Chi mai d’alto cader l’argento vide che gli alchimisti hanno mercurio detto..

(XV,LXX)

La scelta degli Azzo Besta di dedicare la Sala Nobile del palazzo al tema dell’Orlando Furioso si inscrive in una strategia di significanza simbolica che intesse tutta la residenza. Non è scevro di rilevanza il ricordare gli altri tre cicli di dipinti presenti nel Palazzo: l’Eneide con la discesa di Enea nell’oltretomba, di cui restò e resta celebre il simbolo ermetico del “ramo doro”, presente anche nella coeva e famosa miniatura alchemica dello “Splendor solis” di Salomon Trimosin, maestro di Paracelso, la Genesi, con l’enigmatica e innovativa mappa del mondo, e le mitologiche e ovidiane Metamorfosi.

Quattro scenari accomunati dalla ricchezza simbolica e dal fatto di essere sempre stati reinterpretati simbolicamente dal pensiero alchemico, che conobbe proprio nel Rinascimento una manifesta e potente riemersione e rielaborazione mitizzante. Si ipotizza in questo sintetico intervento di analisi che sia proprio la cultura alchemica, con le sue ricchissime iconografie criptanti precisi percorsi sapienziali e iniziatici, lo scenario di decrittazione al cui interno tentare di ricostruire interpretativamente i nostri affreschi ariosteschi. Questa istanza si può giustificare a livello di metodo secondo cinque ordini di considerazioni:

a) non è sufficiente il confronto fra i dipinti e determinati passi dell’Orlando per esaurire il senso e il valore narrativo e simbolico dei dipinti, in quanto essi contengono numerosi elementi significativi ultronei, e gli stessi temi ariosteschi appaiono scelti con una accuratezza di non immediata comprensione e secondo una scelta non meramente decorativa o citazionistica;

b) lo stesso Orlando Furioso, secondo recenti eruditissimi studi, rivela un substrato ricco e profondo di contenuti, trame e significanze ermetiche e sapienziali;

c) la Valtellina era pienamente coinvolta dalle correnti più innovative della cultura rinascimentale attraverso figure di umanisti quali Andrea Guicciardi, Ortensio Landi, Paolo Giovio, e riceveva l’influsso culturale di Firenze, Venezia e della Germania;

d) la Valtellina fu interessata, proprio per la sua collocazione, dal passaggio di circuiti culturali e politici di ampio respiro, resi poi ancora più strategici dopo la scissione protestante; basti ricordare che a Sondrio operò dal 1583 al 1586 un seguace di Paracelso: lo svizzero-tedesco Raphael Eglinus Iconius, autore degli “Aforismi Basiliani o canoni ermetici sullo spirito, anima e corpo”.

e) l’intero Palazzo presenta una generale e non comune ricchezza in termini di linguaggio simbolico

Si intende ipotizzare che la stessa cultura neoplatonica, ermetica ed esoterica che influenzò l’Ariosto, nell’Orlando e in tutta la sua opera, sia alla base delle scelte pittoriche della committenza nobile di Palazzo Besta e che gli stessi affreschi di Teglio possano anche facilitare la lettura esoterica dell’Orlando. Non solo: l’ipotesi alchemica presenta quattro ordini di vantaggi:

1) permette una lettura coerente e unitaria delle quattro parti in cui si suddivide il ciclo ariostesco della Sala d’onore di Palazzo Besta, nonchè la ricostruzione di ogni singola scena quale fase di un unico percorso di sviluppo, evidenziando anche richiami e corrispondenze fra singole parti dei dipinti, altrimenti non decrittabili;

2) è compatibile con le distinte interpretazioni morali ed estetiche, a cui accenna la Rajna, secondo una tradizionale molteplicità di livelli di lettura;

3) permette di trovare numerosi riscontri in una ricchissima e plurisecolare tradizione iconologia e iconografica presente in tutta Europa, tradizione culturale che può riportare ad unità il ciclo anche con gli altri tre cicli dipinti e con gli altri elementi simbolici del Palazzo.

