La facciata principale della Cattedrale Lateranense, che prospetta su piazza di Porta San Giovanni dialogando con la Civitas lateranense classica e l’edicola con i resti in mosaico dell’abside del Triclinio del secolo IX di Leone III è stata realizzata, nelle fattezze odierne, tra il 1732 ed il 1735 dall’architetto Alessandro Galilei, vincitore del concorso indetto da Clemente XII.
Se i lavori di rifacimento ebbero compimento nel Settecento, durante il pontificato di Clemente XII (1730-1740), in realtà il problema dell’ammodernamento dell’esterno della basilica, dell’assetto e della riformulazione urbanistica della piazza, insieme al complesso episcopale, si pose già un secolo prima con papa Innocenzo X (1644-1655). Questi aveva quasi certamente previsto, insieme al restauro realizzato da Francesco Borromini all’interno della chiesa, anche il rifacimento dell’esterno, come testimonia il muro di mattoni eretto dall’architetto del Canton Ticino, davanti alla facciata più antica, che doveva fungere da base del suo progetto, mai eseguito, di un portico esterno sormontato da una loggia. Proprio sul medesimo muro poggia la facciata settecentesca del Galilei.
Il problema del rinnovo della facciata del grande tempio, uno dei simboli più importanti del cristianesimo, venne infatti sentito da molti pontefici e per questo si alternarono vari progetti nel corso degli anni, come dimostra un altro interessante elaborato presentato da Carlo Fontana a Innocenzo XII (1691-1700), approvato e finanziato con ben 60.000 scudi.
Il successore di Innocenzo XII, Clemente XI (1700-1721), non fu soddisfatto né dell’elaborato di Carlo Fontana, né del successivo di Ferdinando Fuga, che si ispirava alla cultura borrominiana delle linee concave e convesse modulando l’esterno con l’interno, e bandì nel 1705 un concorso per la nuova facciata che non portò però ad una realizzazione pratica.
Progetto di Francesco Borromini
In seguito Innocenzo XIII (1721-1724) acquistò dagli eredi di Borromini un progetto dell’architetto barocco, in cui la facciata era costituita da una costruzione bassa a nartece con cinque aperture ad arco a tutto sesto in corrispondenza delle cinque navate e due aperture, sempre con arco a tutto sesto per i lati corti, e paraste all’estremità che richiamavano il sistema spaziale interno.
Questo progetto venne scelto anche da papa Benedetto XIII (1724-1730), che si trovò però a non poter iniziare i lavori perché i materiali destinati inizialmente alla facciata erano già stati impiegati per la costruzione, all’interno della chiesa, delle cappelle di Santa Maria Assunta, degli Antonelli e di San Giovanni Nepomuceno.
Il definitivo concorso e la nuova facciata di Galilei
Finalmente la questione venne risolta da Clemente XII che, dopo l’ennesimo e travagliato concorso indetto dall’Accademia di San Luca, a cui parteciparono i maggiori architetti dell’epoca, come Nicola Salvi e Bernardo Antonio Vittone, venne vinto da Luigi Vanvitelli e da Alessandro Galilei, ma la scelta del pontefice cadde su quest’ultimo.
La nuova facciata principale (facciata orientale) di Galilei, ultimata nel 1735, abbandona gli schemi barocchi realizzando un classicismo più grandioso e perentorio rispetto ai progetti concorrenti. L’architetto ricerca una nuova linearità delle forme, che semplifica e geometrizza gli spazi, predilige la verticalità e nello stesso tempo possiede una innegabile potenza grazie all’altissimo ordine formato dalle due coppie centrali di semi-colonne e ai sei pilastri definiti da paraste poggianti su un alto stilobate decorato con le chiavi di Pietro e gli emblemi di Clemente XII.
L’impianto si inserisce nella tradizione tipologica romana di facciata ecclesiale con portico e loggia delle benedizioni uniti qui sinteticamente nell’ordine gigante. Galilei realizza grazie all’eliminazione della parete piena un prospetto completamente aperto capace di mettere in comunicazione l’esterno con l’interno e in particolare con il complesso scultoreo altare papale-ciborio, vero e proprio reliquiario destinato ad esporre, nel piano superiore a giorno, le teste degli apostoli Pietro e Paolo.
Le iscrizioni
I pilastri della facciata, costruiti tenendo presente le zone di ombra profonde, scandiscono cinque vuoti, corrispondenti alle navate interne, trabeati al primo piano e con arco a tutto sesto nel secondo. L’ingresso centrale annovera ai suoi lati questa iscrizione:
sacro lateran. eccles. / omnium urbis et orbis ecclesiarum mater / et caput
[sacrosanta Chiesa Lateranense, Madre e capo di tutte le Chiese della città e del mondo]
Su altre due basi attigue sono raffigurati degli umbraculum, ombrelli di colore giallo e rosso che venivano un tempo usati per riparare i pontefici dalla pioggia. Con la raffigurazione di questi ombrelli si è voluto sottolineare la peculiarità e l’importanza di questa chiesa, Cattedrale del Vescovo di Roma, il Papa.
La facciata è divisa orizzontalmente dalla galleria-loggiato del secondo piano e dall’epigrafe del V secolo inserita appunto nel fregio di divisione tra i due portici:
dogmate papali datur ac simul imperiali / quod sim conctarum mater caput ecclesiar (um) / ac / salvatoris coelestia regna datoris nomine sanxerunt / sic nos ex toto conversi supplice voto / nostra quod hec aedes tibi xpe sit inclita sedes
[è stabilito per dogma papale ed imperiale che io sia Madre e capo di tutte le Chiese, e sancito nel nome del Salvatore che dispensa i regni celesti. Così noi, con supplice voto, chiediamo che questa casa ti sia, o Cristo, illustre sede]
Parte dell’epigrafe marmoree appartenente alla grande iscrizione in caratteri gotici del XII sec., incisa nell’architrave principale della precedente facciata della basilica è oggi conservata nell’attiguo chiostro lateranense.
