezione solida della sua secrezione vitale al centro della testa.
E per il tramite del primo e più importante significato dell’aggettivo acer, cioè acuto, la sapienza dell’anonimo autore ci riconduce alle altre parole omoradicali di corno. Il corno è infatti anche il cairn dei Celti, l’alto luogo fatto di pietre, la montagna sacra che grazie alla propria altezza può attingere ai messaggi del divino; è il keraunόs greco, il fulmine che la mitologia tanto mediterranea quanto nordica considerava fatto di pietra o di metallo; è il keratōn, l’altare formato da corna di buoi. Tutti termini, a ben vedere, connessi fonicamente alla radice che forma la parola Chronos, il tempo che accumula, che addiziona e che giro dopo giro crea la protuberanza destinata a superarlo.
La positività del simbolo dell’unicorno, che gli vale persino la consacrazione ad allegoria del divino, sta allora nella capacità della sua unica proiezione di mediare e sintetizzare le due forze che si riconoscevano all’essere umano, quelle che oggi definiremmo di livello superiore e quelle di livello “inferiore”, forze che provenendo sia dall’interno dell’uomo che dall’esterno, sia dall’alto della mente che dal “basso” delle emozioni/pulsioni, cercavano il miracoloso equilibrio nel centro della testa. Proprio dalla testa l’accesso ad un altro ordine di realtà sarebbe stato veicolato dall’escrescenza favolosa di un corno, da un punto luce, un occhio luminoso capace di consentire l’ingresso ad un sesto modo di percepire, capacità che valse all’unicorno anche l’epiteto di liocorno.
Secondo l’esegesi biblica ebraica, in modo sorprendente, proprio un corno è quanto Dio avrebbe fatto spuntare sulla testa di Caino a memoria dell’uccisione del fratello Abele. L’interpretazione più divulgativa, quella essoterica mossa da esigenze didascaliche, non può che leggere l’evento come punizione esemplare per il primo malvagio della storia.
Ma, a fronte di quanto si è detto, non possiamo che preferire l’interpretazione esoterica, quella che al corno della punizione predilige quello della guarigione. Non ci sono infatti conflitti o opposizioni insanabili, ma solo un segno che in-segna che di due bisogna fare uno e che per far ciò bisogna dare un corno a Caino.