4) permette di motivare le altrimenti eccentriche selezioni e adattamenti compiuti nei dipinti rispetto al materiale narrativo dell’Orlando;

5) permette di rinvenire riscontri anche in merito alle scelte cromatiche dei dipinti e di esplicare gli altrimenti enigmaticamente insolubili motti latini abbinati ai dipinti.

Non si pretende l’esaustività né la completezza in questa prima analisi ma si tenta di aprire un vasto scenario interpretativo di inquadramento, in attesa di futuri approfondimenti e più metodiche ricerche. Già nell’entourage e nel contesto personale, sociale e culturale in cui visse l’Ariosto emerge l’importanza della cultura ermetica: Pico della Mirandola e lo stesso Paracelso non a caso si laurearono a Ferrara e furono coevi di Ludovico, ma basti pensare anche al pittore Cosme Tura e ai contatti fra Ludovico e la famiglia Colonna, e, fra i molti, alla coeva ermetica Hipnoerotomachia Poliphili, ricca di tracce alchemiche e conosciuta dall’Ariosto. Una delle figure di tramite fra l’Ariosto e la cultura alchemica si può individuare nell’umanista Niccolò Leoniceno: professore di medicina a Ferrara, fra i suoi allievi Paracelso, amico di Pico, ma anche del Bembo, a sua volta amico di Ariosto, e maestro anche del dotto umanista Celio Calcagnini, grande amico dell’Ariosto e anch’egli interessato alla spiritualità sapienziale, di cui la sua opera “Elogio del Silenzio”.

Lo stesso Ariosto scrisse un ode latina intitolata “De Vellere Aureo” e il Vello d’oro rappresenta il simbolo stesso dell’Opera alchemica. Andrea Guicciardi invece, professore di medicina, patrigno e precettore di Azzo II, e già rettore dell’Università di Pavia, dove operò in quegli anni il famoso esoterista Cornelius Agrippa di Nettesheim, probabilmente rappresenta la figura di tramite fra la cultura rinascimentale-alchemica e la Valtellina dei Besta. Già sono stati sottolineati dai esperti gli influssi neoplatonici e fiorentini sull’Orlando e non spento era l’influsso di Marsilio Ficino, traduttore del Corpus hermeticum, dei Misteri di Giamblico,e propugnatore di un idea di magia naturale, spirituale e cristiana.

Probabilmente la scelta dell’Orlando per Palazzo Besta va inserita all’interno di questa rinnovata cultura esoterica rinascimentale. Oltre a ciò ricordiamo tre alchimisti italiani che vissero coevi e vicini geograficamente all’Ariosto: l’emiliano Giovanni Augurelli, il veneto Bernardo Trevisano e l’istriano Pietro Bono da Ferrara. Lo stesso Palazzo Besta nel suo complesso presenta più elementi narrativi simbolici come si possono ammirare ad esempio nel grazioso portale di ingresso nel doppio globo inquartato, segno della dialettica macrocosmo-microcosmo e dei 4 elementi, e nei segni della fenice, del pellicano e delle rose, iconografia cristiana certamente, ma pure di sapore chiaramente sapienziale.

Se consideriamo quali scene ariostesche siano state selezionate e come siano state rielaborate con lucidità e consapevolezza, integrandole anche con specifici motti in latino di non facile comprensione e di apposita elaborazione, appare evidente l’intento del committente teso alla configurazione di un preciso codice comunicativo sapienziale. Qui bastino pochi cenni. La presente analisi porta alle estreme conseguenze gli accenni all’esoterismo fatti della Rajna e la riflessione esoterica che Alberto Cotogni dedica con intelligenza ed erudizione alla prima scena del ciclo.