Un freno all’accelerazione verticale è dato dalla conclusione dell’edificio composta da un cornicione su cui poggiano uno stretto timpano triangolare ed una balaustra traforata, che alleggerisce il peso visivo e, allo stesso tempo, sostiene i pilastri su cui spiccano, al centro, la statua del Salvatore, ed ai lati i dodici Dottori della Chiesa greca e latina. L’iscrizione posta sul cornicione terminale della facciata celebra l’evento della sua costruzione e Clemente XII che l’ha voluta realizzare:
Clemens XII max anno v christo salvatori in hon ss. ioan. bapt. et evang. MDCCXXXV
[Clemente XII Pontefice Massimo nell’anno V del suo pontificato a Cristo Salvatore e ai Santi Giovanni Battista ed Evangelista, 1735]
L’insieme della facciata segue un’intelaiatura rigida capace di instaurare sinergie sia con l’ampiezza dello spazio antistante, che corrispondeva alla campagna romana oltre le vicine mura Aureliane, sia con quello interno borrominiano. La monumentalità degli ordini architettonici richiama gli esempi della cultura romana espressa da Michelangelo Buonarroti nei Palazzi Capitolini e da Carlo Maderno nella facciata della basilica di San Pietro, la più vasta e imponente applicazione a carattere sacro. Ma è impossibile non fare riferimento anche a Donato Bramante e, in particolare, al Palladio.
Il Galilei, architetto del Granduca di Toscana, aveva soggiornato, in realtà con poca fortuna, alcuni anni in Inghilterra dove stava giusto allora riproponendosi con successo l’architettura del Palladio dei cui libri dal 1711 si era iniziata la ristampa a Venezia, all’Aia e nella stessa Londra. Galilei ha richiamato nella sua opera i pregi del Cinquecento architettonico, da Bramante al Palladio, e li ha fusi con quanto gli suggeriva il Barocco romano della metà del Settecento, come dimostra l’uso del contrasto chiaroscurale del travertino con l’ombra dei loggiati e la ripresa della lezione di Gian Lorenzo Bernini nell’attico e nel fastigio animati dalle statue a tutto tondo.
La decorazione scultorea
La facciata annovera una decorazione scultorea che corona l’esterno dell’edificio realizzata nel 1735 da diversi artisti attivi a quell’epoca, seguendo lo schema monumentale della costruzione nelle forme e nelle dimensioni, le quindici statue in travertino sono infatti alte circa sette metri. Il timpano contiene due Angeli, simili a Vittorie alate classiche, scolpiti da Paolo Campi, che sostengono una ghirlanda contenente un clipeo con il mosaico Cristo benedicente. Quest’effige è un frammento superstite della decorazione della facciata medievale realizzata per volere di Niccolò IV (1288-1292) insieme alla decorazione dell’abside tra il 1289 ed il 1291. Il mosaico della facciata è attribuito a Jacopo Torriti, autore certo dell’abside, o comunque alla sua scuola per lo stile elegante e la resa dei tratti fisionomici, oltre che per il carattere estremamente delicato e sfumato del colore.
Le statue, disposte lungo il perimetro della facciata, sulla balaustra, hanno al centro il Salvatore di Paolo Benaglia, mentre ai lati S. Giovanni Evangelista di Luigi Pellegrino Scaramuccia e di S. Giovanni Battista di Bartolomeo Pincellotti, seguono dodici tra i Dottori della Chiesa greca e latina: S. Gregorio Magno di Giovanni Battista de’ Rossi, S. Girolamo di Agostino Corsini, S. Ambrogio di Paolo Benaglia, S. Agostino di Bernardino Ludovisi, S. Atanasio di Pierre d’Estache, S. Basilio di Giuseppe Riccardi o Giuseppe Frascari, S. Gregorio Nazianzeno di Carlo Tantardini o Giuseppe Riccardi, S. Giovanni Crisostomo di Carlo Tantarini, S. Bernardo di Tommaso Tomassini o Tommaso Brandini, S. Tommaso d’Aquino di Pascal Latour, S. Bonaventura di Baldassarre Casoni, S. Eusebio di Vercelli di Gian Lorenzo Lazzaroni.
Epilogo
Negli anni tra il 1730 e il 1743 si realizzano a Roma architetture straordinarie ad opera dapprima di Alessandro Galilei nella nuova facciata della basilica di San Giovanni in Laterano e successivamente di Ferdinando Fuga nella facciata della basilica di Santa Maria Maggiore, l’ultima grandiosa architettura del secolo. Entrambi architetti fiorentini chiamati a Roma da Clemente XII, Corsini di Firenze.
Nel progetto del Galilei si evince un richiamo ad un linguaggio preciso e schematico, ad una linearità tesa con esattezza in verticale come in orizzontale per meglio concludere la inequivocabile unità compositiva della massa, a volumi taglienti e definiti, a rapporti chiaroscurali geometricamente scanditi. Qualità queste che manifestano un istintivo processo di semplificazione, che tenderanno a qualificarsi soltanto in epoca neoclassica, ben lontane tuttavia dalla monumentalità contestualmente armoniosa di questa architettura del Settecento romano.