Partiamo dall’opera: possiamo selezionare citazioni specifiche dell’arte alchemica nel capolavoro dell’ Ariosto (VI,59; XV,70) insieme ad allusioni esoteriche precise, come la descrizione della rete di Vulcano, figura dell’alchimista, rete che nella mitologia catturò Venere e Marte, e che Ariosto ricorda anche quale attributo di Mercurio catturante la ninfa dell’Aurora Cloride (XV, 56-57,70) cioè, ermeticamente, la raccolta della filosofica “rugiada”; la citazione del “Vello d’oro”(XXXV,3), e ancora l’incitamento ariostesco, già pulciano nel Morgante, a superare le colonne d’Ercole (XV, 21-35; e XVI, 37) non solo ideale eroico-cavalleresco, ma anche simbolo dell’impresa dell’alchimista il quale, quale nuovo argonauta, doveva ricercare il Vello/Pietra filosofale superando la paura e il rischio della morte.

Altri passi indicativi di allusioni alchemiche si riscontrano ad esempio nel canto XVIII nella figura del duca Labretto stretto ermeticamente ad una donna in una scena campestre e notturna, segno della notissima coniunctio Sole-Luna, o eclisse misterica, e nella loro decapitazione ad opera di Medoro, nei regni sapienziali di Alcina e Logistilla, nella dimensione aurea ed edenica del Prete Gianni (XXXIII, 103-104), nella sepoltura comune di Isabella e Zerbino, segno dell’androgino ermetico e della putrefatio, immagine presente anche nel Rosarium filosoforum quale simbolo di fusione alchemica, nel fuoco di zolfo che accende le vene di Ruggero davanti ad Alcina (VII, 27) e nella citazione del cinabro accostato ad Alcina stessa (VII, 13) , nel bracciale aureo di Angelica, segno del mercurio fissato e trionfale, nella stessa furia lupesca e trasformativa di Orlando, e nel fuoco di zolfo, salnitro e pece che uccide i soldati di Rodomonte all’assedio di Parigi.

Ma troviamo allusioni ermetiche pure in altre eterogenee scene narrative: in Brandimante che contempla il cielo notturno evocando Saturno,Giove, Venere e Marte, le potenze astrali e cosmiche dell’Opera (XXIII,6) nella descrizione del Palazzo fiammante del Paradiso terrestre, nel sepolcro vermiglio e luminoso e nella fontana, più bianca del latte, entrambe di Merlino, nella descrizione multicolore di Pinabello del Canto III, e nella caverna cava e fiammante nella quale scende Brandimante utilizzando un ramo d‘olmo frondoso. Sono solo alcuni esempi di un tessuto criptato ed enigmatico che carsicamente emerge in modo sistematico nell’opera e trova soluzione solo nella tradizione dell’arte regia.

Lo stesso Rodomonte, come ha bene evidenziato il Prof. Franco Picchio nelle sue opere, viene descritto nell’assalto a Parigi come essere attraversante i quattro elementi alchemici dell’aria, acqua,terra e fuoco, e similmente questo canone ermetico, insieme alla terna ermetica “sale, mercurio e zolfo”, può essere utilizzata quale griglia esplicativa per tentare di svelare i sensi riposti del ciclo ricostruendolo in modo unitario. Non solo l’Orlando fu influenzato dalla cultura esoterica rinascimentale ma esso stesso influenzò la stessa cultura e arte esoterica a pochi anni dalla sua diffusione. Basti pensare al Bosco di Bomarzo e al carteggio fra Pierfrancesco Orsini, il suo fondatore, e l’alchimista francese Jean Drouet, entrambi conoscitori dell’Orlando e dell’Hipnerotomachia.

La scelta, eccentricamente enigmatica, di dedicare la prima parte del ciclo pittorico al racconto delle malefatte di Gabrina giovane, raccontato da Ermonide d’Olanda a Zerbino in tutto il Canto XXI, stupisce e fa riflettere. Perché scegliere un personaggio minore? Perché iniziare con un tema che non trova continuità narrativa o sequenziale nelle altre scene ariosteche e non appare con congruente del tutto neppure con il testo dell’Orlando?

Eppure è proprio la scena iniziale , così ricca di segni e simboli ultronei, da fungere quale chiave di volta esoterica al senso di tutto il ciclo. Il primo riquadro in fatti unisce una statua candida, ad un asino e ad un lume posto sopra il letto. L’essenziale cornice simbolica non è ariosteca, ma connota e plasma in modo determinante la stessa scena ariosteca di Filandro ferito a letto e tormentato dalla passionale e ossessiva Gabrina.

La statua bianca e la parola “fidelitas” alla sua base possono trovare un precedente mitologico solo nella storia di Pigmalione e della metamorfosi della sua perfetta opera in Galatea. Il senso trasformativo potrebbe dimostrarsi compatibile con la logica alchemica della trasformazione e vivificazione della Pietra filosofale. Pigmalione, l’artista “nano”cioè pigmeo e quindi simbolicamente “nero”, e cipriota, grazie ad Afrodite e alla sua fedeltà amorosa e ideale, ottiene la viva, candida e lattea Galatea, emanazione di Afrodite stessa e simbolo panico, alchemicamente mercuriale, nella lode di Polifemo nelle Metamorfosi.

Oltre a ciò i mitografi ci parlano anche di un Polifemo argonauta, e la loro impresa fu sempre associata simbolicamente all’Opera alchemica. Se poi consideriamo l’allusione a Polifemo contenuta nel Morgante (V, 37-65) nella descrizione dell’Orco, tellurico e fiammante, che assale Rinaldo nella foresta, e nello stesso Orlando Furioso nella figura di simile Orco, che suona la zampogna e uccide gli uomini ma non le “mercuriali” donne (Canto XVII,35) possiamo riflettere su come sottili rimandi e concordanze mitoermetiche e simboliche, come pure analogamente diremo sul nome di Polinesso/Polisseno, ci permettano di tentare di ricostruire un tessuto connettivo capace di decrittare i misteriosi dipinti in quanto ad essi affine quali precipitati propri del linguaggio della cultura esoterica rinascimentale.

Filandro a letto ricorda l’immagine alchemica ricorrente del Re agonizzante sul letto (talvolta con un lume vicino al capo oppure sudante o infiammato) citata ad esempio da Massimo Marra nel suo articolo sul numero di Airesis del 2007 dedicato all’alchimia (pg. 205) e ben evidenziata alla tavola XLVIII dell’Atalanta Fugien di Mayer. Il motto del coltello nella prima scena potrebbe interpretarsi quale segno/via di incisione nella materia grezza che va trasformata. Il coltello, simbolo lunare di transizione, come nel ciclo bretone i vari taglieri d’argento paragraalici su cui posa il cervo cucinato, potrebbe indicare il mercurio, nascosto appunto “sub”, sotto la scorza della materia prima, rappresentata dell’umanità ferita di Filandro. Il lume acceso sopra il capo indica un segno di speranza superiore trasformativa data dall’iniziale delicata accensione del vaso ermetico. La frase “rimane sotto il coltello” potrebbe quindi apprezzarsi come frase avente ad oggetto il fuoco/luce filosofico che deve covare sotto e dentro il mercurio racchiuso nella materia prima.

Nel microciclo di Gabrina compaiono tre simboli animali esoterici preziosi per approfondire il senso ermetico delle scene dipinte: l’asino, il cervo, la gru-cigona. L’asino è simbolo sapienziale in quanto silenico, bacchico e scritturale (sia biblico che vangelico): da Apuleio a Giordano Bruno l’asino si rivela paradossalmente quale simbolo di sapienza e di trasformazione sapienziale. Nell’alchimia poi appare quale simbolo della materia prima dell’Opera, analogo alla metafora della pietra. L’accostamento asino/statua conferma anche questo risvolto simbolico, sia nel riferimento alla materia grezza da trasformare e sottoporre a cottura sia nel più ampio riferimento ad Afrodite, potenza cosmico-alchemica.

Il cervo invece, compare con una cornamusa nella seconda scena. Il cervo è immagine universalmente nota nel mondo alchemico quale segno del mercurio e protagonista nel ciclo di Atteone di Fontanellato del Parmigianino, pittore che si occupò di alchimia, come in Giordano Bruno e in numerose opere ermetiche e aristiche. Forse questo è uno dei dettagli più enigmatici. La cornamusa è presente nell’arte pittorica medioevale e rinascimentale, quale strumento degli tipici angeli musicanti che attorniano la Vergine e le Natività, oppure attributo dei pastori, ma anche nei dipinti medioevali delle danze macabre. Nella mitologia la usa Polifemo per salutare Galatea e anche talvolta viene raffigurato con essa Marsia.

Al di sotto del senso essoterico evidenziato dalla Rajna, potrebbe celarsi il senso esoterico del mantice dell’alchimista, o un segno di distruzione armonica, creativa e controllata del mercurio volgare. L’immagine può trovare un analogia in quella dell’asino sapienziale che suona il flauto a forma di trombetta mentre se ne sta appoggiato ad una cornucopia e circondato da un girotondo di scimmie nell’opera “ Della tramutatione metallica sogni tre” del bresciano Giovanni Battista Nazari.

La natura scimmiesca di Gabrina l’accomuna all’asino sapienziale, e la rivela quale funzione salina e dissolvente, preziosa e necessaria per la prima trasformazione della materia alchemica. La cornamusa potrebbe rappresentare anche lo stesso athanor o vaso ermetico, in base alla Tavola di Smeraldo che incentra l’attenzione sul vento fecondatore e seminatore della terra, quale momento iniziale dell’Opera. L’asino e Filandro sono esseri “feriti” e grezzi ma si trovano sulla giusta via di trasmutazione salvifica se restano fedeli al fuoco afroditico-alchemico che fa vivere la pietra e forma l’uomo nuovo risanato e redivivo.

La statua quindi corrisponde all’asino e il numero otto del misterioso oggetto da essa retto nella mano sinistra corrisponde a Saturno come si evince ad esempio dall’affresco di Saturno al Palazzo della Ragione di Padova e dall’opera di P. Bruegel il vecchio sul trionfo di Saturno. Dal malato Filandro all’Homo Novus trionfante sulla tartaruga attraverso l’ippogrifo astolfiano: ecco la via della trasmutazione sapienziale. Più specificamente il cervo, simbolo del mercurio alchemico, animale che unisce cielo a terra con le sue simboliche corna nella seconda scena “suona”, cioè vibra e incanta, e suonare uno strumento pastorale è segno cristico-bacchico di dolce persuasione. A cosa vuole persuadere? Affinché “il lupo impazzisca” sembra dirci, cioè affinché l’antimonio si scateni nel travaglio alchemico degli elementi.

La cornamusa nella musica alchemica, aspetto importante dell’Opera, è simbolo, come l’oca e la gru, della Luna e dell’acqua, della nascita e della maternità verginale, del “latte di vergine”, nome criptato spesso ricorrente nel testi ermetici. Nell’Orlando la zampogna compare solo in un passo quale strumento suonato dal misterioso Orco cieco (XVII; 35), che ricorda tanto Polifemo, un mostro cortese che divora gli uomini ma rispetta le donne, forse simbolo alchemico della distruzione della materia prima necessaria per estrarre e liberare il mercurio filosofico. Nella mitologia Polifemo suonava la cornamusa per Galatea. Nella storia di Gabrina dominano le torri, come i vasi alchemici nel laboratorio dell’alchimista.

Filandro, già ferito e “ostaggio” di Gabrina, è pure prigioniero nella torre di Argeo, il cui nome ricorda Argo, ucciso da Hermes nella mitologia greca e trasformato in pavone da Hera. La torre è ricorrente simbolo dell’alambicco alchimistico in cui avviene il travaglio degli elementi e nella terza scena pure Argeo sembra in prigione, mentre la luce ora è nelle mani di Gabrina. Il motto del “pranzo” si apprezza solo congiuntamente agli elementi, non secondari, del frassino, sacrificale e saturnino, dei due cipressi, e delle gru/cicogne che tornano per nutrire la prole e sostano sul loro nido, aiutano ad intuire l’allusione sapienziale e trasformativi che cela la morte pura e rituale di Filandro.

Il motto “Sub cultro linquit” significa narrativamente in Orazio: “lasciare sotto tortura, sotto pena”, qui simbolicamente: il travaglio della materia prima aggredita dal sale, dagli acidi e dal fuoco Appare operazione riduttiva e nozionistica pensare che il committente abbia voluto rinviare ad Orazio per un mero citazionismo da eruditi in una scena enigmatica totalmente aliena dal passo delle Satire in cui compare il modo di dire latino. In ogni caso alchemicamente l’antica frase figurata, probabilmente di uso comune, permette di approfondire il senso misterico dell’immagine dipinta se si fa riferimento al travaglio dell’Opera, alla materia prima e al mercurio volgare attaccato dagli acidi e dal sale che lo feriscono e tormentano come Gabrina tormenta Filandro.

Nel suo complesso il soggetto iniziale va quindi da una parte tipizzato accostandolo al topos cavalleresco e arturiano della prova di pazienza e di tenacia, non scevra anch’essa da risvolti esoterici, dall’altra va co-implicato rinviando all’elemento ermetico del sale e alla fase della Nigredo. Per il primo aspetto troviamo un archetipo eccellente nel ciclo bretone (ben presente nell’Orlando ad esempio nei passi su Merlino) quando Galvano deve sopportare le angherie di una Dama crudele e similmente opera il personaggio della terribile megera che accusa Parsifal davanti ad Artù dopo il primo fallimento del cavaliere in Chretien de Troyes, oltre alla terribile Dama calva recante teste mozzate e sigillate (in piombo, argento, e oro) nella versione gallese del ciclo, il Perlesvaux.

Il secondo aspetto appare connesso con l’immaginario saturnino nel suo lato oscuro. Saturno, anche nel mondo rinascimentale e alchemico, non solo appare quale archetipo della perfezione e della sapienza, ma manifesta pure una dimensione infera. E in entrambi i sensi appare quale segno dell’arte regia. Gabrina nell’Orlando rivela tutti i caratteri di questo Saturno terribilis: melanconia e colore nero (Canto XX,CVI), ira e sibillinicità (Canto XX,CXX) silenzio (XX,XLIV), durezza (XXI,CXXXI), mutevolezza (XXI,CXVI), imprevedibilità, crudeltà, immoralità e avarizia (XXIII, XLI), oltre a comparire all’inizio in una sapienziale grotta sotterranea e luminosa, custode della bella Isabella (Canto XII, XCII), come Crono custodisce il suo simbolico tesoro nella terra. Proprio i due alberi con cui inizia e finisce la comparsa di Gabrina nell’Opera, il sorbo vicino alla grotta e l’olmo a cui viene impiccata, sono tradizionalmente considerati nella letteratura ermetica segni di Saturno.

E la stessa vecchia vicino alla grotta dipinta e poi aggiogata al carro dell’Uomo sapiente trionfante possono leggersi quali echi del medesimo segno, trasmutato: il passaggio dall’aspetto plumbeo a quello aureo di Saturno, l’alfa e l’omega dell’Opera stessa. In questa simbolica ambivalente Gabrina adombra l’analoga figura alchemica del Corvo, che si riteneva si nutrisse degli occhi del cadavere, segno di una forza cosmica superiore, terribile e inflessibile, segno della Nigredo, la prima fase alchemica di purificazione, putrefazione e spoliazione. Non a caso Gabrina spoglia il cadavere di Pinabello di un cinto di cui si cinge (Canto XXIII,XLII).

Nelle quarta scene di Gabrina si notano due cipressi, uno secco e uno verde, ulteriore importantissimo segnale linguistico. Il cipresso è simbolo di immortalità, incorruttibilità e speranza, e la coppia arborea richiama il senso della trasmutazione alchemica quale mimesi, nel microcosmo della Resurrezione cristica, tanto più che secondo una leggenda medioevale relative ad Abramo il cipresso si credeva rappresentasse il Figlio. Lo stesso mito greco di Ciparisso, che dà il nome al cipresso, richiama la fissazione del mercurio rappresentata dall‘uccisione del cervo apollineo e solare.

In tutto il ciclo si alterna con precisione un cenno rosseggiante di vegetazione mischiato al verde che sembra riecheggiare e rinnovare la conosciuta mitologia dei due alberi, secco e verde, simbolo così diffuso da essere assunto anche nell’araldica (ad esempio lo stemma dei Malaspina) mentre solo nelle scene finali dell’Uomo sapiente e della salita mistica al Cielo non compare la vegetazione rosseggiante e domina, in primo piano e vicino alla tartaruga, finalmente un albero solitario del tutto verde, segno dell’unità vitale restaurata.

L’albero secco e verde è infatti simbolo antichissimo: dall’Antico Testamento ai vangeli apocrifi, dal ciclo bretone alla mitologia medioevale su Alessandro Magno, fino all’ermetismo rinascimentale, come emerge ad esempio dal carro di Saturno di Bruegel dove un albero mezzo secco e mezzo verde cresce dal globo cosmico e zodiacale su cui domina il nume alchemico. Simbolo che compare anche in Hieronimus Bosch nell’opera “Concerto nell’uovo”, nell’ermetico quadro del Guercino sull’Arcadia, nell’opera “Allegoria” di Lotto, e in una raffigurazione del testo sapienziale “Miscellanea d’Alchimia” in cui dal ventre di un uomo morente si erge un albero.

Ma forse l’immagine più nota è la scena di Adamo ed Eva nella michelangiolesca Cappella Sistina, dove compare un ramo secco prossimo ad un albero verde L’immagine, già biblica, ebbe grande fortuna probabilmente per il celebre passo del Vangelo della Passione secondo Luca in cui Cristo usa la relativa metafora (Luca 23.31) Il passaggio dal legno vecchio al legno giovane è segno così antico da visualizzarsi già nel manoscritto di Ashburn del 1166 conservato alla Biblioteca Medicea Laurenziana. Assieme ai due cipressi misterici troviamo anche la gru o cicogna: animale anch’esso non a caso alchemico, con i suoi colori tipici, nero, bianco e rosso, esprimente una fase della trasformazione della materia, ma anche segno di vigilanza e di fedeltà nuziale e coniugale.

L’immagine della gru nella mitologia greca era congiunta al concetto del labirinto e alle connesse danze rituali, e tradizionalmente è ricordato come volatile sacro alla Luna, cioè a Iside, un animale quindi psicopompo, guida ai mondi inferi, infatti sacro anche ad Ermete, che era pure araldo dell’Ade, e ciò appare concordante con un’interpretazione della sequenza quale appartenente al seno dell’”Opera al nero”. Nella prima tavola dello Splendor solis compare infatti una gru, come a riassumere il senso stesso del viaggio dell’Opera. Un antica tradizione, risalente all’Iliade, ricorda poi il combattimento delle gru contro i neri pigmei, e i pigmei vengono citati nel motto della scena quinta. Il confronto fra i pigmei e una dimensione da “colosso” ricorda poi l’analogo misterioso episodio della presenza di Ercole fra i pigmei.

In entrambi i casi sembrano immagini che nel rinascimento possono essere state reinterpretate simbolicamente quale lotta trasmutativa fra gli elementi, anche in considerazione del fatto che secondo il racconto mitico i neri pigmei cercano di vendicare il tellurico Anteo attaccando il solare Ercole. I pigmei rappresenterebbero quindi l’elemento terra, materia oggetto di trasformazione attraverso l’erculeo fuoco alchemico.

Ma l’albero secco rivela anche un senso specificamente alchemico, così chiaro, conosciuto e preciso, da esserci spiegato ancora a metà del ‘700 dal pensatore sapienziale e alchemico Dom Pertiny: indica i metalli cotti ed esausti. La materia metallica va infatti cotta nel lavoro ermetico fino a farla retrocedere allo spirito comune a tutti i metalli, il caos umido. Operazione pericolosa e instabile nei risultati, e non a caso il motto enigmatico della scena allude a un “pranzo” mentre Gabrina avvelena il medico e il marito nei dipinti. Un pranzo trasformativo e sacrificale quindi e in quanto tale metafora ermetica.